ELENA SCOLARI | Lo scrittore francese André Gide (Premio Nobel 1947) nel 1932, durante una conferenza sulla letteratura russa, disse: “Dostoevskij non si è mai cercato, egli si è perdutamente dato nella sua opera. Si è perduto in ciascuno dei personaggi dei suoi libri, e proprio per questo noi lo ritroviamo in ognuno di essi”. E forse la grandezza ‘definitiva’ della scrittura di Fëdor Dostoevskij sta nel far rintracciare al lettore, nei suoi meravigliosi e magnetici personaggi, le tante prismatiche parti di cui un uomo è composto, un po’ di noi e delle nostre paure stanno in tutti i suoi libri.

I fratelli Karamazov è l’ultimo ponderoso romanzo del grandissimo scrittore e fu pubblicato a puntate su Il messaggero russo dal gennaio 1879 al novembre 1880 (quasi due anni di puntate, n.d.r.), l’autore morì pochi mesi dopo.
“Chi non vorrebbe uccidere il proprio padre?”, così viene detto nel romanzo dall’acuto, razionale, irrisolto Ivàn, il più intelligente dei tre fratelli. Psicanaliticamente parlando, Freud andò a nozze con un’affermazione del genere e ci scrisse anche un saggio sopra (“Dostoevskij e il parricidio“, 1927) ma egli la intendeva in senso metaforico; nella torbida storia di questa famiglia russa il parricidio è invece reale, ma a commetterlo è un quarto figlio, Smerdjakov, non riconosciuto dal padre Fëdor Pavlovič, che lo aveva vergognosamente concepito con una donna minorata. E Smerdjakov sarà un servo servile in casa Karamazov, obliquamente sottomesso e pericolosamente ambiguo. Il nome potrebbe derivare sia da smerd, contadino nel senso di rozzo, sia da smerdèt, il verbo puzzare. Niente di lusinghiero, in ogni caso. Per intenderci, da bambino amava impiccare i gatti (ma poi faceva anche il funerale) e da adulto era un tipo che lanciava al cane bocconi di pane con dentro uno spillo. Fingeva anche attacchi epilettici alla bisogna. Amabilissimo.

I fratelli legittimi di Ivàn sono l’ingenuo e angelico Aleksej, detto Alioscia, e il primogenito Dmitrij, estremo e scialacquatore, che sarà accusato dell’omicidio paterno. Il delitto, però, arriva soltanto dopo centinaia e centinaia di pagine, e a mio parere non è nemmeno il vero punto centrale del romanzo, che sta piuttosto nel come si arriva all’epilogo tragico. C’è molto di tragico pure prima, a onor del vero, e l’intero romanzo consiste nel tessere, in un racconto fatto quasi giorno per giorno, la trama dei conflitti di una famiglia problematica, con tre fratelli molto diversi tra loro, che si ritrovano con un padre dissoluto, vizioso, ingeneroso, incapace di essere d’esempio.
Man mano che si procede nella lettura, impegnativa senza dubbio, si entra nella testa dei personaggi, l’autore presenta i loro pensieri con una tale precisione da farli veramente conoscere al lettore: dopo qualche settimana pare di vederseli girare per casa, diventano addirittura familiari, tanto aperte sono le loro confessioni, tanto esplicita l’espressione delle loro idee a noi che leggiamo la loro vita.

Lo spettacolo Il delitto Karamazov, andato in scena al Teatro Out Off di Milano nei giorni scorsi, con la drammaturgia di Fausto Malcovati e la regia di Lorenzo Loris si concentra sul processo, dunque sulla fase finalissima dell’opera. Sul palco i fratelli Ivàn (Antonio Gargiulo) e Alioscia (Matteo Vitanza), il figliastro Smerdiakov (Mario Sala), il servo Grigorji (Giuseppe Gambazza) e, in platea, il giudice, sua eccellenza Malcovati, che dalle poltrone chiama gli imputati a testimoniare.
Arredi di scena sono pochi elementi non particolarmente significativi: una pedana di legno inclinata che sarà podio per le prolusioni di Ivàn e letto di malattia di Smerdiakov, una panca e una specie di ring delimitato, a destra del palco, dove si terrà il duello verbale tra Ivàn e l’esecutore del misfatto. Ci sono anche tre schermi sospesi dall’alto, sui quali compaiono immagini allusive ma confuse (di Saba Kasmaei), tutto sommato inutili. I costumi (di Nicoletta Ceccolini) sono buoni, salvo quel punto di modernità forzata dato dagli anfibi indossati da Ivàn che non hanno vera corrispondenza.

Tutta la mia appassionata premessa ha la funzione di spiegare perché entrare in casa Karamazov dalla fine della vicenda di famiglia è un po’ come cominciare il libro a pagina 700: risulta difficile capire perché è successo quello che è successo. E soprattutto si è costretti a fidarsi di quelle poche dichiarazioni che i personaggi fanno su loro stessi e ognuno sull’altro, privati di un lungo, lento ma indispensabile processo di conoscenza che porta il lettore (o lo spettatore) a sospettare, a supporre, a ipotizzare prima che il giallo sia svelato. Questa scelta induce quindi a presentare i personaggi in maniera caricata, perché si colga in pochi minuti quello che Dostoevskij ha impiegato tre tomi per rendere chiaro. I due fratelli e il fratellastro assassino risultano quindi semplificati, senza storia, e la regia è portata a tenere un ritmo acrobatico per comprimere un testo comunque complesso e articolato in un’ora e venti di spettacolo.
Perdere l’approfondimento e lo scandaglio psicologico – certo non facile da trasporre in teatro – significa non arrivare a capire cosa cova negli animi di questi uomini. Per esempio, la lotta tra Fëdor Pavlovič e Dmitrij per le attenzioni della frivola Grusčenka non è una banale questione di gelosia: per l’uno è rigurgito di vita giovane in un anziano dissoluto, per l’altro è innamoramento passionale e ossessivo con il vigore pari all’età.

C’è movimento, in scena, soprattutto per Ivàn, che cammina avanti e indietro, roso dal tarlo filosofico di dubbi sulla fede, sulla giustizia, sulla morale; Gargiulo è deciso, si sente che potrebbe essere un Ivàn più che convincente e si avverte la fascinosità della sua carica: gli manca il tempo per diluire meglio le sfaccettature della personalità più ammaliante del romanzo. Matteo Vitanza ha la giusta fisicità per un Aleksej ‘santo’, aureolato di bontà morale, ma anche lui ha la possibilità di esprimere solo il lato caritatevole e non quello più spirituale. Mario Sala si avvicina molto a come ci si immagina Smerdiakov, per quella sua aria svagata e sogghignante, ma gli manca un pizzico di inquietante sprezzo. Gambazza è equilibrato e di modi aderenti alla semplicità ruvida del servo Grigorij.

L’idea registica del giudice in platea è efficace, perché mette gli attori nella posizione di deporre davanti al pubblico, il quale assume – passivamente – il ruolo di giuria, come se fossimo tutti chiamati a riflettere sulle nostre colpe. E Malcovati è freddo e professionale quanto basta per incutere un timorato rispetto.
L’assassinio è certo un finalone ma è il punto d’arrivo di un continuo e costante crescendo; che monta fino a giungere alla conclusione mortale. il respiro dello spettacolo è invece in contrasto con il ritmo della scrittura che ne è la fonte.

Senza rivelare completamente l’esito giudiziario e umano della vicenda e dei personaggi, è però importante ricordare che, al di là della sentenza, quello che conta ne I fratelli Karamazov è chi si sentirà veramente in colpa: Ivàn si percepirà come il mandante morale di un omicidio non commesso ma indotto, con le sue raffinate teorie more geometrico demonstratae, di fronte a un uomo che, in fondo, aspettava solo di essere convinto che sia tutto possibile, se un Dio non c’è, e che si risolve, per avidità e risentimento, a compiere un atto folle, che sarà il fallimento suo e del suo ispiratore. Tremila rubli sono il prezzo meschino di un fasullo concetto di libertà che basta a far disporre della vita altrui.

IL DELITTO KARAMAZOV

di Fëdor Dostoevskij
drammaturgia Fausto Malcovati
con Mario Sala, Fausto Malcovati, Antonio Gargiulo, Matteo Vitanza, Giuseppe Gambazza
regia Lorenzo Loris
costumi Nicoletta Ceccolini
musiche realizzate dagli allievi della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado del corso di composizione (IRMus)
scene Stefano Sgarella e Lorenzo Loris
luci e video Saba Kasmaei
coproduzione Teatro Out Off e CTB – Centro Teatrale Bresciano

Teatro Out Off, Milano – 7 febbraio 2023