RENZO FRANCABANDERA | Romeo e Giulietta (Romeo și Julieta) di William Shakespeare adattato e diretto dal regista pugliese Michelangelo Campanale, ha debuttato in prima nazionale al Teatro Bonci di Cesena: una coproduzione internazionale, multilingue, di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, La Luna nel Letto e Teatro Excelsior di Bucarest, in italiano, inglese e rumeno (sottotitolata in italiano).
La compagnia La Luna nel Letto, che dal 2002 crea per adulti e ragazzi – due volte Premio Eolo Award per i migliori spettacoli italiani rivolti alle nuove generazioni – affronta, insieme a un gruppo di attori del Teatro Excelsior, il dramma di Shakespeare sull’amore: Romeo e Giulietta viene affidato all’interpretazione di 13 attori della Compagnia La Luna nel Letto e del Teatrul Excelsior Bucuresti, con i Capuleti italiani e i Montecchi rumeni. Un processo lungo e complesso che Campanale ha raccontato in una recente intervista che Ilena Ambrosio ha realizzato per PAC.
La prima e più evidente suggestione di questo spettacolo risiede nella scelta del regista di creare da subito una relazione diretta e rituale fra l’azione teatrale e la liturgia di derivazione cristiana. Un attore officiante in proscenio sulla estrema sinistra apre lo spettacolo descrivendo, come in una genesi, la creazione drammaturgica shakespeariana quasi fosse il verbo biblico: “E Shakespeare creò… e fu cosa giusta”.
In questa forma sono non solo il prologo e l’epilogo, ma tutta una serie di inserti in cui egli esercita un’istanza narrativa collaterale, sospesa in uno spazio altro rispetto a quello della rappresentazione e connotato da due microfoni con leggìo, uno a sinistra e uno a destra.
Uno spazio in cui di rado si aggiungeranno altre figure, cui l’officiante cederà il microfono, ma quasi seguendo, controllando, come fa il sacerdote con il chierichetto o con la devota inesperta, indicando con il dito la frase delle letture da leggere e restando vigile alle sue spalle perché tutto venga fatto secondo il rito.
Nel frattempo gli occhi dello spettatore guardano la scena vuota, una scatola nera con il palcoscenico vuoto al centro e due file di sedie di legno nere disposte ai lati dello spazio d’azione. Una leggerissima nebbiolina d’atmosfera occupa sia l’aria dello spettacolo che la platea. Una griglia di luci determina, con il suo andamento diagonale, una sorta di gabbia schematica, quasi a raccontare la società bloccata dentro schemi e regole fisse, determinate. Entrano gli attori e si siedono mentre l’officiante inizia questa breve introduzione di tono evangelico.
Partono i sovratitoli, necessari perché parte del testo viene recitata in inglese, mentre con il proseguire dello spettacolo prenderà spazio anche l’idioma rumeno, di cui sono interpreti principalmente gli attori della compagnia di quella nazione, ma usato anche come lingua dell’amore semplice, quello che non si può raccontare.
Le due famiglie opposte, i due schieramenti divisi entrano subito in campo.
Gli attori sono tutti i vestiti di nero eccezion fatta per i due giovani protagonisti, vestiti di bianco. L’ovvio e più istintivo richiamo al candore emotivo dei due giovani li rende sempre visibili anche quando seduti perché estranei all’azione. Lo svolgimento recitato ha un tono corale e gioioso: la festa da ballo in casa Capuleti diventa causa dell’incontro dei due giovani. Lo spazio resta vuoto e progressivamente le luci, quasi a raccontare lo sconquasso provocato dall’amore in questa faida familiare, perdono l’iniziale organizzazione schematica per definire ambienti sempre più onirici.
Il rimando cinematografico, sempre vivo e costante in Michelangelo Campanale, viene qui demandato alla colonna sonora di derivazione eminentemente filmica, con le prime due tracce, di tono anche esso ritmato e ancestrale, prese dall’indimenticabile album Passion, che Peter Gabriel realizzò per il film L’ultima tentazione di Cristo, una composizione sonora ricca di sonorità tribali africane ma che in questo caso si appoggia delicatamente a una costruzione emotiva che sta fra la festa e il mistero.
L’unico concreto evento che modifica lo spazio scenico riguarda la calata dal soffitto di una serie di fondali e mezzi fondali neri, tende di una lunghezza che occupa tutto il palcoscenico, e che disposte su diversi livelli creano un paesaggio immaginario abitato a metà dal candore del vestito di Giulietta, che sbuca nella fatidica scena del balcone, illuminata poco sopra di lei è la luna luna ricavata dall’illuminazione circolare di un faro. Romeo inizia invece la scena dalla platea, uno spazio che in questo allestimento diventa in alcune occasioni penetrato dai corpi degli attori che interagiscono con il pubblico, ma in modo assolutamente fittizio e non con furbizia quanto con filologico rimando alla modalità del teatro shakespeariano.
La dinamica dei drappi dà l’occasione per sistemare l’unico elemento scenografico che da questo momento in avanti campeggerà in fondo al palco, un grande crocifisso ispirato in modo evidente alle raffigurazioni goticheggianti di Cimabue, con quelle tonalità azzurro lapislazzuli e l’incarnato freddo, indimenticabili nel grande maestro. La cornice dorata a doppio bordo e di forma che asseconda la tavola nel suo evolvere a forma di T irregolare è un segno di attenzione iconica dovuta alla maestria del regista artigiano.
Uno dei segni distintivi della poetica di Michelangelo Campanale è proprio la sua capacità assolutamente artigianale e talentuosa di governare con sicurezza tutti gli elementi costitutivi della sua creazione spettacolare: dalle luci, di cui è uno dei più abili ed evocativi disegnatori in Italia, con collaborazioni storiche a decine per allestimenti di pregio, fino al disegno e alla realizzazione della macchina scenica che nei suoi spettacoli è sempre stata multipiano, portata a svilupparsi su dinamiche verticali. Qui la vertigine dell’ascensione, oltre che dalla presenza cristologica, viene aumentata da un fascio luminoso che si irradia da un gruppo di fari disposti in fondo a destra dello spazio scenico e che scende dentro l’azione come un’illuminazione dall’altro mondo.
Pur con qualche concessione barocca e più enfatica sul tema del rito, specialmente nel finale in cui Giulietta diventa quasi una santa portata al martirio in processione, la recita resta viva e capace di rivolgersi al pubblico con una comunicazione carnale, di pancia, dentro un ritmo narrativo di cui Campanale resta padrone. Bene le interpretazioni, che sono sentite, vive, con i due gruppi che lavorano alla dinamica unificante che con l’andare delle repliche troverà ancora maggior unitarietà, data dalla naturalezza degli eventi.
Al netto di specifici elementi che possono risultare più o meno interessanti allo spettatore, l’allestimento è capace di tenere viva l’attenzione pur nella complessità bilinguistica, totalmente assorbita e gestita. La questione della fusione artistica non ha riguardato solo la lingua (oltre che tutta la parte logistica e organizzativa iniziata prima del Covid, con la pandemia che ha più volte rischiato di mandare all’aria il progetto), ma anche gli stili recitativi delle due compagnie e le rispettive precedenti direzioni di indagine sullo spazio scenico.
Un amalgama nel complesso riuscito e che fa da sostrato a questa perturbante riflessione su cosa sia sacro oggi, fuori e dentro lo spazio del teatro, che è forse la vera questione, il vero cruccio artistico di questo allestimento per chi lo dirige, l’interrogativo sul rapporto mediale dell’artista regista oggi.
Il narratore officiante di cui si è detto, esterno alla tragedia shakespeariana (ma poi anche figurativamente interno alla vicenda, nel ruolo del frate Lorenzo) indirizza costantemente il punto di vista: lo sposta dal drammaturgico dialogico, che è la parola degli attori equivalente a un presente, a passaggi rituali di raccordo che lasciano trasparire i meccanismi dell’assoluto. La presenza del sacerdote esterno crea quello che il semiologo Cesare Segre definiva «operatore prospettico», che, esattamente come fa l’officiante con la parola sacra, definisce lo spazio di quanto può esser detto e rappresentato.
Il testo teatrale non è destinato alla lettura silenziosa, come gli altri testi letterari: qui la lettura a cura di questo sacerdote-operatore diventa una sorta di indicazione profetica, che pretende di indirizzare gli spazi non controllabili, inconsci, rimessi al lavoro di ricostruzione affidata allo spettatore. Succede nello spettacolo, ad esempio, quando, dopo la prima parte della recita, arrivati al momento della rissa che porterà all’uccisione di Mercurio e Tebaldo, il sacerdote anticipa e profetizza l’imminente tragedia, specificando quindi che lo spettatore andrà incontro a quella visione, predeterminata, voluta altrove.
L’elemento del sacro, sotterraneamente unificante le varie culture umane fino all’avvento del digitale, rimane volutamente ed equivocamente presente qui, sovrappone Dio a Shakespeare, presenti entrambi: il primo è in proscenio (il clergyman) e in fondo alla scena (il Cristo in croce), il secondo scorre nell’azione teatrale, nello spazio che sta di mezzo fra proscenio e fondale.
E diverse sono le ribellioni, durante la recita, le invettive contro il Crocifisso, Dio-Fortuna che tutto decide.
L’equazione azzardata e spiazzante che Campanale pone all’inizio è che Shakespeare, autore emblema dei drammaturghi di tutti i tempi, sineddoche del Teatro, sia una sorta di Dio creatore (e in fondo come tutti gli artisti, tale è).
Ma se il regista è interprete della parola di Shakespeare esattamente come il sacerdote della parola divina, allora gli attori diretti dal regista che si ribellano contro il Crocifisso, a conti fatti, sarebbero un’incarnazione del Campanale-artista che maledice il teatro, per il tramite del suo dio Shakespeare? Forse per troppo amore; come il Michelangelo più famoso, di qualche secolo fa, si accaniva contro il ginocchio del suo Mosè di pietra (vuole la leggenda), gridandogli “Parla!”.
Gli attori mossi da Campanale che si scagliano contro il crocifisso realizzato dallo stesso artista pugliese, a ben considerare e volendo provare a leggere un doppio fondo dei segni scenici, sviluppano una serie di considerazioni interessanti sui piani su cui l’artista gioca il rapporto con la propria dannazione, quella che nasce dal sacro fuoco che lo abita e che deve scontrarsi con l’imperfezione, insita nel genere umano: la propria e l’altrui.
Roba che non riguarda Shakespeare, comunque, che resta sempre un dio!
ROMEO E GIULIETTA
(Romeo și Julieta)
dall’opera di William Shakespeare
adattamento Michelangelo Campanale
regia e scene Michelangelo Campanale
luci Michelangelo Volpe e Michelangelo Campanale
con Catia Caramia, Dan Pughineanu, Maria Pascale, Camelia Pintilie, Salvatore Marci, Ovidiu Ușvat, Mircea Alexandru Băluță, Mihai Mitrea, Alex Popa, Andreea Hristu, Annarita De Michele, Andrea Bettaglio, Domenico Piscopo
cura del movimento scenico Vito Cassano
cura del testo Katia Scarimbolo
assistente alla regia Annarita De Michele
direzione tecnica Michelangelo Volpe
tecnico di scena Antonio Longo
costumi Maria Pascale
cura del progetto Maria Rotar
cura della produzione Antonella Nitti e Delia Tondo
ufficio stampa Antonietta Magli e Serena Manieri
visual designer Mariagrazia Proietto
social media Paolo Paparella
produzione Compagnia La Luna nel Letto, Teatro Excelsior di Bucarest ed Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Si ringraziano Isa Pellegrini, Annalisa Bellini, Giorgio Testa, Giulia Gaudimundo, Raul Nappi, Arianna Baroni.
foto di Mariagrazia Proietto