ELENA SCOLARI | Gli artisti che nelle loro opere mostrano di possedere un immaginario ricco, nutrito dai lavori di altri artisti e ispirato ad altre discipline regalano al pubblico un’esperienza gratificante, per la pienezza estetica che vi si ravvisa. Dimitris Papaioannou, regista, coreografo e performer greco, è senz’altro uno di questi: nei suoi spettacoli è sempre presente un gioco di rimandi artistici alla pittura e al cinema e ad altro teatro che stimola lo spettatore a riconoscerli e a guardarli nella citazione trasformata che l’autore ellenico ne compie. Dai contrasti netti di luce e silhouettes di Bob Wilson agli sfondi nuvolosi di Magritte, alle grandi teste bianche e sfaccettate che ricordano Mimmo Paladino, fino alle ombre di Rembrandt e alla videoarte di Bill Viola, passando per Still life, The great tamer, Sisiphus…
In carriera dal 1987 e noto sulla scena italiana – che nel 2021 lo ha insignito del Premio Ubu per il miglior spettacolo straniero proprio con Ink – Papaioannou è tornato in Italia grazie alla sfavillante e aggiornatissima stagione FOG Performing Arts Festival di Triennale Milano portando, dopo la prima versione commissionata e coprodotta nel 2020 da Torinodanza Festival – Teatro Stabile di Torino, la versione finale di Ink nei giorni 11-12 febbraio scorsi.
Andiamo con ordine e partiamo dal titolo: l’inchiostro, nero, sembrerebbe essere la materia in cui è immersa la scena, inscatolata da leggerissimi e grandi teli neri di cellophane ondeggiante ai tre lati e da una superficie impermeabile scura sul pavimento. Però potrebbe anche riferirsi agli ettolitri d’acqua che per tutta la durata dello spettacolo spruzzano e sprizzano in ogni direzione da un irrigatore, quindi un inchiostro trasparente impossibile da tracciare. A un certo punto compare anche un polpo in scena (creato da Nectarios Dionysatos), e allora l’inchiostro potrebbe essere quello che il cefalopode getta quando si sente in pericolo per creare una cortina e sfuggire all’avversario.
Dicevamo dell’acqua, elemento centrale. Il sipario si apre su una visione indubbiamente suggestiva: un potente getto che invade la scena si sprigiona da un irrigatore agricolo, posto a destra del palco, con conseguente effetto di contrasto tra il liquido illuminato di bianco freddo e lo sfondo nero. Wow. (Luci, sempre diacce, di Lucien Laborderie, Stephanos Droussiotis).
Papaioannou è vestito tutto di nero, fisico asciutto, camicia e pantaloni aderenti, scarpe, fradicio fin da subito, armeggerà senza sosta con quel rubinetto, come fosse ogni volta una fonte – non solo letterale – di ispirazione per la scena successiva.
Per quest’apertura la prima suggestione, spontanea, è l’atmosfera di Blade runner di Ridley Scott, anche se meno dichiaratamente futuribile. L’uomo nero (e vestito), in questo luogo di cui sembra essere l’unico abitante, ha un’espressione sempre seria e molto compresa, è continuamente impegnato a relazionarsi con l’irrigatore: comandandolo varia e direziona gli effetti mutando – un poco – l’aspetto della scena. Possiede anche una boccia di vetro trasparente che riempirà e svuoterà più volte nel primo quarto d’ora, anche imprimendole manualmente un movimento rotatorio centrifugo che fa uscire l’acqua dal buco. Doppio wow.
Finalmente arriva il secondo elemento umano. Inatteso e furtivo, striscia sotto fogli di plexiglass trasparente e flessibile come a nascondersi alla vista: il danzatore Šuka Horn è nudo, bianchissimo, subito si pone per opposizione con la figura nera padrona fino a ora dello spazio. Inizialmente c’è pesante diffidenza e Papaioannou cerca di scacciare lo sconosciuto come un insetto, lo percuote, lo prende a calci, lo intrappola nei fogli di plastica piegati in forma di cono, di cilindro. Poi il rapporto varia, nasce curiosità e l’uomo vestito prima lo avvicina, poi lo allontana, gli permette maggior agio di movimento. Horn è preciso, espressivo, enigmatico, come il personaggio che rappresenta.
In questa danza di conoscenza reciproca molti sono i rimandi iconografici che scaturiscono: il film Il ragazzo selvaggio di Truffaut per l’animalità di certe movenze primordiali di Horn; i quadri sgradevoli e sublimi di Lucian Freud e Francis Bacon per le carni schiacciate, imperfette e periture; viene usato un tubo di gomma – di un rosso spiccato nel nero – da applicare all’irrigatore e a mo’ di spira constrictor, e allora la lotta tra i due fa venire in mente anche il gruppo statuario del Laocoonte in cui i serpenti minacciano i figli del sacerdote greco al centro della scultura. Sottovoce confesso che tutta quell’acqua che scroscia (per altro in un periodo di gravissima siccità, anche in Grecia) può ricordare pure la scena del numero di Jennifer Beals con lo sciacquone in Flashdance. Si parva licet, s’intende.
Lo spettacolo è senza parole ma accompagnato da musiche (curate da Kornilios Selamsisb): si notano quando si tratta di Vivaldi, emesso analogicamente da un giradischi collegato a una cassa e azionato da Papaiannou stesso; questa scelta crea un momento di vivacità, nell’overdose idrica generale, per la sapida didascalia che quei suoni classici creano, alleggerendo sonoramente una rappresentazione che, nel complesso, si prende molto sul serio.
È giusto dare merito di un gusto estetico pronunciato, attento all’effetto e con alcuni tocchi ironici – rari – apprezzabili, ad esempio il momento in cui la posizione dell’uomo vestito pare far scaturire il getto d’acqua dalla propria testa, come un flusso di pensieri inarrestabile e giocoso, oppure il buffo ‘plop’ della boccia che fa stantuffo se staccata di colpo dal pavimento gommoso.
Ink è – parallelamente al lato effettistico preponderante e un po’ insistito – anche un collage di scene di non facile lettura e soprattutto senza un costrutto drammaturgico evidente. Ci riferiamo a certe sequenze come l’ingresso in scena dell’uomo nudo (il quale appare e scompare dal palco) dentro a un mini appezzamento di campo, tra le spighe gialle, impressione di natura; oppure alla miriade di pescetti argentati e saltellanti come sagome di sardine pescate di fresco, che accompagnano le azioni con il suono del loro sbatacchiare. Queste ultime vengono mangiate crude a morsi dai due con finta carne rossa e sanguinolenta a vista, lo stesso destino tocca a un bambolotto che Papaioannou prima culla con grazia e in seguito allatta (le sardine non si sono fermate, nel frattempo) e poi ne divora le carni come il dio Crono, dalla boccia di vetro in cui è stato collocato, un po’ come i preparati anatomici della medicina d’un tempo.
Queste immagini, tra altre, alludono ma non compongono una catena di senso leggibile. Può essere che l’intento dell’autore non sia offrire un edificio spettacolare compiuto ma solo suggerire un’architettura di segni, fatta di moduli non concatenati, che spesso si ripetono.
Nel finale torna il polpo, sbattuto a terra tra gli schizzi. Chiusura mediterranea di uno spettacolo tenuto su una battigia immaginaria, da un regista che dirige la scena come uno stregone, ammaestrando gli elementi, umani e meccanici.
INK
creazione (ideazione, regia, scene, costumi, luci) Dimitris Papaioannou
uomo vestito Dimitris Papaioannou
uomo nudo Šuka Horn
musica Kornilios Selamsis
sound design David Blouin
disegno luci Lucien Laborderie, Stephanos Droussiotis
produttore creativo ed esecutivo, assistente alla regia Tina Papanikolaou
regista associato Haris Fragoulis
formazione fisica degli interpreti Šuka Horn
foto, video Julian Mommert
musica registrata da Teodor Currentzis
orchestra MusicAeterna
nome dell’opera dato da Aggelos Mendis
polpi creati da Nectarios Dionysatos
designer visivo associato Evangelos Xenodochidis
relazioni internazionali, responsabile della comunicazione, programmatore della tournée Julian Mommert
direttore tecnico Manolis Vitsaxakis
direttore di palco, tecnico del suono David Blouin
maestro degli oggetti di scena, direttore di scena Tzela Christopoulou
programmatore luci Lucien Laborderie
tecnico di scena, rigger Aggelos Katsolias
produzione esecutiva 2WORKS (in collaborazione con POLYPLANITY PRODUCTIONS) produzione esecutiva associata Vicky Strataki
assistente alla produzione esecutiva Kali Kavvatha
prima versione di INK commissionata e coprodotta nel 2020 da: Torinodanza Festival – Teatro Stabile di Torino – Teatro nazionale, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia – Festival Aperto, versione finale di INK e tournée internazionale coprodotta da Biennale de la danse de Lyon 2023, Sadler’s Wells London, MEGARON – THE ATHENS CONCERT HALL (con il sostegno del Ministero greco della Cultura e dello Sport)