RENZO FRANCABANDERA | Sabato 11 marzo (doppia replica alle 18 e alle 21) alla DanceHaus di Milano la compagnia Sanpapié presenta in prima nazionale Stand by me, all’interno della programmazione di Exister 2023.
Lo spettacolo vede in scena Sofia Casprini, Gioele Cosentino e Matteo Sacco su coreografie di Lara Guidetti e si ispira all’autobiografia di Dennis Nilsen, omicida seriale inglese scomparso nel 2018, che svela con dovizia di dettagli i suoi 12 omicidi tra emozioni, ragioni e rigorose ritualità. La banalità crudele della solitudine, l’assenza di libertà personale, il rifiuto, nella società inglese degli anni ‘80, nei confronti dell’omosessualità come antitesi della normalità famigliare, collocano l’orrore nella cornice della quotidianità.
Una storia di amore e morte in cui sfilano archetipi antichi e stereotipi reiterati sino a diventare maschere grottesche.
In scena, corpi e voci si articolano in una danza di specchi incrociati e immagini triplicate, tra visioni di sé e trasfigurazioni, dove frammenti di corpi e di ricordi trovano il loro posto in quello spazio vasto e senza tempo che è l’animo umano.
Sanpapié nasce a Milano nel 2008 da un gruppo di studenti della scuola Paolo Grassi e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, con l’obiettivo di esplorare contaminazioni, derive, possibilità e limiti del linguaggio fisico.
Diretto da Lara Guidetti, Sanpapié è un nucleo artistico in costante apertura composto da danzatori, coreografi, attori, compositori, registi e artisti visivi che si nutre di collaborazioni progettuali e artistiche da cui scaturisce uno stile che volutamente allontana qualsiasi definizione. Le tecniche della danza classica e contemporanea si incrociano con pratiche fisiche come l’acrobatica, il ballo popolare e lo studio del teatro fisico e di parola, arrivando così a raggiungere e costruire pubblici diversi, aprire nuove direzioni per la ricerca, connettersi con stimoli nuovi e immaginare scenari possibili.
Più di 50 opere hanno portato la compagnia a muoversi tra Italia, Europa, Cina e Arabia Saudita, intercettando realtà appartenenti non solo al settore dello spettacolo ma anche sociale e pedagogico. Per Sanpapié il corpo è contemporaneamente campo d’indagine e strumento, perciò la sperimentazione di nuove pratiche artistiche non si limita agli spettacoli ma cerca sempre nuove forme di condivisione, divulgazione e provocazione.
Abbiamo incontrato Lara Guidetti per un’intervista.
Lara, sono ormai oltre 15 anni che siete sulla scena performativo coreografica italiana. Cosa è oggi Sanpapié e cosa resta del germe che portò alla sua nascita?
15 anni sembrano parecchi ma la verità di questo lavoro è che più si va avanti, più si accorcia il tempo tra Natale e Ferragosto e sembra di essere sempre all’inizio. Forse è proprio questo il tratto che ci portiamo dietro, immutato, dalla firma dello statuto a oggi: la sensazione che ci sia sempre un dopo che aspetta di essere raggiunto, una curva nella ricerca, un progetto che non sappiamo fare.
Sanpapié è una compagnia di produzione e un progetto che vede un nucleo di 14 persone, tra artisti e collaboratori, uniti dall’interesse verso il corpo come strumento principale di comunicazione, espressione e relazione, impegnati nell’indagare le sue possibili pratiche e declinazioni. Ciò che rimane vivo del germe primordiale è la relazione costante tra coreografia, drammaturgia e musica che ci porta a spaziare e differenziare molto sia nelle creazioni che a livello progettuale. Per anni questa nostra caratteristica ci ha spesso messi in crisi perché il panorama culturale italiano non riusciva a collocarci o definirci (infatti i primi anni ci hanno visti parecchio all’estero) ma, con il tempo, l’esperienza e una buona dose d’insistenza, oggi consideriamo la nostra “schizofrenia artistica” come un’importante risorsa. Siamo sempre stati un gruppo meticcio composto di figure provenienti dalla danza, ma anche dal teatro o dalla musica: oggi continuiamo a esserlo ma siamo cresciuti di numero, come le buone famiglie italiane di una volta, e anche le competenze in campo e le collaborazioni si sono moltiplicate. Tutti i danzatori di Sanpapié arrivano da formazioni e background diversi: la tensione all’autorialità porta ad aprire continuamente strade possibili nel movimento, contaminando generi e scambiando saperi, ma ciò che davvero salda il ponte tra passato e presente è senz’altro la passione per la buona tavola e il vino.
Sempre più spesso il vostro segno cerca lo spazio urbano. Quale pulsione vi porta verso questo genere di creazioni? Quale tipo di pubblico incontrano?
Lo spazio urbano in realtà è la conseguenza di una riflessione sullo spazio pubblico come ricerca di una dimensione performativa che ci metta in relazione diretta con il pubblico e con la concretezza di una realtà non filtrata. Siamo partiti da Milano, e quindi dalla città, con A[1]BIT, su suggestione di un caro amico, Carlo Boccadoro, che si presentò a casa mia con una sinfonia in tasca, ma poi ci siamo confrontati con architetture, spazi naturali, borghi storici e progetti di rigenerazione urbana. Il motore di tutto è stata una grande esasperazione nel sentire la frase: “io non capisco la danza contemporanea” che ha generato diverse riflessioni sul perché tanta gente di sentisse così scomoda e talvolta respinta da un linguaggio che chiede di essere sentito ancor prima che capito. Così ci siamo detti che se il pubblico non veniva a vederci a teatro, saremo andati noi da loro, e così abbiamo fatto.
Dal punto di vista artistico, lo spazio pubblico offre una quantità di stimoli enorme che ci porta a confrontarci con i limiti stessi della danza e a metterli in discussione, mentre la relazione diretta con gli spettatori e la costruzione di uno spazio condiviso obbliga la performance a una costante riscrittura nel presente che limita gli effetti logoranti della ripetizione. In questi anni abbiamo incontrato i pubblici più diversi per età, contesto e preparazione culturale, spingendoci sino in Arabia saudita, ma ogni volta scatta qualcosa di magico che riporta la danza alla funzione di rito collettivo, inclusivo e partecipato, senza che questo debba togliere nulla alla cifra contemporanea e talvolta astratta delle nostre composizioni. Il pubblico è il vero motore di tutto e le relazioni che si stabiliscono durante gli spettacoli ci danno una grande energia e il bisogno di proseguire in questa direzione. Quel che ci auguriamo, vedendo l’eterogeneità degli spettatori, è che il pubblico della danza torni a essere semplicemente pubblico.
Con l’inizio del nuovo anno ci sarà il debutto della vostra nuova produzione Stand By Me in programma l’11 marzo alla Dancehaus di Milano. Qual è l’idea alla base di questo lavoro?
Stand by me nasce dalla storia vera di un serial killer morto di recente. È un punto di partenza particolare per uno spettacolo di danza ma la sua storia, in parte simile a quella di molti altri, mi ha profondamente colpita perché parla di solitudine, amore e abbandono. Dennis Nilsen, nella Londra tra gli anni ’70 e ’80, uccide 12 ragazzi giovanissimi, che nessuno reclama, e poi ne conserva i corpi per vivere con loro una vita domestica alla ricerca della costruzione di una famiglia che la società, in quanto omosessuale, gli nega.
È una riflessione sulla solitudine della porta accanto e sull’invisibilità che spinge i limiti dell’umano sino all’orrore, che ci scivola accanto senza farsi notare. Gli anni che abbiamo appena passato hanno portato alla luce tante situazioni di isolamento estreme, che non si sono create a causa della pandemia ma sono sempre state, solo ci facevamo meno attenzione. In questo spettacolo ci domandiamo dove si trovi il limite della sopportazione umana, cosa succede quando si attraversa, cosa definiamo “mostro” e perché siamo tanto incuriositi da questi personaggi feroci, quasi fossero uno specchio deformato di ognuno di noi.
In scena ci confronteremo con uno spazio riflettente, moltiplicatore di immagini e movimenti, così come l’uso di maschere ci riporterà a una dimensione decisamente teatrale della danza.
In contemporanea sta andando avanti anche un altro progetto di produzione in collaborazione con Aterballetto per un duetto con interpreti over 70. Come è nata questa direzione di ricerca?
Il progetto, TacaTé, sarà un duetto intergenerazionale tra un danzatore under 30 e uno over 65 sostenuto da Aterballetto e MilanOltre che debutterà al festival nella prossima edizione. Il pezzo, che avrà una durata breve di circa 20 minuti, parte da un mio coinvolgimento come coreografa nel progetto OVER DANCE di Fondazione nazionale della danza, che prevede diverse azioni e che guarda al tema della longevità come quel processo che inizia con la nostra nascita e termina con la nostra morte, spostando e aprendo la riflessione sull’invecchiamento.
TacaTè, in dialetto emiliano “attacca tu”, sarà un viaggio sulla linea del tempo, guardata da entrambe le direzioni, dove due generazioni e due sensibilità si muoveranno insieme scivolando dal ballo popolare all’astrazione senza soluzione di continuità, poiché se possiamo spostare lo sguardo sul tempo, non possiamo però fermarlo.
La drammaturgia del lavoro verrà composta a partire dall’esperienza del laboratorio “dal liscio al rave“ condotto insieme al drammaturgo Gabriele Tesauri e ne rappresenterà una sintesi poetica.
Questo lavoro si inserisce anche su un filone di indagine “da balera”, attento all’aspetto popolare del ballo, che è diventato un leitmotiv della vostra presenza programmatica. Alludo qui anche a Dal liscio al rave, il progetto intergenerazionale promosso da Aterballetto su Reggio Emilia in cui conduci una serie di laboratori. Ce ne parli?
L’aspetto popolare del ballo è sempre stato per me un elemento di forte attenzione sin dalle prime creazioni della compagnia, in misura differente a seconda degli spettacoli. Ciò che mi interessa è la dimensione antropologica e sociologica che il ballo popolare porta alla luce nella sua dimensione “democratica“ e inclusiva che sposta il focus dalla performance alla partecipazione, permettendo a chiunque un ingresso fluido e facilitato nel movimento.
Mi interessa perché possiede una dimensione al contempo rituale e leggera che veicola simbologie, storie e temi attraverso l’uso degli stessi tre elementi propri di qualunque danza: spazio, tempo e relazione. Vedere come nell’arco della storia questi elementi si trasformano e comunicano è un punto cardine della mia ricerca. La balera, da emiliana cresciuta alle Feste dell’Unità, è parte del mio immaginario e della mia storia personale e come tale lo uso con tutta la sincerità possibile. Dal liscio al rave è un percorso lungo, iniziato a novembre del 2022 e che si concluderà a giugno 2023 in un happening pubblico, sostenuto da Aterballetto, comune di Reggio Emilia e fondazione iTeatri, che vede coinvolti circa 60 cittadini, tra over 60 e under 25, lavorare insieme con cadenza bisettimanale in un tour tra i centri sociali della città. Insieme a noi, Gabriele Tesauri si occuperà della parte relativa allo sviluppo della drammaturgia. Il progetto vuole mettere a confronto generazioni diverse attraverso l’ingresso nei relativi mondi, immaginari, sonorità e danze per approdare a una terra di mezzo dove forse non sarà più necessario domandarsi l’età.
Durante la consegna dei premi Ubu, di recente, molte sono state le voci che si sono levate a sostegno delle compagnie indipendenti che rischiano di scomparire. Come vedi il futuro della vostra compagnia? Quali sono gli elementi che secondo te permetteranno di continuare a fare arte per realtà come la vostra?
Trovo sia incoraggiante che gli UBU 2022 abbiano premiato diversi “gruppi” o formazioni oltre che singoli artisti e che diversi colleghi della scena “indipendente” abbiano finalmente avuto il meritato riconoscimento. Vedo il futuro un passo alla volta, cercando di immaginarlo nell’ascolto del presente perché non siamo certo in una situazione che ci consente la stabilità necessaria a gettare lo sguardo oltre un tempo medio.
Guardo al futuro con accanimento, tentando di non perdermi nella lamentazione di ciò che non funziona ma prendendolo come una sfida perché dopotutto la condizione di estremo precariato è il terreno su cui siamo nati e l’emergenza sanitaria non ha fatto altro che puntarci sopra un riflettore potente.
Gli elementi che ci permetteranno di continuare sono gli stessi di sempre, acuiti dalla fragilità che ci hanno lasciato gli ultimi anni e dunque più urgenti: presenza e continuità. Per sviluppare un linguaggio serve continuità e la possibilità di sostenere un gruppo di persone che crescano e si interroghino insieme in un tempo lungo perché altrimenti si rimane in stallo in un eterno processo di conoscenza ed esplorazione che non decolla in alcuna direzione.
Le condizioni per fare questo passano quasi sempre da scelte d investimenti personali che quasi mai tutelano artisti e progettualità. La grave precarietà lasciata dal Covid costringe gli artisti e in particolare i danzatori, a stare in mille progetti allo stesso tempo, passando in maniera frenetica e talvolta bulimica da un contenitore all’altro senza il tempo di approfondire e analizzare ciò che si fa. Quello che ci permetterà di sopravvivere è la conquista del tempo necessario al nostro lavoro e della serenità di abitarlo, come in ogni altro lavoro. Nel 2022 siamo rientrati nel finanziamento ministeriale e anche il Comune di Milano ci ha dato un grande supporto: questi risultati ci danno spinta per proseguire, giorno dopo giorno, nella costruzione di una realtà ogni volta più solita a partire dal basso.