ENRICO PASTORE | Leonor Fini nacque a Buenos Aires nel 1907, ma l’Argentina non sarà nella sua vita che una vaga reminiscenza di un incubo. Dall’Argentina sua madre Malvina fugge da un marito violento e autoritario e torna con Leonor bambina nella sua Trieste. Già da bambina Leonor rivela le doti d’artista che la caratterizzeranno tutta la vita: la creazione di doppi immaginari, il travestitismo, l’amore per la pittura, la curiosità morbosa che la porterà persino in obitorio per vedere i cadaveri. Nella città giuliana formerà e svilupperà le sue incredibili attitudini in un contesto vivo, cosmopolita, colto, che la portò, a soli ventinove anni, a essere già pienamente inserita nella pittura d’avanguardia europea, esponendo i suoi quadri nell’alveo del surrealismo sia a Parigi che a New York. Aveva avuto numerosi amanti, tra cui Max Ernst, e i suoi travestimenti (famoso quello da cardinale), facevano già discutere la capitale francese avvezza a ogni stranezza.
Per raccontare, però, la vita e l’opera di Leonor Fini, definita dal Premuda come «maestra di metamorfosi, misteriosa e inclassificabile», al di là dei dati puramente biografici, bisogna spingersi in territori inconsueti. Leonor, o Lolò come fu sempre chiamata, è un’artista visiva non inquadrabile in alcuna scuola (fosse Novecento o il Surrealismo) per quanto i critici ci abbiano provato, tanto che per lei coniarono il termine sur-raffaellita tanto vago quanto inutile. Lei stessa era insofferente a qualsiasi affiliazione. Bisogna, dunque, inoltrarsi giocoforza nel Giardino di Armida da lei stessa costruito, affrontando i suoi labirinti e il suo specchio magico perché «ella del vetro a sé fa specchio, / ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli». La figura di Leonor è assimilabile a quella di una una maga (mito che alimenterà per tutta la sua vita) capace, tramite la pittura, di evocare forze oscure, mostri custodi e pericolosi, specchi in cui trovare o perdere sé stessi, in un gioco in cui al centro resta il mistero della rappresentazione.
Siamo inoltre in un luogo liminale, su un confine sottile tra più universi paralleli, dove il teatro ha un ruolo allo stesso tempo diverso e consueto in un continuo scambio tra vita e arte, e dove i due ambiti si confondono e si compenetrano. Leonor Fini amava dire: «Mi interessa solo la teatralità della vita». E di questa esistenza terrena fece un teatro in cui difficile è distinguere il reale dall’immaginario. Alessandra Scappini con grande acume scrive: «La fantasia le permette di dare forma a una molteplicità di immagini che riflettono le sue inquietudini, i moti che provengono dagli abissi, ma anche le sue concezioni che si manifestano nell’opera pittorica come teatro della vita “ulteriore” e “altra” rispetto al quotidiano. […] Per Leonor campeggiano fantasmatiche su un palco allestito proprio al limite tra conscio e inconscio, fra fantasia e storia personale».
Questo aspetto teatrale non è presente solo nella pittura, ma in ogni aspetto del suo quotidiano. La sua casa di Parigi, in rue Payenne al numero 11, per esempio, come notano Montesarchio e Varriale: «È un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi, però, è fedele all’unica regista della rappresentazione, che fa leva sull’illuminazione usata ad arte, per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di sé stessi, attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».
A stabilire un rapporto stretto tra teatralità e agire artistico è ancora una volta la stessa Leonor: «Fra il teatro e me c’è un malinteso, perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale […]. Attraverso il misterioso processo di questi rituali dimenticati, chiunque trova sé stesso».
Leonor stabilisce un nesso tra la performance e la conoscenza di sé e del mondo. Un lavoro su sé stessi e sul personaggio che, attraverso il velame della maschera, rivela l’essenza della vita. Leonor, dunque, fu di sé stessa una continua performance, quasi un processo filosofico alchemico in cui, attraverso il mutare della maschera e attraverso l’azione scenica pubblica, sonda le possibilità e le leggi del mondo e della vita. Come una sciamana vive la sua esistenza terrena in una continua ritualità costituita da elementi legati alla rappresentazione.
Questa fascinazione teatrale inizia, come da lei stessa evidenziato, nell’infanzia nella sua Trieste dove, per sfuggire ai ripetuti tentativi di rapimento operati dal padre rimasto in Argentina, è costretta a travestirsi da maschio per non farsi riconoscere. Inoltre, fin dalla scuola alimenta la leggenda di essere il doppio di sé stessa. Alle compagne di classe e di giochi racconta, infatti, di essere stata scambiata bambina nella culla. In realtà, la vera Leonor è stata rapita, lei è una sostituita. Non solo. Afferma di esser figlia di un gatto e di avere le pupille verticali come i felini, specie animale con cui avrà sempre uno stretto rapporto d’amore.
Leonor Fini è un’artista che inscena sé stessa in mille possibili varianti tutte plausibili e tutte rivelanti un frammento di verità. Si nasconde per rivelarsi a sé e agli altri. O, per lo meno, a coloro che hanno occhi per vedere al di là della maschera e della rappresentazione. L’azione teatrale di Leonor Fini è un incantamento nel senso indicato da Massimo Bontempelli quando definisce il realismo magico: «Forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo: e dell’incantesimo possiede tutti i caratteri e tutte le specie: esso è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezie di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione». In questo passo vi sono tutti gli elementi caratterizzanti Leonor Fini: la maga, la veggente, l’evocatrice.
Tutti temi cari al Surrealismo, da lei incarnati in modo del tutto personale, garantendole una libertà di pensiero e una distanza dagli adepti di Breton, distanza che il fondatore del Surrealismo mai le perdonerà. Leonor ha chiarito questo punto con molta chiarezza: «Le appartenenze mi hanno sempre infastidito e vedevo più la mia differenza che l’eventuale affinità con la tendenza surrealista. Essi erano avidi di nuovi giovani per farne degli adepti […]. Essi amavano fare dei processi, comunicare, condannare, stilare delle liste di libri che non bisognava leggere, erigere dei tribunali».
La sua distanza con il movimento, benché per molti versi ne condivida le pratiche pittoriche e di vita, si misura soprattutto nel ruolo ambiguo conferito alla donna. Se all’inizio del Surrealismo i padri fondatori conferiscono alla donna un ruolo subalterno di musa ispiratrice, oggetto del desiderio, femme fatale o angelo protettore, con il passare del tempo tale concezione si modifica verso la veggente, la maga, la strega, colei, insomma, che, privilegiando la parte irrazionale e inconscia, vede ciò che la razionalità maschile non riesce a cogliere.
André Breton arriverà a fine anni Trenta a concepirla, infine, come vertice di una rivoluzione: «La donna è la pietra angolare del mondo materiale/amata ed esaltata come la grande promessa e può salvare la Terra». A questo proposito, Jack J. Spector afferma: «L’attitudine dei surrealisti nei riguardi della donna riflette in larga misura il punto di vista di una società patriarcale – per questi scrittori e artisti maschi, la donna può essere utile come strumento di immaginazione o di piacere, ma non può facilmente trapassare questi confini a fornire contributi indipendenti, ed è per questo che dobbiamo rigettare la posizione recente che afferma i Surrealisti non essere antifemministi». Anche se Robert Short nota: «Non esiste altro movimento, a parte quelli specificamente femministi, in cui vi fosse una tale alta proporzione di donne attive e partecipanti». Se, per gli storici, la questione ha degli aspetti di ambiguità, per Leonor non vi è dubbio alcuno, affermando senza mezzi termini che i surrealisti erano dei maschilisti.
Quella di Leonor, però, non è una lotta specificatamente femminista. Le sue attenzioni si rivolgono principalmente al matriarcato originario. Come dichiara il suo amico Jelenski: «La società immaginaria creata dalla Fini è dichiaratamente matriarcale, nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale della società primitiva di natura, appunto, matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale a una cultura antichissima». Anche in questo Leonor testimonia una differenza e un’alterità.
Tornando alla sua opera pittorica e ai rapporti con la teatralità, essa è una pratica fondamentale per creare le condizioni di apparizione di un teatro immaginario. Le donne, le sfingi, i manichini, gli oggetti, le piante, sono tutti elementi di una scena in cui si nasconde e rivela l’io in cerca di sé stesso. Un esempio può essere il Narciso di Leonor dove l’eroe non guarda l’acqua, ma davanti a sé. E vicino a lui, quasi svanita, c’è la ninfa Eco, somigliante come una gemella, a formare un dittico androgino. I loro riflessi nell’acqua guardano a propria volta lo spettatore, chiamato in causa per scandagliare dentro di sé l’inquietante somiglianza dei principi maschili e femminili incarnata dai due protagonisti del quadro. Non siamo, quindi, di fronte all’ostentazione di sé come manifestazione egotica, ma come pratica di conoscenza non solo del proprio io nascosto, ma delle regole che governano il mondo.
Il rapporto tra immagine pittorica, immagine di sé en travesti, immagine fotografica, è sempre con il proprio doppio. Leonor, velandosi, si svela, soprattutto a sé stessa, permettendo il transfert allo spettatore tramite lo sguardo. Si osserva nello specchio tramite i suoi multipli, come in un caleidoscopio sempre mutevole. Questa pratica è stata quasi sempre fraintesa, soprattutto dalla critica italiana coeva, incapace di concepire una donna fuori dalle righe e lontana mille miglia dall’angelo del focolare.
Un esempio palese di malinteso è il famoso ballo in maschera a Palazzo Labia a Venezia del 1951 dove Leonor Fini partecipa con un vestito da lei stessa creato di angelo nero con tanto di ali. Al ballo ci sarà molta della illustre società con costumi creati da Christian Dior, nonché numerosi artisti come Dalì accompagnato da Gala. Il periodo storico vede un’Italia alle prese con la ricostruzione e la povertà e tale sfarzo ed eccentricità non viene digerito dalla stampa. A farne le spese sarà proprio la Fini per la quale da quel momento si farà strada, come afferma Di Santo, «una percezione maligna che si focalizza più sulla vita dell’artista che sul suo talento. Nascono leggende sulla sua persona e sul circolo di amicizie che la circonda. Una fama becera e bacchettona, pronta al facile giudizio di condanna verso una donna troppo libera».
La teatralità non resta confinata nella pittura, nella fotografia o nelle infinite maschere indossate nella vita quotidiana. Essa si misura direttamente con la pratica artistica focalizzata sul disegno di scene, costumi e maschere per l’opera, il teatro e la danza. Innumerevoli sono le collaborazioni: Balanchine, Barrault, Giorgio Strehler, Roland Petit (di cui sarà anche mecenate, aiutando il coreografo a mantenere la compagnia con i propri donativi), Michele Galdieri e la compagnia di Anna Magnani, Jean Genet. Anche in queste collaborazioni Leonor porterà la sua modalità di rapporto con il pubblico, il suo travestirsi per rivelare, come nella famosa maschera da gatto ne Les Demoisselles de la nuit, che scatenerà le ire della prima ballerina Margot Fontayn, stella del Sadler Wells Ballet di Londra. Quasi a rivelare le sue doti di strega, dopo il litigio sulla maschera, alla seconda rappresentazione, la scenografia di Leonor crollerà in testa alla Fontayn, la quale, nonostante l’incidente, continuerà la propria performance.
Leonor Fini fa dunque parte di una specie d’artista che non relega la performance nello spazio angusto dell’arte, ma coinvolge tutta la quotidianità. La performance è prassi di una conoscenza antica, un comprendere il mondo tramite l’agire. E tale scandaglio del mondo e di sé stessi è pratica crudele, feroce, frutto di grande disciplina, in un connubio difficilmente ottenibile di abbandono e controllo.
Su questo piano si misura l’alterità di Leonor Fini, una delle grandi artiste dimenticate o messe in ombra, proprio perché lontane da una consuetudine tranquillizzante dell’arte come oggetto e prodotto culturale. L’arte come ricerca di sé, la teatralità utilizzata come metodo di conoscenza e non come mero spettacolo, inquieta un sistema volto specificatamente all’intrattenimento e al consumo culturale. Leonor Fini mette in gioco valori antichi dove il teatro è il luogo da cui si guarda il mistero e se ne fa esperienza.