RENZO FRANCABANDERA | È direttore artistico della compagnia Stivalaccio Teatro e della Fondazione Teatro Civico di Schio dal 2017 e consigliere di amministrazione della Fondazione di partecipazione Riviera Miranese.
È stato consulente artistico del Teatro Comunale Città di Vicenza dal 2017 al 2018. Figlio d’arte, discendente di una tra le più antiche famiglie di commedianti italiane, i Lelio (capostipite Luigi Riccoboni), Federico Corona è stato morso anche lui dalla tarantola teatrale ma in ruoli lontani dalle luci della ribalta: ha iniziato giovanissimo la carriera di organizzatore e direttore artistico e già dal 2010 al 2017 è diventato responsabile delle programmazioni del Circuito Arteven, docente di programmazione teatrale al corso Management degli eventi di spettacolo, e nel 2013 ha vinto il Premio Città Impresa Migliori giovani talenti del Nord-Est.
Di lì in avanti una serie di nuove responsabilità e coinvolgimenti nella pratica scenica nel territorio veneto. Ha assunto prima il ruolo di direttore artistico della compagnia Stivalaccio Teatro dal dicembre 2017, diventando poi anche direttore artistico della Fondazione Teatro Civico di Schio e consigliere di amministrazione della Fondazione di partecipazione Riviera Miranese.
Federico hai un percorso di formazione personale singolare e atipico rispetto a molti direttori artistici e sommi nella tua figura diversi ruoli. Come è nato il tuo percorso?
Ho iniziato molto presto a lavorare come organizzatore e amministratore per compagnie, teatri e festival imparando il mestiere sul campo. Non ti nascondo che la mancanza di una formazione accademica, spesso mi ha portato ad interrogarmi sul mio personale percorso. Nel tempo ho realizzato che gran parte del mio lavoro, che ovviamente deve essere supportato da adeguate competenze e abilità, si basa sulla capacità di relazione con l’altro. Siano essi i pubblici, l’artista, gli altri operatori teatrali, i critici o le maestranze, è necessario lavorare profondamente sulle relazioni e tentare di far esprimere ognuno al meglio. D’altronde il teatro non è che questo: l’incontro di esseri umani che si scambiano emozioni, sensibilità ed energie. In palco come fuori.
Ho iniziato la mia carriera in famiglia occupandomi di alcune piccole produzioni di teatro ragazzi, la mia prima esperienza esterna è stata al Festival Operaestate di Bassano del Grappa, dove ho potuto calarmi in una realtà di ampio respiro e con una solida vocazione al contemporaneo e ai nuovi linguaggi, un interesse che ho coltivato per il resto della mia carriera. Ho lavorato per alcuni anni a Roma, con alcune compagnie, dove mi sono occupato di produzione e amministrazione di compagnia. Successivamente l’esperienza ad Arteven mi ha aiutato ad acquisire le competenze e le relazioni per lavorare alla programmazione di teatri di vari generi e dimensioni.
Ho avuto la fortuna di vivere esperienze diversificate, che mi hanno fatto toccare con mano svariati ambiti del lavoro in teatro.
Vieni da una famiglia con antichissimi legami con il teatro. Te ne senti erede?
Sicuramente l’eredità della mia famiglia ha a che fare con il modo di concepire questa professione, la mia visione di teatro è lontana dal considerarlo solo un lavoro, semmai un modo di stare al mondo, di vivere. Proviamo ad immaginare una donna che allatta il proprio bambino, lo posa su di un baule ed entra in scena. Il bambino resta su quel baule avvolto in una coperta di lana, ogni tanto un attore o un tecnico, in quinta, gli fa una carezza, una coccola, gli regala uno sguardo complice. Quel bambino è lì: si addormenta dolcemente ascoltando il monologo di Ciampa o le risate del pubblico che assiste alla farsa, tra le ombre del retroscena. E così capitava talvolta che a cambiarmi il pannolino fosse Mirandolina, a farmi le facce buffe Argante, Desdemona a prepararmi il latte.
La mia famiglia d’arte è una delle più antiche in Italia: i Lelio, discendenti dalla tradizione della commedia dell’arte e sopravvissuti con un magnifico anacronismo a oltre tre secoli di storia. È la storia del teatro girovago (mio zio è nato in albergo durante una tournée, ad esempio), quello fatto di lenti chilometri e teatri freddi, di alberghi economici, di strepitosi successi e forni clamorosi.
Che imprinting può avere un bambino cresciuto in questo modo?
Devo ammettere che non mi percepisco come erede di una tradizione o di un talento artistico specifico, piuttosto come portatore di una condizione vitale talmente immersa in quest’arte che si fatica a vederne i confini con il resto dell’esistenza personale.
Se intendiamo come eredità il significato che diamo a quanto ci viene trasmesso dalle nostre famiglie, credo che la mia stia tutta qui: un modo di stare in teatro che non si esaurisce con l’orario di lavoro o con gli incarichi che ricevo, ma che si nutre di esperienze, rapporti umani e progettualità condivise oltre la dimensione strettamente professionale.
La mia esperienza in Stivalaccio Teatro parte proprio da questa visione comune che concepisce il contesto lavorativo a partire dai rapporti umani, la dimensione di compagnia intesa come gruppo di persone che si sono scelte per condividere un tratto di strada insieme.
Cosa significa coordinare il lavoro di una compagnia e avere la responsabilità di un teatro? Che intersezioni generano le tue pratiche?
Prima di intraprendere questa doppia veste lavorativa non ti nascondo che avevo qualche preoccupazione: sono attività che richiedono modalità di approccio a volte opposte. Il lavoro per la compagnia Stivalaccio Teatro si basa su una progettualità artistica che definisce identità, posizionamento a livello nazionale e velocità dei processi, come quelli produttivi e distributivi, ma anche rispetto la comunicazione e i rapporti con altri enti a livello nazionale. La natura privata della struttura aiuta molto in questo senso. La Fondazione Teatro Civico è invece un teatro pubblico di prossimità, permette di sviluppare un lavoro più verticale nel territorio spesso legato ad un ruolo non solo culturale ma Civico in senso ampio, inteso come presidio di comunità.
Molte differenze, ma soprattutto l’opportunità di creare connessioni tra le due strutture e riuscire a pensare in maniera laterale. In generale nel portare avanti il mio lavoro ho sempre cercato di tenere a mente l’obiettivo portante che un operatore secondo me dovrebbe avere: generare benessere e occasioni di esperienza nelle comunità.
Sono nati così degli eventi speciali specifici per il teatro di Schio come La lunga notte dei Commedianti, una maratona teatrale di oltre sei ore, le residenze artistiche della compagnia, le recenti coproduzioni per raccontare la storia del Teatro Civico. Il valore di queste intersezioni sta tutto nell’aver trovato una formula vincente per teatro, compagnia e pubblico. La soluzione è tale se è vincente per tutti.
Il direttore artistico è come un sarto che confeziona il miglior vestito possibile per un contesto (culturale, territoriale, sociale) che porta con sé storia, identità e istanze da ascoltare. Immagino l’operatore come strumento al servizio di un teatro e non il contrario, a volte è difficile mettere da parte il proprio ego, ma penso che questo sia un lavoro che se è fatto bene tende a non essere percepito dal pubblico, come la maggior parte dei mestieri a supporto dello spettacolo.
Coordinare una compagnia di alto profilo artistico e al contempo animare uno dei teatri più evocativi del territorio è un privilegio che porta con sé la responsabilità di dover riuscire ad incidere fattivamente sul panorama culturale locale e nazionale.
Dopo i successi dei progetti precedenti l’idea è quella di continuare a provocare occasioni collaborative tra le due realtà. La strada non è sempre semplice, ma ho la fortuna di aver trovato dei compagni di viaggio di grande valore.
Cosa hai imparato dall’una e dall’altra in relazione al rapporto con il pubblico?
La mia idea di teatro è sempre stata legata al rapporto con il territorio e alla necessità di creare occasioni di esperienza tra artisti, pubblico, comunità e operatori. Su questo si basa gran parte del mio lavoro, con la prospettiva di attivare processi virtuosi di rigenerazione territoriale e artistica. La relazione con la comunità nutre la comunità stessa, ma anche gli artisti e chi progetta.
Dal punto di vista produttivo il lavoro sul teatro popolare e le sue declinazioni in fase di ricerca e sperimentazione sono particolarmente adatti al reperimento di nuovi pubblici e alla fidelizzazione dello spettatore. Con Sara Allevi, Anna De Franceschi, Michele Mori e Marco Zoppello si condivide questa visione comune: un teatro che rimetta al centro il pubblico evitando di assecondarlo troppo: un Teatro popolare, mai populista. L’approvazione del pubblico non è mai strumentale al mero consenso per l’artista, ma sempre funzionale a un’idea di teatro, dove il gioco scenico sfonda la quarta parete. L’onestà alla base del gioco viene compresa e apprezzata dal pubblico, che spesso si affeziona e crea un vero e proprio rapporto privilegiato con la compagnia. Non è solo gratificante, ma anche generativo per un rapporto oltre la scena che viene sviluppato nelle fasi di creazione e allestimento o durante il nostro festival Be Popular.
A Schio oltre alla programmazione del cartellone, che si divide nei due spazi del Teatro Astra e del Teatro Civico, c’è un enorme lavoro sulle comunità con progetti specifici di coinvolgimenti e co-progettazione portato avanti con Stefania Dal Cucco e tutto lo staff. Il teatro diventa un luogo quotidiano di incontro, di scambio e relazione per più di quattrocento adolescenti durante l’anno. La proposta è quella di uno spazio aperto e inclusivo con progettualità che utilizzano dispositivi artistici per incidere positivamente sulle vite delle persone. La partecipazione agli spettacoli della stagione è la naturale evoluzione di questo rapporto. Gli spettatori ne guadagnano in consapevolezza e cognizione artistica, io posso alzare l’asticella della programmazione proponendo anche incursioni artistiche legate ai nuovi linguaggi della scena contemporanea senza dover dipendere da titoli classici o nomi di locandina. Un nutrimento reciproco che fa crescere i vari progetti creando un circolo virtuoso anche in termini di innovazione sociale.
In che modo sta evolvendo il linguaggio della scena? Come è possibile tenere insieme modernità e tradizione?
È difficile rispondere alla tua domanda: il teatro è materia viva, la mia opinione può invecchiare molto velocemente, tuttavia ci proverò.
Non ti nascondo che la ripresa post-pandemica sulle prime battute mi ha preoccupato: l’utilizzo della tecnologia è partito come un’esigenza tecnica, non come scelta artistica. Invece, come spesso la storia ci ha insegnato, le difficoltà superate diventano spesso opportunità guadagnate. Il momentaneo periodo di assestamento e riapertura ha visto molti giovani artisti imporsi sulla scena nazionale con nuovi linguaggi e con uno slancio, un entusiasmo e una voglia di mettersi in gioco che mancava da anni. Soprattutto a seguito di una crisi così profonda e generalizzata abbiamo riscoperto la linfa che da quasi tremila anni tiene in vita il teatro, cioè il nostro intrinseco bisogno di relazione con gli altri essere umani. Ed è per questo che il pubblico è tornato e anzi ha avuto un bel ricambio, a differenza del cinema che purtroppo continua a soffrire.
Il linguaggio scenico oggi, per la mia esperienza, sta tornando ad appropriarsi di questa peculiarità: la relazione intima tra spettatore e artista.
Per rispondere alla tua domanda, credo nella possibilità di rinnovamento dei linguaggi, anche all’interno della tradizione. Entrambe le cose stanno insieme se si prova a tradire la tradizione ricercando linguaggi contemporanei all’interno di stilemi e strutture tradizionali. La ricerca non è un genere, ma un’attitudine. Molte giovani compagnie lo stanno facendo con impegno e ottimi risultati. Sarebbe opportuna un’attenzione maggiore da parte di Teatri Nazionali e Tric a questo tipo di istanze, magari attraverso leve economiche legate al finanziamento ministeriale che favoriscano sostegni e coproduzioni, ma soprattutto la circuitazione di nuove proposte e linguaggi innovativi.
Cosa ti rende felice del e nel teatro oggi?
Ci sono due cose che mi rendono felice: una è essenzialmente legata alla capacità, da spettatore, di provare ancora stupore. Quando capita, quando la performance artistica mi arriva al cuore e sento che il pubblico si unisce con me e con l’artista in un respiro comune, quando l’energia si connette dal palco alla sala, avviene la magia di questo rito laico.
L’altra situazione che mi rende felice è la possibilità di creare partecipazione e favorire le connessioni di una comunità attraverso il teatro. È un percorso lungo e lento, ma il lavoro sul pubblico resta il primo impegno per i teatri di provincia, che concepisco come presidi culturali di prossimità. Mi rende davvero felice vedere questi processi sociali svilupparsi, andando a creare delle comunità attorno al luogo teatro e alle sue attività.
Rimane comunque, in questo discorso, la centralità del luogo teatro: abitarlo, attraversarlo, starci dentro. A volte mi siedo sul palcoscenico vuoto del Teatro Civico. A luci spente, con qualche spiraglio di sole che attraversa la sala, resto qualche minuto lì, in contemplazione di una cattedrale vuota, una nave che si riposa. L’ho fatto diverse volte, soprattutto durante la pandemia come intimo rito apotropaico. In quegli attimi riesco a respirare la bellezza del posto, l’energia di eventi passati. È un abbandono ad una serena solitudine, tra la polvere del palcoscenico. In quel momento sono felice.