ENRICO PASTORE | Tatiana Pavlova, esule russa (oggi diremmo ucraina, essendo nata nel 1890 a Ekaterinoslav sulle rive del Dnepr), è stata la miccia che causò non pochi cambiamenti nel nostro teatro ancorato, negli anni ’20, ai mattatori, ai grandi artisti solitari circondati da gregari, un teatro molto distante dalle rivoluzioni nel campo della messinscena e del lavoro sull’attore che avvenivano in altri paesi europei, Russia, Francia e Germania in testa. Ma prima di parlare delle riforme messe in moto da Pavlova nel nostro Paese, cominciamo con la sua formazione, passo fondamentale per capire la portata dei cambiamenti di cui fu fautrice.
Come lei tenne a specificare la sua famiglia «non ha mai avuto a che fare con l’arte, mai nessuno degli avi più lontani, né da parte di mio padre, né da parte di mia madre». La sua fascinazione per il teatro nasce a scuola, dove vede i primi spettacoli, cui vuole partecipare, ma viene sempre scartata, perché considerata non all’altezza. Questi rifiuti, anziché placare il suo desiderio, lo stimolano. Crea recite in casa con i suoi fratelli. Poi, all’età di otto anni, comincia a frequentare il teatro cittadino e, dopo aver imparato i monologhi a memoria, li prova in casa per sé stessa.
Raggiunta l’adolescenza, siamo nel 1905, anno chiave nella storia di Russia per lo scoppio dei primi moti rivoluzionari, avviene finalmente per lei l’incontro che le cambierà la vita. In città arriva la compagnia di Pavel Nikolaevič Orlenev per recitare I fratelli Karamazov. Tatiana ne è così impressionata da chiedere un incontro con il grande attore. Quest’ultimo è un professionista di grande talento, ma dal carattere difficile, pronto a dissiparsi in continui eccessi, eppure capace di adottare in modo autonomo un metodo simile a quello di Stanislavskij. Non bisogna dimenticare, e questo vale anche per la stessa Pavlova, che non necessariamente bisogna essere stati allievi del maestro per assaporare l’aroma del suo metodo. Le grandi idee si diffondono, si espandono dal centro di emanazione e ,senza paura di commettere un errore documentario e storico, si può facilmente adottare il principio antropologico della diffusione di stimoli, secondo il quale, appunto, le idee e le pratiche viaggiano nelle parole e nei corpi degli attori a una velocità diversa e indefinibile, attraverso variazioni e differenze.
Orlenev mantiene la parola e parla con i genitori di Tatiana, i quali, però, nicchiano e rimandano a un futuro da definirsi. La ragazza è impaziente e scappa di casa, raggiungendo la successiva tappa della tournée della compagnia. Qui, viene inseguita dalla madre che la riporta a casa, ma Tatiana scappa una seconda volta. La madre la raggiunge ancora, ma lei parte con l’Orlenev per la Siberia. L’attore scriverà un telegramma ai genitori, affermando che la ragazza ha del talento e ne varrà la pena.
Così, comincia il suo duro apprendistato teatrale secondo i principi del metodo di Orlenev. Il sistema adottato prevedeva tre fasi denominate: cervello, cuore e bocca. Innanzitutto, l’attore doveva studiare, non solo il copione, ma l’intera opera del drammaturgo e persino l’epoca storica e le usanze del paese d’origine (per mettere in scena Ibsen, Orlenev andò a vivere addirittura in Norvegia per comprendere l’ambiente dei drammi); a questo si aggiungeva un’analisi puntigliosa del personaggio da tutti i punti di vista. A questa fase ne seguiva una più profonda e ardua: entrare nella sensibilità del personaggio, trovare nel proprio animo gli ancoraggi dove fare aderire la personalità da interpretare. Ultima: la ricerca di gesti, modalità, intonazioni, capaci di proiettare all’esterno, verso lo spettatore, tali sentimenti animando la parola scritta, facendola vivere.
Tutto questo non passava necessariamente attraverso la verità. Tatiana Pavlova racconta su questo punto un aneddoto interessante: «Durante lo spettacolo, piansi finché potei, con lacrime vere, perché quella era la mia parte, ma lui mi si avvicinò, dicendo che le mie lacrime non arrivavano neanche alla ribalta. Erano lacrime vere, ma aveva ragione lui, le lacrime vere non arrivavano, devono essere lacrime di artista capace di farle sentire e soprattutto di indirizzarle».
Nonostante questo, per Orlenev l’interpretazione passava attraverso una riviviscenza, per «un logorio dello spirito che si traduce in una vera e profonda sofferenza fisica». Queste parole di Tatiana fanno capire come l’Orlenev volesse dall’attore un recupero interiore dei sentimenti propri del personaggio e che tali dovessero coincidere con quelli dell’interprete, il quale doveva essere in grado di manovrarli con la tecnica, affinché non venisse sommerso tanto da soccombere. Era una forma recitativa in cui si miscelavano, in un equilibrio sempre da riformulare, abbandono e controllo.
Un altro punto fondamentale del processo artistico e creativo di Pavel Orlenev era l’organicità dell’insieme degli attori i quali, condividendo un metodo, dovevano recitare insieme in un’atmosfera comune. Tale approccio era diffuso in Russia in tutti gli ambienti d’avanguardia, fosse il Teatro d’Arte di Mosca o il Teatro Drammatico di Vera Komissarievžskaija, oppure, in seguito, gli esperimenti di Vachtangov, Tairov o Mejerchol’d. Questa coerenza interna della compagnia sarà uno dei portati principali di Tatiana Pavlova al teatro italiano.
Il sodalizio con Orlenev dura fino al 1910, quando Tatiana decide che è il momento di fare altre esperienze, anche se per il suo maestro nutrirà sempre grande ammirazione e rispetto. Nel 1911 la troviamo dunque attrice al Teatro Drammatico di Mosca. Allo scoppio della rivoluzione, avendo un passaporto montenegrino, come straniera riesce a espatriare, prima a Istanbul, e in seguito a Parigi. Nella capitale francese non trova l’ambiente teatrale che si potesse adattare a lei e decide di trasferirsi in Italia, giungendo a Torino nel 1919.
Non conoscendo la nostra lingua, all’inizio lavora per i film muti. Torino all’epoca ospitava, sulle rive della Dora, gli studi della Ambrosio Film, la prima casa di produzione cinematografica italiana e una delle prime al mondo, in un bel edificio industriale liberty (oggi inspiegabilmente in totale abbandono, dopo aver ospitato per decenni il Teatro Espace, diretto dalla famiglia Bergamasco). La Ambrosio film divenne famosa in Europa non solo per le comiche di Robinet e di Fricot, non solo per il lancio del genere peplum di cui Gli ultimi giorni di Pompei (1908) sono il capolavoro indiscusso della casa di produzione, ma soprattutto per i film dannunziani come La Gioconda degli Olivi e La fiaccola sotto il moggio (1916), La nave (1921) e soprattutto per Cenere (1917), unica interpretazione di Eleonora Duse sulla sceneggiatura di Grazia Deledda. Per la Ambrosio Film Tatiana Pavlova girerà alcuni film muti diretti da Aleksandr Ural’ski tra cui L’orchidea fatale e La catena del 1920 e Nella morsa della colpa (1921).
Durante questa attività cinematografica Tatiana non smette di pensare al teatro, ma prima di cimentarsi sulle scene italiane deve impararne la lingua. I suoi insegnati saranno Armando Falconi, Cesare Dondini, direttore del Santa Cecilia di Roma, e l’attore Tullio Germinati il quale reciterà al cinema con Visconti, Rossellini e René Clair. Ad aiutarla in questa fase di adattamento e di lancio nel panorama teatrale italiano è Jakov L’vov, un avvocato e impresario che seppe prima presentarla a Giuseppe Paradossi, membro di uno dei più grandi consorzi di teatrali e di distribuzione, e poi affiancandola per limare le asprezze del carattere e l’incertezza nella lingua. L’vov sarà fondamentale anche per la venuta in Italia del Gruppo Praga, formato dai transfughi del Teatro D’arte di Mosca in esilio, tra cui figurerà il regista Šestov di cui si parlerà in seguito.
Nonostante tutti gli sforzi, Tatiana Pavlova non perderà mai l’accento russo che sempre la caratterizzerà nel bene e nel male (Pirandello non la sopportava, mentre D’Annunzio ne lodava il fascino) e, forse, non volle mai perderlo, per mantenere un tratto caratteristico ed esotico. Nel 1923 si sente pronta, quindi, a fondare una propria compagnia che debutterà al Teatro Valle con Sogno d’amore di Korosotov.
Nel lavoro con la sua compagnia unisce in sé il doppio ruolo di attrice e regista, benché la parola in Italia non solo non era usata, ma mal se ne comprendeva la funzione e l’utilizzo. Sarà solo nel 1931 che il critico Enrico Rocca della testata «Il lavoro fascista» utilizzerà il termine proprio in rapporto a un lavoro della Pavlova.
Tatiana apporta nel lavoro di compagnia le prassi imparate da Orlenev e nei teatri di Mosca spiazzando gli attori italiani abituati a ben altre pratiche. Innanzitutto, il lavoro si svolgeva in tuta, studiando l’intero copione e analizzando i personaggi. Oltre allo studio collettivo, si univa un training fisico con esercizi di respirazione. Tatiana applica con qualche modifica il metodo cervello-cuore-bocca di Orlenev insieme alla vulgata stanislavskiana probabilmente appresa a Mosca. Utilizza tutti i linguaggi scenici (le luci, soprattutto, a sottolineare i momenti chiave e i cambi di atmosfera) per dare profondità allo sviluppo attraverso un’organica composizione scenica. Inoltre, abolisce la buca del suggeritore e gli applausi a chiamata, limitando i ringraziamenti, anch’essi comunitari, alla fine dello spettacolo e caratterizzati da un semplice chinare del capo.
La critica italiana, soprattutto Silvio D’Amico, si accorge della novità. La recitazione si fa più intensa, veritiera. Lo spettacolo risulta più organico e compatto, dove gli attori si amalgamano in un ascolto e tensione costanti. Il testo risulta più profondo e la vicenda più avvincente e commovente. È una vera rivoluzione per la scena italiana, ancora dominata dalle grandi figure di mattatori e da un lavoro concepito in solitaria, dove le prove servono solo per concertare l’azione comune, le entrate e le uscite. Così scrive Sandro Paparatti nel 1975: «Tatiana Pavlova è stata colei che ha dato nuova vita al teatro italiano, colei che ha portato una ventata di novità […], colei che diede all’attore non solo la parola, ma l’anima, il movimento, il cuore, la libertà di esprimere sé stesso, pur mantenendo per il testo e per l’autore il massimo rispetto».
Ogni innovazione richiama su di sé gli strali dei detrattori e i peana dei fautori. Di certo Tatiana Pavlova fa rumore e riscuote successo. La sua compagnia alterna testi classici russi a contemporanei italiani, privilegiando Bontempelli, Rosso di San Secondo, Ugo Betti. Sulla nuova drammaturgia mantiene una posizione che ancora oggi avrebbe qualcosa da insegnare ai direttori artistici dei teatri stabili: «Non è meno diffusa, né meno sbagliata, l’idea che un lavoro, per essere rappresentato, debba contare o sulla notorietà del nome dell’autore, o sull’importanza delle raccomandazioni o della posizione sociale: sono persuasa che a un ingegno originale le porte del teatro sono assai facilmente aperte. E come siamo tutti felici allorché ci troviamo di fronte a un lavoro che appassiona e si impone, dovuto a un autore ancora ignoto, il quale è destinato a salire, un bel giorno, ad alta fama».
Tra i meriti di Tatiana Pavlova vi è anche l’umiltà di chiamare altri registi a dirigere la propria compagnia, allargando così gli strumenti a disposizione per sé e per i suoi attori. Prima collaborazione con il finnico Strenkowski, che dirige il grande successo di Resurrezione di Tolstoj, che riceve dal pubblico ben diciotto chiamate d’applausi ed è salutato dalla critica come il successo dell’anno. Poi è la volta di Šarov del Gruppo Praga, e poi di Evreinov. In seguito, Tatiana Pavlova chiama in Italia Vladimir Nemirovič-Dančenko, fondatore insieme a Stanislavskij del Teatro D’Arte di Mosca il quale dirigerà tra il 1932 e il 1934 Il valore della vita, scritto da lui stesso, Il giardino dei ciliegi secondo il carteggio con Čechov, e quindi riportando nell’opera l’atmosfera di commedia, contrariamente alla regia di Stanislavskij, e La gatta di Rino Alessi. In seguito, Nemirovič-Dančenko preparerà la Pavlova per la parte di Mirandolina ne La locandiera diretta da Guido Salvini.
Questi inviti rafforzeranno l’influsso della scuola russa in Italia, rivoluzionando completamente il modo di recitare e gestire uno spettacolo, oltre a consolidare l’istituto della regia, il cui ruolo non è quello del dittatore che impone agli attori la propria visione, ma, secondo le parole dello stesso Nemirovič-Dančenko, ripetute più volte da Pavlova, di colui che aspira a «ottenere che gli attori siano convinti di aver fatto tutto da sé».
I meriti e le collaborazione di Tatiana Pavlova sono innumerevoli sia nel teatro, che nel cinema, che nell’opera (dove lavora con i cantanti come se fossero attori di prosa) e nelle prime regie teatrali televisive per la RAI. Tra questi contributi non dimenticheremo l’attenzione dedicata alla pedagogia. Tatiana Pavlova è stata, infatti, insieme e su invito di Silvio D’Amico, fondatrice dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insegnò dal 1935 al 1938, unendo le classi di recitazione e di regia, in modo che gli allievi potessero provare quanto avevano appreso. Per far questo, rifiutava di stare agli orari e i suoi studenti, ammaliati dal suo sistema di insegnamento, disertavano le altre classi. Questo fu causa di attrito con Silvio D’Amico, che nel 1938 la costrinse a dimettersi, lanciandole accuse di anti-italianità.
Da questo momento inizia una sorta di declino scenico per Tatiana, nonostante avesse sposato Nino D’Aroma, biografo di Mussolini e direttore dell’Istituto Luce. La sua azione si dirigerà soprattutto verso l’opera lirica e il teatro televisivo. Una volta ritiratasi dalle scene, continuerà a insegnare a Firenze al Piccolo Teatro.
Tatiana Pavlova fu un turbine nel sostanziale immobilismo delle scene italiane tra il 1920 e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Certo, c’erano le eccezioni: Petrolini, i Futuristi, Anton Giulio Bragaglia, i De Filippo, ma la consuetudine vinceva sulle novità che all’estero erano già comunemente indagate. Tatiana Pavlova ebbe, però, l’intelligenza di comprendere lo spirito di un Paese ancora pieno di forze artistiche di grande livello e di cogliere l’aspetto più importante della cultura italiana: il connubio dello sperimentalismo con la tradizione. Certo, questo si potrebbe dire di qualsiasi cultura, ma forse in Italia tale aspetto è più accentuato, a causa di un passato ingombrante e impossibile da ignorare. Tatiana Pavlova lo comprese e avviò una riforma percepita da pubblico e critica a volte come irruente, a volte come gentile, ma di certo ferrea nella sua applicazione. In questo aspetto vanno forse ricercate le ragioni del suo successo oggi purtroppo parzialmente dimenticato, nonostante le pubblicazioni anche recenti su di lei.
Ancora oggi la questione è costantemente dibattuta, ma forse andrebbero mutati i termini: ogni sperimentazione si innesta in una tradizione. I due aspetti sono complementari e inscindibili. Tatiana Pavlova ne era consapevole e lo dimostra in questa sua dichiarazione: «Nel cuore e nel genio di questi due artisti (Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko ndr.) il metodo è nato, o meglio rinato, dall’esperienza dei loro predecessori: e chi troviamo al posto di codesti predecessori? Lo ha dichiarato Stanislavskij in persona: “Un italiano, quello che l’Europa acclamò forse come il più grande attore dell’Ottocento, Tommaso Salvini”».