RENZO FRANCABANDERA | Il percorso che ha portato al dispositivo performativo di KIN– costruire parentele inedite è nato a Modena nel marzo 2022 da una call. La chiamata era rivolta a donne o persone che si riconoscessero come tali, con il desiderio di incontrare le loro voci e aprire un processo di lavoro collettivo sul tema della resistenza femminile.
Si è strutturato in incontri, eventi, dialoghi che hanno attraversato per mesi OvestLab, il luogo scelto dal Collettivo Amigdala per la sua pratica, situato nel quartiere artigiano della cittadina emiliana, una zona della città con un suo specifico storico molto distinguibile.
L’attività del gruppo di ricerca artistico-sociale si concentra da sempre su contenuti e forme specifici: dai temi della cultura in azione alla politica e alla memoria culturale, per riflettere sulla conoscenza come atto collettivo e relazionale e sulle nuove forme di collaborazione fra azione artistica e attivismo civico.
KIN fa parte di una serie di iniziative, come il bellissimo festival Periferico, che da anni nutrono questo territorio di alto e altro pensiero.
KIN si è sviluppato quindi attraverso incontri, improvvisazioni e ascolti, culminati in un ciclo tenutosi a dicembre scorso, ne sono esempi le conversazioni con Diana Taylor (autrice e ricercatrice, fondatrice dello Hemispheric Institute of Performance and Politics e autrice di The Archive and the Repertoire. Performing Cultural Memories in the Americas e di Performance, politica e memoria culturale, a cura di Fabrizio Deriu), e con Camilla de Concini, attivista della Raffa – Rete Appenninica Femminista e parte di Associazione Jaya.
L’operazione, che come detto nasce da un percorso esperienziale e laboratoriale basato su tecniche di parola, improvvisazione, dialogo, ascolto si completa con uno spettacolo i cui fondamenti sono antropologici e sociologici ma la cui fruizione ha natura eminentemente sensoriale. Dalla chiamata pubblica è emerso un gruppo di lavoro di undici donne, performer, cantanti professioniste e non, che hanno poi dato vita a una piattaforma di dialogo, sperimentazione e confronto della durata di circa nove mesi. Il fulcro è stata la domanda “Come si resiste oggi, da donne, insieme?”; a partire da questa ne sono nate moltissime altre, che pian piano hanno preso la forma dell’azione performativa, dell’atto artistico.
Nel suo evolvere, la performance (spazio di indagine caro ad Amigdala) si è trasformata sempre più in una sorta di concerto per voci e parole, dove persino il parlato diventa parte di un intreccio sonoro prima ancora che di senso. Esiste una guida delle voci, esiste un ritmo, esiste una sorta di armonia di fondo che dall’inizio alla fine non abbandona lo spettatore, che insieme a circa 20 altri fruitori, va a comporre un cerchio, ad accomodarsi su sedie vicine, come potremmo immaginarlo in un gruppo di ascolto.
A conti fatti di un vero e proprio gruppo di ascolto si tratta, perché la dimensione uditiva e la funzione ricettiva sono quelle che in questa creazione trovano la realizzazione più compiuta.
Le donne, vestite in nero, prima girano intorno al cerchio di sedie, cantando, poi si accomodano fra gli spettatori dando il via a microsessioni di dialogo e monologo, una composizione concertata che si modella in unità sonora, composta di parole e musiche, che nella parte parlata certamente vuole poggiare l’accento su alcuni temi riguardanti l’identità di genere, la posizione politica della donna nel tempo di oggi ma nessuna di queste piccole conversazioni realmente si compie, si conclude.
Tutte queste parentesi di parola vengono interrotte e mescolate alla funzione canora che, nel complesso, ha sicuramente una sua formale preponderanza. Esiste una direttrice di questo coro, le partecipanti la seguono in maniera molto nitida, la direttrice kantoriana, interna al dispositivo, governa lì per lì una partitura improvvisativa basata su un repertorio musicale originale: la musicista e direttrice di coro Meike Clarelli gestisce il tempo e la musica dell’improvvisazione, cronometrata da un orologio che segnerà circa cinquanta minuti quando la performance finirà. Si intuisce che ci sia un linguaggio mistico, segreto, condiviso solo fra le donne, fatto di gesti che indicano a tutte e ciascuna cosa fare, richiamandole ad azioni e ruoli predefiniti ma non esplicitati, fluidi e invisibili.
Se ne deduce quindi che, al di là del valore della proposta musicale e vocale e dell’intreccio drammaturgico fondato sull’improvvisazione in riferimento a tematiche affrontate nel laboratorio, il gioco sia tutto in una sorta di interazione con il pubblico legata a un dispositivo costruito da trame invisibili, nascoste, che solo l’attenzione dello sguardo e dell’udito possono portare a galla.
Lo spettatore è chiamato ad attivare la capacità di interagire nel silenzio o nel piccolo intervallo, è chiamato ad abbandonarsi al sentire.
‘Sentire’ in questo contesto è parola che andrebbe scritta fra virgolette, in senso amplificato e mosso da un sistema di rimpalli, di ruoli nel gruppo, di movimenti e direzioni. Guardare tutto questo e ricavarne un senso appartiene quindi alla soggettività di ciascuno.
Si finisce dentro una matassa filata con lavoro fisico e vocale, conversazioni, autocoscienza e pratiche femministe, comunicazione non violenta, racconto, che proprio grazie alla lunga durata del processo ha consentito un’alleanza tra persone inizialmente sconosciute le une alle altre, passando anche attraverso conflitti e tensioni ma portando poi a trasformazioni individuali e collettive.
Come tutti i dispositivi costruiti su pratiche artistiche la cui visibilità rimane sotto traccia nell’esito finale per lasciare invece spazio a un fatto concreto, compiuto e giocato dentro un frattale di sensibilità incrociate, è realmente difficile descrivere quello che ognuno può trovare dentro una costruzione di questo genere.
Ci sono attenzione e silenzio, leggerezza e ironia, capacità di includere in modo anche molto semplice. Diversi piani di lettura e abitabilità di questa geografia performativa.
Si ride e si ascolta.
Personalmente in alcuni momenti ho provato a farlo anche ad occhi chiusi traendone un senso di bellezza spaesante.
Di converso come tutte le cose nate da una microcomunità, esiste anche una sorta di alchimia tutta interna, giustamente esclusiva, che resta illeggibile, patrimonio solo di chi è parte del gruppo creativo. E in fondo questo fa parte dei privilegi di chi sceglie di partecipare ai processi.
KIN fa comprendere e anche desiderare di partecipare e di sperimentare forme di co-creazione; quando il coro femminile si spegne il pubblico resta in un fragoroso silenzio: viene voglia di prendere parola.
La presa di parola, il canto, le voci di dieci donne. Questo era quello che volevano e che hanno restituito.
E di cui trasmettono desiderio sensibile.
KIN
di Collettivo Amigdala
ideazione Meike Clarelli, Daina Pignatti, Federica Rocchi, Serena Terranova
musiche originali, direzione del coro, drammaturgia sonora Meike Clarelli
movimenti di scena Daina Pignatti
dramaturg, cura dello spazio Federica Rocchi
disegno luci Eva Bruno
cura del materiale testuale Serena Terranova
con Anna Luigia Autiero, Antonella Barberio, Sara Bertolucci, Luisa Casasanta, Marta Cellamare, Beatrice Cevolani, Francesca Colli, Valeria Cruz, Elisabetta Dallargine, Elisabetta Punzi
produzione Collettivo Amigdala
con il supporto di Regione Emilia-Romagna, Settore Pari Opportunità
residenza artistica a inosservanza, Villa Aldini (Bologna)
un ringraziamento a Camilla de Concini, Federica Falancia, Gabriella Tritta
dedicato a Valeria Vicentini ♡