ELENA SCOLARI | Nel suo capolavoro Moby Dick, Melville dedica un intero capitolo al colore bianco, si intitola La bianchezza della balena. Per una pagina e mezza l’autore elenca decine di riferimenti positivi associati al bianco: la sposa, la perla, i marmi, le camelie, poi le culture in cui il colore significa gioia, purezza, candore; fino al mito greco di Giove che si trasforma in ‘niveo toro’ e al Cane bianco, messaggero puro e fedele per i nativi americani Irochesi. Nonostante tutti questi esempi “sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue” (trad. Cesare Pavese). Il bianco è lattiginoso, spettrale come un sudario.
“Forse la bianchezza adombra, con il suo essere indefinita, i vuoti e le immensità spietate dell’universo e così ci pugnala alle spalle con il pensiero del nulla?”. È forse per questo che il regista Carmelo Rifici e la costumista Margherita Platé hanno scelto di vestire tutti i personaggi di Le relazioni pericolose proprio di bianco: apparentemente candidi, eleganti, signorili perché nobili (ma non certo d’animo), in realtà sono spiriti foschi dipinti come facciate che nascondono muffa, crepe, calcinacci che preannunciano il crollo.
Eleganti, sì, come i due schermidori – bianchi anch’essi – che aprono lo spettacolo e mettono en garde l’avversario ma anche il pubblico: si apre la battaglia, tutti stiano pronti ad affondi e parate. E in effetti è in un metaforico assetto di guerra che vediamo schierati la Marchesa de Merteuil (Elena Ghiaurov, giustamente marziale ma fin troppo esuberante) e il Visconte di Valmont (Edoardo Ribatto, sprezzante come si conviene ma non abbastanza lussurioso): anche se su divani e poltrone, occupano una postazione che raramente lasceranno, attenti a ciò che avviene sul campo.
L’analogia con la scherma è azzeccata perché i duelli tra sentimenti e volontà sono condotti in punta di fioretto, fatali e raffinati; almeno fino a quando non si palesa la disfatta dei duellanti, in cui si svelano grevità e meschinità di sottigliezze psicologiche usate solo a fin di male.
Nei minuti in cui gli spettatori prendono posto, le casse diffondono la lettura in francese di un brano del trattato Della guerra del generale prussiano Carl von Clausewitz, in cui in sintesi si afferma che l’Uomo diventa veramente tale solo nella guerra, paragonabile a un duello su vasta scala, e soprattutto si dice che lo scopo non è annientare il nemico bensì costringerlo a piegarsi alla propria volontà.
Questo è il punto: l’obiettivo ultimo della perfida Merteuil è ridurre la vittima ad agire secondo il proprio piano, muovendola di lontano, convincendola che quel gesto sia un’idea sua, come un puparo che tira e molla i fili delle proprie creature inanimate. La differenza è che gli uomini e le donne inconsapevolmente soggiogati dalla marchesa un’anima ce l’hanno – benchè lei non se ne curi – ed è proprio su quella che ella fa leva.
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, scrittore ma anche generale, segretario di Filippo d’Orléans, è l’autore del romanzo epistolare del 1782 da cui scaturisce lo spettacolo, che mantiene questa forma eliminando quasi del tutto le dinamiche dirette tra attori. Ognuno legge le lettere rivolte ai destinatari in scena e mai nessun confronto avviene de visu. In questo possiamo ravvisare una giustificazione all’utilizzo massiccio dei microfoni – ad asta, gelati senza asta ma con il cavo che impiccia, calati dall’alto, altri di foggia radiofonica… -, cioè il personaggio “consegna” al microfono il testo della missiva, come alla cassetta della posta invece che a un interlocutore vivo. Quelle parole sono – de facto – lettera morta. Nel senso che alla morte porteranno, figurata o meno.
I tanti cambi di effetto vocale risultano comunque eccessivi, ridondanti, così come troppe sono le sequenze gridate. L’effetto malvagità è infatti tanto più forte quanto più sommessi e insidiosi sono i toni dei crudeli strateghi: quanto è più insinuante e persuasivo Valmont/Ribatto quando sussurra i suoi intenti a voce bassa e grave!
In soldoni la marchesa vuole vendicarsi del suo ex amante Gercourt e indurrà l’amico Valmont, consenziente (e che pure consumò con la marchesa medesima), a sedurre la giovane Cécile (Livia Rossi) che gli è promessa sposa, per consegnargliela ‘corrotta’ e non illibata come si aspetterebbe. La Merteuil la considera una sua allieva e le insegnerà molte cose… Parallelamente Valmont, che ritiene questo compito banale e poco stimolante per le proprie capacità, si impegna in un’altra missione, ben più esaltante: conquistare la presidentessa di Tourvel (Monica Piseddu), donna profondamente pia, sfidando non un altro uomo ma addirittura Dio. Questa sì che è una scommessa degna!
Un po’ come avviene, si parva licet, nella serie Fleabag in cui la protagonista si innamora di un prete assai sexy che tiene il gin-tonic nascosto in sagrestia e anche lei si sente in competizione con il padre eterno.
Cécile si sporcherà ma si innamorerà del suo insegnante Danceny (Flavio Capuzzo Dolcetta, credibile e ispirato) – che nel tempo libero si dedica anche alla marchesa, per soprammercato – e i due saranno travolti dalla passione come Paolo e Francesca, durante la lettura di un libro di Cartesio, galeotto.
Ascoltare come Choderlos de Laclos fa architettare ai due criminali dell’eros le loro strategie è una goduria intellettuale impagabile. La finezza di ragionamento e le implicazioni filosofico-morali di cui discettano nelle loro lettere sono un capolavoro di intelligenza e acutezza. La memoria, per i non giovanissimi, corre inevitabilmente al film di Stephen Frears (1988) con Glenn Close, John Malcovic, Michelle Pfeiffer e Uma Thurman, nel quale però tutto avveniva di persona e l’epistolario prendeva carne.
Pur senza saperlo prima, avevo avuto l’impressione che qualcosa in certe parti del testo non tornasse, rispetto alla memoria del romanzo: alcune espressioni esplicite di Cécile, alcune lungaggini nelle tirate moraleggianti e catechistiche di Madame de Tourvel… Infatti Rifici ha inserito frammenti di altri autori e a molti si è ispirato: dal marchese de Sade a Santa Teresa d’Avila, da Manzoni a Cechov, da Pasolini a Dostoevskij ad altri meno riconoscibili. Una scelta ovviamente legittima ma della cui necessità non v’è certezza.
C’è un’interessante prolusione di Merteuil contro il teatro e in particolare quello di “quel moralista di Voltaire” e di Valmont che le risponde difendendolo, sebbene lo paragoni alla peste: “Il teatro è contagioso, è rivelazione, è manifestazione di una crudeltà latente che la società sa ben nascondere a se stessa. Il teatro nasce dal conflitto, sprigiona forze, libera possibilità negate”… Mica male, Laclos, n’est-ce pas?
Ragionate anche le scelte di scenografia, progetto visivo di Daniele Spanò e impianto scenico di Rifici e Pierfranco Sofia. Su un grande schermo a fondo palco vengono proiettati fondali dipinti e immagini create con lavagne luminose sulle quali agiscono gli attori: disegni che si sciolgono (con l’acqua), nuvole che diluiscono i contorni, bolli rossi come macchie di vaiolo (a Parigi fronteggiarono un’epidemia, in quegli anni) che invadono anche il biancore degli abiti; il risultato in generale è di un adeguato e gentile contorno, un po’ scolastico però l’effetto-assistente degli attori che portano in giro per la scena i tavolini con le lavagne. Un po’ pesante e non indimenticabile il marchingegno che solleva Cécile.
Queste Relazioni pericolose vogliono rispecchiare il calcolo, la mania di controllo, il metodo scientifico che osserva azioni e reazioni. Giusto. Teatralmente, però, mancano sottintesi e slanci espressivi meno meccanici che comunicherebbero fuoco e dolore umani, che pur ci sono, in questi aristocratici sventurati e perditempo. Cattiveria perfetta quella di chi ha affermato che la Merteuil, contagiata dal vaiolo, “ora, ha l’animo sul volto”.
Lo spettacolo restituisce soprattutto la fascinazione per uno splendido romanzo, spietato e tetro, popolato da cervelli sopraffini che conoscono e sfruttano il potere della parola, la forza di convinzione che sta nel manipolare la lingua e le conseguenze che un dire accorto, consapevole e spregiudicato possono produrre nel prossimo, senza nemmeno toccarlo.
Il sapiente uso delle tattiche militari, però non servirà: alla fine periranno tutti, artefici e vittime delle macchinazioni, vinti dalle illusioni infrante, dai sentimenti ingovernabili, dall’onore putrefatto. Puniti dalla noia e dalla condanna all’insoddisfazione.
LE RELAZIONI PERICOLOSE
drammaturgia Carmelo Rifici, Livia Rossi
ricerca delle fonti Carmelo Rifici, Ugo Fiore, Livia Rossi
regia Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico) Flavio Capuzzo Dolcetta, Federica Furlani, Elena Ghiaurov, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto, Livia Rossi
disegno sonoro Federica Furlani
impianto scenico Carmelo Rifici, Pierfranco Sofia
disegno luci Giulia Pastore
progetto visivo Daniele Spanò
costumi Margherita Platé
drammaturgia del corpo Alessandro Sciarroni
produzione LAC Lugano arte e cultura
Teatro Elfo Puccini, Milano – 3 marzo 2023