GIANNA VALENTI | Nel nostro secolo, e negli ultimi decenni del XX secolo, i corpi della danza contemporanea sono stati, e sono, corpi che collaborano e hanno collaborato con i coreografi per creare materiali di movimento e strutture coreografiche, sia nel processo di prove che nella resa finale dei materiali di scena.
Nelle sale prove dove danzatori e coreografi hanno ricercato e ricercano nuove modalità relazionali e di lavoro, i corpi dei danzatori smettono di essere semplici strumenti a cui presentare richieste e a cui imporre dei materiali di movimento, come passi e sequenze di passi da mettere sul proprio corpo. Ai loro corpi è offerta la possibilità di rilasciare nel processo di lavoro una responsabilità coreografica e drammaturgica e di agire per produrre conoscenza, entrando in un flusso comunicativo continuo con il corpo del coreografo che non si pone più in una posizione di centralità e di verticalità decisionale.
Seguendo un rapporto fluido e di scambio, che si nutre di fiducia e responsabilità reciproca, ai danzatori viene offerto di ricercare e produrre materiali transitori durante l’intero processo di creazione e anche di partecipare e di poter prendere decisioni sulla costruzione coreografica finale.
Riuscite a cogliere l’atmosfera di queste sale prova? Riuscite a visualizzare la differenza con una sala prove in cui il coreografo che lavoro con metodi tradizionali arriva alle prove con dei materiali di movimento già pensati e preparati? Materiali che passa ai danzatori chiedendo loro semplicemente di memorizzarli e, al più, di interpretarli? E se il coreografo lavora con metodi ancor più classici, non solo chiederà di memorizzare materiali già preparati da lui personalmente nella solitudine di una sala prove, ma li passerà mostrandoli e chiamandoli per nome, perché sta facendo uso di movimenti come “passi” o come “bits” riconoscibili tecnicamente e a cui ci si può riferire nominandoli.
L’una e l’altra sono modalità di lavoro lineare, in cui i punti del fraseggio sono fissati uno dopo l’altro, con un prima e un dopo già decisi. Nei nuovi metodi collaborativi, i materiali di movimento che vedono la luce non vengono subito fissati su una linea che si è già decisa, ma rimangono in un modello mobile di fraseggio dove possono spostarsi, cancellarsi, ripetersi, sovrapporsi, saltare per agganciarsi a materiali non vicini, essere recuperati nella discontinuità, rimanere in sospeso, essere variati, dilatati o persino rimanere presenti, ma silenziati.
In un’intervista rilasciata nel 2010 per la première italiana di Out of Context-for Pina a Torinodanza, Alain Platel ci offre un’immagine viva e dettagliate delle sue dinamiche relazionali con i danzatori: “Il lavoro avviene in sala prove. C’è qualcosa che avviene a livello di scambio tra me e i danzatori e che nutre entrambi. Sento di essere fortemente nutrito dal lavoro dei miei danzatori e se faccio delle performance è grazie al lavoro che fanno i danzatori e alle cose che mi mostrano. Io sono il nome, quello che viene intervistato… non mi considero un maître o un guru.” (Intervista di Chiara Castellazzi per Piemonte dal Vivo del 10 Novembre 2010)
Platel, Out of Context-for Pina – scena di gruppo
Ho incontrato Platel coordinando un incontro con artisti a fine anni 90 al CRT di Milano, ora Triennale Teatro, quando ha portato lets op Bach e l’anno successivo Allemaal Indiaan. Le mie note riportano: “Lavoro a lungo sull’improvvisazione e preparo delle schede per ogni danzatore. Poi insieme decidiamo su che cosa continuare a lavorare. Alcune volte sono dei dettagli, altre volte sono parti già molto ampie. Dopo qualche mese inizio uno scenario. Quando inizio posso, per esempio, mettere due danzatori insieme sulla scena, mentre gli altri rimangono attivi nello stesso spazio e sono chiamati a interagire.”
Platel, Wolf – esempio di fraseggio in un a solo
Nella sua sala prove, i danzatori condividono una responsabilità coreografica attraverso i trasferimenti, i passaggi, gli scambi e i fraseggi continuamente modificabili dei materiali danzati. Platel indica come danse bâtarde questa sua modalità di lavoro e ce la racconta nell’intervista del 2010 citata sopra: “Chiedo a dei danzatori di preparare delle frasi di movimento e poi chiedo ad altri danzatori di rielaborarle e insieme continuiamo questo scambio e questa modalità di lavoro e alla fine abbiamo una danza che non riusciamo più a definire.”
Platel intervistato per Out of Context-for Pina cita e spiega la sua danse bâtarde
Questa processo di lavoro mette in gioco un modello relazionale fluido e circolare tra danzatori e coreografi e all’interno del gruppo di danzatori. Il corpo dei coreografo diventa un sistema percettivo che si fa testimone e memoria del lavoro creativo dei corpi dei danzatori. Un corpo che sa attivare risposte immediate, mettendo in gioco, come in un’improvvisazione, forti capacità intuitive, per continuare a nutrire, con proposte fisiche o di pensiero incarnato, il lavoro dei danzatori.
Il corpo del coreografo, in questo essere presenza totale nel momento stesso in cui i danzatori offrono dei materiali di lavoro, incarna una fiducia nelle proprie capacità fisiche, mentali, emotive ed intuitive e al tempo stesso riconosce queste stesse qualità nei corpi che danzano.
Nel 2016, alla Lavanderia a Vapore di Torino, ho visto Legitimo/Rezo, una coreografia che si muove come una lecture performance e che espone i metodi coreografici che Jone san Martin, la danzatrice e performer in scena, ha sviluppato nel suo rapporto più che ventennale con William Forsythe, il suo coreografo. Jone, prima di iniziare a danzare, ci racconta e informa che come danzatrice le viene data una responsabilità coreografica e la piena fiducia da parte del coreografo e che “the most beautiful things happen when we don’t know what is happening“. ( Legítimo/Rezo. Concept Jone San Martin, Josh Johnson. Input William Forsythe. Music John Johnson. December 18th, 2016).
Legitimo Rezo – trailer parte finale danzata, dopo la parte di lecture performance
Descrivendo verbalmente il metodo di lavoro, e mettendoselo contemporaneamente sul corpo, Jone ci offre un’esperienza incarnata del processo di creazione con Forsythe. Lo paragona all’azione di passarsi una palla, lanciando e continuamente trasferendo da un corpo all’altro i materiali di movimento: “Forsythe lancia, il danzatore riceve e legge, il danzatore modifica la frase e la rilancia al coreografo”. E poi continua la sua performance di questo processo coreografico fluido, che chiama generations, mostrando, con l’aiuto di una altro danzatore, Josh Johnson, le modalità di trasferimento dei materiali e i continui passaggi dei fraseggi danzati.
Forsythe discute il suo progetto pedagogico/coreografico Improvisation Technologies, il metodo di scrittura coreografica che usa per generare movimento e per dialogare con i suoi danzatori
Forsythe, A Quiet Evening of Dance, alcuni esempi di fraseggi collaborativi
Il processo di creazione dei materiali di movimento di Forsythe è un’azione che si radica su una creazione che si è appena manifestata e la trasforma. Sia che avvenga tra il corpo del coreografo e il corpo del danzatore, che tra il corpo di un danzatore e quello di un altro danzatore, è un’azione che sbilancia per sempre ogni posizione di verticalità e ogni nozione di centralità coreografica. Attraverso una pratica simile di trasferimento dei materiali appena creati, per essere trasformati attraverso una nuova creazione che si radica sulla precedente e la trasforma, Platel ci offre un’azione che frantuma ogni centralità coreografica.
Se è vero che sempre più coreografi fanno uso dell’improvvisazione dei danzatori, se è vero che persino le grandi scuole di ballo si stanno ponendo il problema di avere dei danzatori che sappiano rispondere alle nuove modalità di costruzione coreografica attraverso l’improvvisazione, è anche vero che la maggior parte dei coreografi fa un uso dell’improvvisazione dei danzatori semplicemente per recuperare dei materiali di movimento per le loro creazioni — una modalità coreografica che fa uso della creatività di chi danza per poi riportarla alla centralità della propria visione autoriale, mantenendo la verticalità decisionale su come viene costruito il fraseggio e sulle strutture coreografiche create.
Pur nella diversità delle loro visioni artistiche e delle loro costruzioni coreografiche, Platel e Forsythe manifestano invece un desiderio comune di dare responsabilità coreografica come autori ai loro danzatori, ricercando un nuovo modo di essere coreografi e ridefinendo costantemente la centralità autoriale di questo ruolo.
Forsythe, scegliendo un approccio coreografico che mette attenzione al processo di creazione del movimento, sceglie automaticamente di dare un nuovo ruolo al corpo del danzatore che diventa un coreografo/partner. Platel, mettendo al centro del proprio pensiero coreografico la disgregazione e riaggregazione continua dei materiali danzati, mette al centro della propria scena un corpo coreografico collettivo che si estende orizzontalmente in una pluralità di direzioni.
In entrambi i casi, la centralità e verticalità coreografica scompare e avanza il corpo del danzatore come corpo creativo, visionario e coreograficamente abile. Il loro pensiero ha inciso l’ultima pare del XX secolo e, mentre ci avviciniamo al primo quarto del XXI secolo, diventa importante ricordare che c’è un’urgenza nel ridare centralità a ogni corpo all’interno del processo coreografico e nel prendersi cura, attraverso la formazione, del danzatore come corpo che agisce coreograficamente.
Un ultimo materiale video:
William Forsythe discute il suo progetto Synchronous Objects creato per mettere luce sulla conoscenza che è insita nella danza e ci racconta come una parte del progetto gli abbia mostrato, commuovendolo, l’enorme responsabilità che i suoi danzatori immettono nella costruzione coreografica.