ESTER FORMATO | In scena due settimane fa presso la sala Bausch del Teatro Elfo Puccini di Milano con ben tre spettacoli, Controcanto Collettivo è una compagnia romana che si forma nel 2011, nascendo come prosecuzione di un percorso laboratoriale guidato da Clara Sancricca e che, anno dopo anno, si sta facendo spazio nel panorama teatrale italiano. Da “Sempre domenica” a “Settanta volte sette“, a “Salto di specie” (spettacoli che Pac ha raccontato, vedi link), quello di Controcanto è un teatro che, pur essendo in divenire e alla ricerca di una sua identità, mostra sin dal principio una grande specificità contraddistinta da minimalismo ed essenzialità, caratteristiche che impongono – per una buona riuscita – un metodo costante e preciso. E il risultato è tangibile, perché nello scegliere la raffinata semplicità con cui costruire gli spettacoli, in tutti e tre i lavori finora prodotti non vi è nessun cedimento a semplificazioni o banalità ma un’attenzione minuta a “dettagli” dell’umanità che rende il lavoro di Controcanto interessante e coraggioso anche per il punto di vista scelto – privo di alcuna retorica – riguardo alla trattazione di alcuni temi; se in “Sempre domenica” si affronta la conflittualità fra lavoro e vita, in “Settanta volte sette” il tema del perdono è il fil rouge di una dolorosa vicenda umana che accomuna in maniera struggente le vittime e il colpevole, e che in parte s’interseca anche con la condizione umana dei detenuti, mentre in “Salto di specie” la maturazione di una nuova sensibilità comporta una scelta drastica e rischiosa.
Da dove parte e come nasce la loro poetica, ne parliamo con Clara Sancricca e Martina Giovanetti che insieme a Federico Cianciaruso, Riccardo Finocchio, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero e Giorgio Stefanori, animano il Collettivo.
Il nome “Controcanto collettivo” è già molto significativo. Se doveste sinteticamente elaborare un vostro manifesto teatrale, cosa potreste dirci a proposito?
C.S. In realtà non abbiamo una vera e propria prerogativa in fatto di poetica, quindi non vi è un pensiero prestabilito a monte. Quel che siamo lo scopriamo continuamente attraverso i nostri lavori in cui, una volta nati, ci riconosciamo. Di certo esistono denominatori comuni per gli spettacoli: il primo è sicuramente il fatto che la drammaturgia sia del tutto autoctona ed è un processo che ci accomuna e coinvolge tutti.
M. G. L’idea parte sempre da Clara che ci propone un nucleo drammaturgico che diventa, appunto, una materia comune e che plasmiamo insieme passo dopo passo, attraverso il lavoro interpretativo sui personaggi. Ma sul modo in cui nasce uno spettacolo le nostre esperienze sono eterogenee. Non abbiamo un metodo univoco per costruire un lavoro, la genesi di ognuno è diversa.
C. S. Se c’è un nucleo imprescindibile di quel che facciamo, è l’interesse a fare emergere una parte di umanità spesso lasciata ai margini. Voglio dire, quella luminosa, quella commovente e ritenuta probabilmente meno interessante di quella più problematica e cupa già abbondantemente raccontata nei nostri giorni. Quando ci proviamo, lo facciamo senza alcuna ideologia che la sovrasti. Ecco, quello che sinora siamo riusciti a comprendere di Controcanto, è il desiderio di dedicarci a quella dimensione umana e spirituale, e di rappresentarla senza che ci siano filtri a comprometterne l’autenticità e la possibilità di commuoverci per essa, condividendola così con gli altri.
Una caratteristica che sorprende molto dei vostri spettacoli è l’estremo realismo dei dialoghi che, quasi, sembra non abbiano nulla di teatrale. In che modo siete riusciti ad arrivare a questo tipo d’interpretazione?
C. S. La lingua che scegliamo per i nostri spettacoli è sicuramente frutto proprio del processo comune di cui parlavo. In essa ci ritroviamo, in essa vi sono i luoghi che abitiamo, quelli della nostra vita e della vita dei nostri personaggi. Ecco, anche di questo, cioè che questa lingua sia diventata per noi identitaria, ce ne stiamo accorgendo di spettacolo in spettacolo. Attraverso di essa, forse cedendo a un taglio più cinematografico, abbiamo fatto un passo indietro rispetto a quel tipo di affettazione che il teatro spesso impone. Poco male, stiamo cercando una cifra tutta nostra per raccontare nella maniera più genuina possibile alcuni lati della vita che cerchiamo di cogliere nella sua piena autenticità.
Quale impatto ha sul pubblico questo vostro linguaggio?
M. G. Sicuramente arriva tanto alle persone che intravedono in noi un taglio più cinematografico, e con questo mi ricollego al discorso dell’affettazione del teatro che si faceva prima. Ciò le avvicina facilmente ai nostri personaggi, alle loro vicende e quindi aiuta certamente quel processo di immedesimazione che a teatro avviene molto meno rispetto al cinema.
“Sempre domenica” è uno spettacolo solo apparentemente semplice ma in realtà la sua drammaturgia è di grande complessità. Qual è stata la gestazione di questo spettacolo?
C. S. I personaggi siedono in scena frontalmente, come sui seggiolini della metropolitana. E l’idea nasce proprio da questo, da brandelli di conversazione sui problemi quotidiani ascoltati in metro, raccontati da chi occupava quei sedili. Da quest’immagine è nata l’idea di provare a incrociare i dialoghi dei personaggi, tessendo insieme frammenti di più vite che hanno come denominatore comune il problema del lavoro, non inteso come mancanza, ma piuttosto di come talvolta esso ci privi del nostro tempo e di un rapporto intenso e soddisfacente con gli altri.
“In Settanta volte sette” emerge un aspetto molto significativo: le diverse condizioni psicologiche ed emotive che si originano nella storia, nelle due controparti, si sviluppano come un continuum molto evidente proprio nella costruzione scenica. Com’è stato possibile ricostruire nel movimento scenico questa complessità?
M.G. Se si nota questo continuum è perché ci siamo confrontati con chi ha vissuto la morte di un parente per mano di un’altra persona. Abbiamo cercato di capire da dentro, ovvero dal lavoro fatto sui nostri personaggi, i vari passaggi, come ad esempio quello dalla rabbia verso quell’intenzione di apertura. Di grande aiuto è stato il fatto che Claudia Francardi, presidente di un’associazione di giustizia riparativa e che ha vissuto un grande lutto, ci ha guidati in questo percorso, spiegandoci proprio come sia stato possibile riuscire anche a incontrare chi aveva ucciso suo marito. Vivendo i nostri personaggi, ma avendo anche lei al nostro fianco, siamo riusciti a raccontare queste tappe. E se ora sono leggibili scenicamente, è perché ci siamo interrogati a lungo prima di trovare il modo per andare avanti. Ciò ci ha costretti ad approfondire cosa ostacolava un percorso del genere, ne siamo usciti man mano e siamo riusciti a costruire il cammino che i nostri personaggi lentamente riescono a compiere.
Come vi collocate nel panorama teatrale italiano e cosa ha determinato per voi l’idea di farne pienamente parte?
M. G. È una domanda molto difficile, crediamo che ci sia un prima e un dopo per Controcanto; e lo spartiacque è sicuramente il 2017, l’anno in cui “Sempre domenica” ha vinto In-box. Prima avevamo un bagaglio di esperienza minore e sicuramente meno visibilità rispetto a oggi. Poi è come se fossimo stati lanciati improvvisamente sulla scena italiana senza che ce lo aspettassimo. E forse la repentinità di tutto questo non ci ha ancora fatto comprendere del tutto la nostra posizione all’interno del contesto, né forse siamo così interessati a capirlo.
C. S. Quello che avevamo intuito era l’apprezzamento del pubblico, ma ci sorprende ancora quello degli operatori del settore in genere, perché abbiamo sempre percepito il rischio che vedano in noi un’ingenuità nel nostri modo di fare teatro. Il fatto che abbiamo ricevuto riconoscimenti importanti, come ad esempio quello di Hystrio, forse aiuta a sdoganarci da questa percezione, ma d’altra parte quel che ci fa più piacere è che si riconosca in noi un’onestà di pensiero e di intenti che è alla base di tutto quello che facciamo. Quello che abbiamo capito è che dall’impegno che ci accomuna e che in qualche modo ci vincola gli uni con gli altri, nasce la possibilità di mantenere vivo il nostro pensiero e la nostra coerenza, e dunque, di proporre al pubblico una visione personale dell’umanità.