EUGENIO MIRONE | Cesare De Michelis, critico letterario ed editore che agli studi sul XX secolo ha dedicato la sua intera vita, scriveva: «Sono quarant’anni e più che il Novecento mi sfugge nella sua identità». Secolo innominabile, il Novecento lo è stato non solo per una ragione morale quanto più per l’impossibilità di coglierne una cifra unificante. Sembra alquanto paradossale se si pensa che, per continuità cronologica, è il secolo che più di tutti continua a interpellarci. Basta seguire un qualsiasi telegiornale per accorgersene.
Il Novecento è stato anche il secolo delle utopie fondate sull’ideologia e del loro totale fallimento, nel quale si è assistito al crollo dell’umanesimo e della millenaria civiltà contadina. Tutto questo ha generato un enorme senso di disorientamento che ha agguantato l’animo umano senza più staccarsene.
Eppure, di fronte al gigantesco Guernica, non si è smesso di cercare una chiave di lettura. De Michelis, ad esempio, l’ha individuata nel binomio Moderno-Antimoderno. Il binomio, invece, Lino Guanciale lo costruisce insieme alla fisarmonica di Marko Hatlak per dar vita alla filastrocca di Europeana, l’assurdo inventario novecentesco di Patrik Ouředník, che è anche la proposta di rilettura del secolo da parte dello scrittore ceco.
Il sottotitolo dell’opera recita Una breve storia del XX secolo. Breve è stato canonizzato il XX secolo da Eric Hobsbawm, ma come è possibile riassumere in poche pagine la biografia di cent’anni così densi e problematici? In Europeana gli eventi della storia sono accumulati come si accumulano gli stralci di giornale per una rassegna giornalistica o come si impilano i vestiti sporchi in camera. Senza un criterio unificante, le notizie più disparate vengono giustapposte con pari importanza e alla rinfusa.
Sintetizza bene Lino Guanciale: «Impressiona come Ouředník possa creare i giusti nessi che tengono insieme la bambola Barbie e l’Olocausto». È un modo per raccontare il Novecento, senz’altro efficace per mettere in evidenza la mancanza di un centro, di un punto fisso.
Le parole del testo prendono vita attraverso il dialogo tra la voce di Lino Guanciale e la fisarmonica di Marko Hatlak, un attore e un musicista, un italiano e uno sloveno (fatto artisticamente irrilevante, ma che acquista valore all’interno di un discorso sul Novecento). Sul palco i due performer sono disposti ai lati opposti, Hatlak è seduto sul fronte sinistro del palco, alla stessa altezza ma sul lato opposto si trova, invece, il leggìo di fronte al quale sta in piedi Guanciale.
Alle loro spalle una gigantesca montagna di magliette dai colori variopinti (che richiama La Vergine degli stracci di Michelangelo Pistoletto), accatastate l’una sopra l’altra, ricorda la stanza disordinata di un teenager. Tale aspetto è rafforzato dalla comparsa in scena di alcuni pupazzi, tra cui uno che si trasforma anche in lettore per mezzo della voce di Guanciale nei panni di ventriloquo. Anche la scenografia disegnata da Gianluca Sbicca, che riporta alla mente l’idea di caoticità, da un lato rafforza la rilettura del secolo in termini di disorientamento e dall’altro mette in maggior risalto la struttura narrativa di Europeana.
Ouředník ha elaborato una pirotecnica costruzione di ecolalie, il cui scopo è quello di fornire le coordinate di un secolo che, però, rimane un mare aperto. «Dicono che» è il ritornello della filastrocca recitata da una polifonia di voci che ora si alternano, ora si sovrappongono e infine si scontrano. Ogni tanto Lino Guanciale va a pescare magliette dal promontorio di panni alle sue spalle e, indossandole una di seguito all’altra, fa crescere una montagna sul suo petto.
Ora il senso di gravità è più tangibile, le maglie si accumulano come strati di roccia, eseguire un carotaggio sarebbe come aprire il vaso di Pandora. Così dalla bocca dell’attore viene rigurgitato l’enorme ammasso di eventi che le pagine di Europeana hanno ingerito per bulimia: la morte della metafisica e il trionfo della relatività, l’evoluzionismo, la propaganda, l’acqua calda nelle case, l’invenzione del reggiseno, il post-umanesimo, l’eugenetica, lo Zyclon B e le camere a gas, le leggi sulla sterilizzazione, la bambola Barbie, il razzismo e la globalizzazione, il raggiungimento del benessere come fine della Storia.
Il rapporto tra lettura e musica è un dialogo, a tratti anche spiritoso. Lino Guanciale è poliedrico nel dar voce alla cascata continua di fatti, così come organizzati dalla penna di Ouředník. A tratti si diverte a prendere in giro il collega “slavo”, reo di farsi prendere eccessivamente dall’entusiasmo, appellandolo con epiteti tipicamente meneghini quali pirla o ciula. Hatlak risponde a tono tramite la sua fisarmonica, con la quale spazia tra riff di celebri canzoni anni ottanta e melodie popolari. I suoi assoli calamitici creano struttura e consentono allo spettatore di appoggiarsi per qualche istante alla musica prima di reimmergersi in un fiume di parole, date, eventi.
Particolarmente funzionale è la scelta dello strumento di accompagnamento, la fisarmonica infatti non produce un suono pulito ma anzi stridente e dissonante, che traduce perfettamente in frequenze sonore il carattere fatto di contrasti del Novecento. Con energia, dunque, i due performer sostengono il ritmo di una narrazione arlecchinesca.
Una sola postilla va posta accanto a quei momenti particolarmente concitati della pièce dove il suono della fisarmonica incalza le parole dell’attore; in questi momenti la voce di Guanciale si attesta su un tono eccessivamente gridato, laddove sarebbe bastata la musica per innalzare il volume.
Alla fine, di fronte all’illogicità di quanto appena narrato il desiderio di fare ordine è impellente: ogni secolo ha la sua montagna, ma siamo certi che sia questo l’approccio migliore per provare a scalare? O forse l’estremo tentativo di cambiare ciò che è stato sortirebbe lo stesso effetto delle urla di una madre che richiama all’ordine un figlio in piena adolescenza?
L’eredità più grande del Novecento è il sentimento d’angoscia, il rimorso di aver perso l’innocenza. È un peso che bisogna caricarsi sulle spalle. Perciò, prendere le magliette dall’enorme pila e indossarle non significa scalare, ma attraversare le ferite del passato portando su di sé la croce del tempo.
Non si tratta di chinare il capo alla Storia, se così fosse milioni di vite si sarebbero sacrificate invano. La modernità si può correggere, è quanto credeva De Michelis. Un’utopia della ricostruzione è possibile, fintanto che il passato aiuterà a mantenere i piedi saldi per terra. Il Novecento ha insegnato in cosa può trasformarsi un’utopia; ma può anche insegnare che la consapevolezza genera il cambiamento, non l’oblio.
EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO
21 marzo 2023