RENZO FRANCABANDERA | Ha preso il il via lunedì 27 e prosegue fino a venerdì 31 marzo presso il DAMSLab di Bologna il progetto Crocevie di Teatro e Carcere: due spettacoli, un cortometraggio e tre incontri per indagare gli incroci fra teatro e carcere, a cura di Cristina Valenti e Valeria Venturelli. Il progetto, inserito nell’ambito della programmazione de La Soffitta 2022-2024: Bologna Crocevia di Culture, presenta un focus in particolare sulle esperienze di rete del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, che raccoglie il lavoro di sette compagnie teatrali in otto Istituti di pena della Regione, e di Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, iniziativa che coinvolge oggi 15 carceri e 15 compagnie teatrali in Italia.
Il programma delle attività ha preso avvio il 27 e 28 marzo con Io ero il Milanese. Live, spettacolo di e con Mauro Pescio, autore dell’omonimo podcast realizzato perRaiPlay Sound, che in meno di un anno ha permesso a oltre 1.500.000 ascoltatori di conoscere la vita dell’ex rapinatore detto “il Milanese”: un’incredibile storia vera, appassionante e intrisa di forte umanità, che racconta gli errori, le scelte sbagliate e il percorso di rinascita di Lorenzo S., che Pescio conosce nel 2017, dieci giorni dopo l’uscita dal carcere, e da cui è nato il libro scritto sulla scia del successo del podcast insieme a Lorenzo S., Io ero il milanese. La storia dei miei errori e della mia rinascita (Mondadori 2023).
Gli eventi sono proseguiti mercoledì 29 marzo con la presentazione del cortometraggio del Teatro dell’Argine, Fuori, dentro a questo mondo, realizzato dagli attori detenuti della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, con il coordinamento artistico di Micaela Casalboni.
La rassegna termina con la presentazione del lavoro della compagnia Opera Liquida, composta da attori detenuti ed ex detenuti, attiva dal 2009 nella Casa di reclusione Milano Opera: la compagnia sarà ospite del Teatro del DAMSLab venerdì 31 marzo, alle ore 16, a conclusione del progetto Crocevie di Teatro e Carcere. In scena sette attori detenuti e tre ex detenuti, diretti dalla regista Ivana Trettel, che presenteranno lo spettacolo Noi guerra! Le meraviglie del nulla, un visionario lavoro di drammaturgia collettiva scritto insieme agli attori reclusi con l’apporto di linguaggi artistici differenti. Al termine dello spettacolo, la compagnia, l’artista cinetico Giovanni Anceschi, che ha firmato la scenografia dello spettacolo, e il Direttore della Casa di reclusione Milano Opera,Silvio Di Gregorio, incontreranno il pubblico.
Abbiamo intervistato Cristina Valenti dell’Università di Bologna e Ivana Trettel di Opera Liquida.
Cristina, raccontare le esperienze di pratica teatrale dentro il microcosmo della realtà carceraria significa raccontare di umanità, relazioni, percorsi chiusi dentro un perimetro dato. Questa esperienza al DAMSLab porta alcune esperienze fuori dal perimetro. Come è nata l’idea?
Attorno all’esperienza teatrale nei luoghi reclusi si stringe a ben vedere un doppio perimetro: quello dei confini ideali rappresentazione e quello dei confini materiali dell’edificio carcerario.
Nell’un caso e nell’altro il teatro rappresenta, per suo statuto, una possibilità di superamento e anche di sovvertimento. Il perimetro tracciato idealmente attorno allo spazio performativo corrisponde al teatro IN carcere, che si oppone al teatro DEL carcere. Se ci pensiamo, il carcere è di per sé un luogo di rappresentazione, nel quale i detenuti devono attenersi a codici di comportamento e ruoli ben definiti e gerarchizzati. Il teatro che entra IN carcere mette in discussione tali ruoli e apre possibilità diverse per l’attore detenuto, sul piano dell’autorappresentazione personale, dell’elaborazione di un diverso sentimento di sé e della riappropriazione della propria storia personale. E il teatro apre inoltre brecce nel perimetro dell’edificio carcerario, costruendo un ponte fra dentro e fuori, che viene attraversato dagli operatori teatrali e dal pubblico, ma anche dai detenuti, nel caso in cui abbiano la possibilità di portare fuori i loro spettacoli, come nel caso del progetto ospitato al DAMSLab. E inoltre il teatro illumina l’invisibilità della pena, restituisce cittadinanza agli individui che la pena detentiva separa dalla società civile, contribuendo ad abbattere lo stigma, ma soprattutto a produrre conoscenza.
L’dea di questo progetto nasce proprio da queste considerazioni. “Crocevie di teatro e carcere” mette in campo diverse possibilità di attraversare quel confine perometrale: materialmente e idealmente. Attraverso lo studio e la documentazione, attraverso le immagini video, ma soprattutto attraverso gli spettacoli. In particolare ho avuto modo di conoscere più approfonditamente il lavoro di Opera Liquida in occasione di una masterclass realizzata nella Casa circondariale di Milano Opera. Da allora ho lavorato ad esplorare le possibilità diportar fuori il loro spettacolo. E ce l’abbiamo fatta.
Dove sta lo spunto accademico dell’incontro? In che modo l’Università guarda a questo complesso di esperienze? Cosa aggiunge il confronto ai percorsi delle specifiche compagnie?
L’Università di Bologna è stata antesignana degli studi legati al cosiddetto “Teatro Sociale”, che Claudio Meldolesi, di cui sono allieva, preferiva chiamare “Teatro di interazione sociale”. Un teatro che interagisce con la società nelle sue aree marginalizzate e ne interroga le manifestazioni inedite di espressione artistica, affiancandole. La risorsa che il teatro può rappresentare in questo senso è espressa eloquentemente nel titolo di un saggio di Meldolesi, fondativo degli studi sul teatro in carcere: “Immaginazione contro emarginazione”. Gli intrecci disciplinari fra accademia e teatro dell’alterità appartengono ormai a una fase matura. Come docente, io sono titolare dell’insegnamento di “Teatro Sociale”, presso il Corso di Laurea Magistrale in Discipline della Musica e dello Spettacolo, e ho inaugurato recentemente l’insegnamento “Teatro Sociale: ambiti e forme organizzative” nel Master in Imprenditoria dello Spettacolo, di cui sono direttrice. Per gli studenti di entrambi i corsi, organicamente coinvolti nel progetto “Crocevie di Teatro e Carcere”, gli spettacoli e più in generale le esperienze delle compagnie e delle reti convolte rappresentano un campo concreto di verifica e indagine.
Ti sei sempre molto spesa per una pratica delle arti sceniche a favore della popolazione sensibile, dai bambini fino a questo evento oggi. Come nasce in te questa sensibilità e che frutti pensi che abbia portato in te come persona?
Credo ci siano della radici generazionali che sono anche radici politiche. Il confronto con l’alterità nasce, per la mia generazione, di pari passo con l’imperativo del teatro vivente e si realizza a partire dagli anni novanta sulla scena del teatro sociale e delle diversità. Ho visto il nascere e il moltiplicarsi delle compagnie teatrali che, nel rifiutare le forme e gli spazi convenzionali, hanno dato vita a esperienze integrate, allargate e meticciate. E sono stata testimone dei primi risultati artistici che hanno fatto irruzione sulla scena con la potenza della rivelazione. Che io ho interpretato da subito nella duplice potenzialità: politica e artistica. D’altro canto sono studiosa del Living Theatre e credo di aver imparato pressoché tutto da Judith Malina, nella cui esperienza la battaglia per l’emancipazione e la liberazione dell’individuo andava di pare passo con la battaglia per le nuove forme e per la bellezza. In nome dell’utopia praticata: che è anche il frutto che ho raccolto come persona.
Ivana, quando è nato questo spettacolo, come, dentro quale spazio e cosa significa ora poterlo portare “fuori” sia per te che per gli attori?
“Noi guerra! Le meraviglie del nulla” avrebbe dovuto debuttare il 21 marzo 2020, all’interno dell’8^ edizione del nostro Festival “Prova a sollevarti dal suolo”, nel teatro della Casa di Reclusione Milano Opera. Un lavoro nato dall’esigenza di confrontarsi con ciò che accade intimamente all’umanità odiata e odiante. Contienein sé una critica ai mezzi di comunicazione, alla rete, che instilla panico e odio, paura e diffidenza, confondendo il pensiero critico in una resa bidimensionale delle persone e della realtà. L’impianto drammaturgico, infatti, alterna la “Redazione dell’odio” che, ipnoticamente, manovra gli esseri umani, a quadri in cui l’umanità soccombe alla guerra o cerca di far riaffiorare, rispondendo ad un istinto primordiale, la propensione all’amore e alla vita. I testi, prodotti all’interno del laboratorio drammaturgico, sono frutto di riflessioni collettive, miei quelli della Redazione dell’odio, prevalentemente di Alex Sanchez, che lavora con me alle drammaturgie da anni, oltre che di Gentian Ndoja e Claudio Lamponi. L’incontro straordinario con l’artista cinetico di arte programmata Giovanni Anceschi ci ha portato alla progettazione e costruzione delle enormi “Tavole di possibilità liquide”, opere straordinarie e totemiche, entrate a pieno titolo nella drammaturgia scenica dello spettacolo. Le partiture fisiche che raccontavano la vicinanza erano tutte di contatto. La pandemia, periodo in cui Opera Liquida, a parte alcuni brevissimi spazi di tempo, ha continuato a lavorare, ci ha costretto a ricostruire l’umano sentire e il suo straordinario vibrare, in assenza di contatto. Questione che l’umanità tutta ha dovuto affrontare in quel lungo, oscuro periodo.
Dopo il debutto a dicembre 2021, la nostra prima uscita post pandemia ad aprile è stata nel Teatro Comunale di Opera, sono seguite le repliche a dicembre scorso a Pacta dei Teatri e Campo Teatrale all’interno del palinsesto Milano è viva. Momenti per noi straordinari, di condivisione profonda, in cui incontrare nuovo pubblico e condividere il nostro bisogno di comunicare. La replica al DAMSLab/La Soffitta ci riempie di gioia. Io provengo dal DAMS, Claudio Meldolesi mi ha accompagnato nelle prime riflessioni su questa pratica straordinaria, il teatro in carcere. Lo scorso novembre Cristina Valenti, tra i docenti ospiti della nostra masterclass “L’officina di Opera Liquida: un incrocio di sguardi tra teatro e accademia”, al termine del nostro spettacolo ha proposto l’invito al DAMSLab, mi è sembrato un sogno, cosìlontano, ovattato come la nebbia che ci avvolgeva. Per noi un riconoscimento artistico straordinario. Ora, grazie al supporto della Direttore della Casa di Reclusione Milano Opera Silvio Di Gregorio, che sarà presente alla replica, il sogno si avvera. Grande emozione.
Cosa significa per una artista vocare il proprio percorso alla pratica teatrale dentro il carcere? Perché lo hai scelto? Cosa ti ha dato?
Ho sempre pensato che il teatro fosse un mezzo di comunicazione straordinario, capace di canalizzare messaggi importanti. La presenza, la prossimità, inchiodano lo spettatore che, respirando la stessa aria dell’attore, è impossibilitato a qualsivoglia processo di presa di distanza. Il carcere è un amplificatore per sua natura. Dopo una breve esperienza giovanile nella Casa circondariale San Vittore ho percepito fortemente il riempimento di senso che questa pratica può assumere dentro a quelle mura. Credo anche che questa scelta sia stata dettata, in parte, dal mio pudore. Fuori dalle logiche di produzione e distribuzione, una compagnia in carcere può concedersi il lusso della ricerca, nessuna aspettativa, grande riduzione dell’ansia, un raccoglimento insperato.
Opera Liquida è una creatura che accade. A dicembre 2008 mai avrei pensato che quel piccolo laboratorio sarebbe durato così a lungo. Da molti anni è una compagnia mista di detenuti ed ex detenuti attori. Negli anni sono stati diversi i detenuti attori che, all’uscita dal carcere, hanno voluto continuare a fare teatro. Resistono Vittorio Mantovani, Alfonso Carlino e Carlo Bussetti, in scena anche venerdì prossimo, che hanno rappresentato uno sprone a non arrendersi alle difficoltà, e sono state tante, un reale sostegno, nucleo fondante e attivo. Diversi gli attori ora in uscita, ma dei futuri accadimenti osserverò gli sviluppi, aldilà delle intenzioni. E poi ci sono gli “effetti collaterali” universalmente riconosciuti che questa pratica porta alle persone detenute. Il teatro è uno strumento straordinario, ognuno libero di utilizzarlo come crede, ma veder rifiorire le persone, e negli anni ne ho viste tante, è sicuramente un processo che scalda il cuore.
Che consigli daresti a chi volesse in qualche modo iniziare un percorso di innesco creativo mediante la performatività con popolazioni sensibili?
Io lavoro in colleganza e assenza di giudizio. Colleganza perché abbiamo un obbiettivo comune, la messa in scena, assenza di giudizio perché non mi occupo di ciò che è accaduto prima, non mi interessa. Evito atteggiamenti pietistici, porto le mie frustrazioni in laboratorio, esattamente come gli altri e non credo di “somministrare” proprio niente. Condivido una pratica e in questa condivisione paritaria la mia esperienza mi insegna che si innescano le energie più stupefacenti e insperate. Credo che questo sia l’unico modo per entrare in contatto reale con le persone. A qualunque “categoria” appartengano. Credo anche che sia ancor più necessario che in qualunque altrove, inseguire l’eccellenza e la bellezza. Ci sono luoghi che in sé posseggono brutture e sottrazioni, se la pratica artistica li incontra deve distaccarsi da quella realtà per costruire altri mondi possibili e questo richiede impegno e dedizione. L’ultimo consiglio ha a che vedere con il tempo. Una volta scelta la propria dimensione penso sia necessaria la continuità, che con sé porta naturalmente grandi difficoltà, ma che credo sia condizione necessaria affinché i luoghi non abbiano la possibilità di risucchiare senso e nucleo vitale.
L’ingresso agli spettacoli è gratuito con prenotazione obbligatoria su damslab.unibo.it, mentre gli incontri e le presentazioni sono ad ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili.