ESTER FORMATO e ELENA SCOLARI | In scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano per quasi un mese, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni  firmano per casadargilla la regia di Anatomia di un suicidio, vertiginoso dramma di Alice Birch, giovane autrice e sceneggiatrice britannica la cui scrittura affilata, chirurgica e precisa come potrebbe essere uno studio anatomico, rompe il tradizionale impianto della drammaturgia mettendo in scena tre stadi temporali che si svolgono contemporaneamente: le vite di tre generazioni di donne vissute in periodi differenti – 1972, 1999 e 2033 – sono srotolate nello stesso ambiente scenico, idealmente tripartito, in cui le relazioni madre-figlia diventano il nucleo fondamentale del lavoro e sono la chiave di volta di tutta la struttura dell’opera.

EF: Una sorta di hybris al contrario pesa tragicamente su questa linea genealogica tutta al femminile: la difficoltà dello stare al mondo è un peso dalle proporzioni enormi, una connotazione ontologica che penetra nel cordone ombelicale, riproponendosi ineluttabile, con inquietante consequenzialità nelle tre protagoniste.

ph. Masiar Pasquali

ES: Dici bene, andando però oltre la linea femminile, spina dorsale esplicita della narrazione, a me ha colpito che queste tre donne legate dalla parentela abbiano intorno solo uomini insicuri, goffi, protettivi, innamorati, vittime e un po’ succubi; uomini che sbagliano, non capiscono, amano. Oppure che addirittura quasi non ci sono, come nel caso di Bonnie (Federica Rosellini), la nipote, terza e lesbica, che consuma le relazioni e ha a che fare, poco, con il padre e con un collega medico che, manco a dirlo, sbaglia: una bambina – femmina pure lei – di otto anni, gli muore sotto i ferri durante un’operazione perché fa cadere gli occhiali nelle sue interiora, un tentativo di vedere dentro?

Birch dipinge un mondo dove contano le donne, nascono solo donne, si sta appresso solo ai problemi delle donne. Io non escluderei che questa visione sia un riflesso dell’accidentato modo di relazionarsi agli uomini, ai maschi, dal femminismo in avanti.
Altro elemento che “pesa” come un sortilegio è la casa. Luogo maledetto e magnetico, da cui non si riesce a liberarsi, ad andarsene, la casa è la stessa per le tre donne: la prima madre Carol la acquista e ci costruirà dentro la propria distruzione, la figlia Anna ci torna per il proprio bisogno di radici, Bonnie cerca di disfarsene ma ne è attratta come da un gorgo. Carol sarà l’unica ad allontanarsene veramente, allontanandosi anche dalla vita. Sua figlia e sua nipote sono altre donne irrisolte, fatalmente legate al passato e all’origine.

EF: Questo sortilegio della casa si traduce scenicamente in uno spazio quasi asettico, altra specificità della regia che dematerializza il male, facendolo aleggiare – senza vincolarlo a un arredo scenico predefinito – in una scena essenziale, leggermente ridotta ai lati dalle quinte sghembe, con tre porte che riproducono idealmente linee di demarcazione temporale. Gli arredi scenici sono ridotti anche perché i luoghi e gli anni in cui si svolgono le situazioni sono specificati da sovratitoli, e un taglio decisamente cinematografico ci restituisce la naturalezza della luce (piano luci curato da Luigi Biondi). La complessità insita nella caratterizzazione del movimento scenico (drammaturgia del movimento di Marta Ciappina) ha bisogno di un involucro semplice e netto per permettere a chi guarda di concentrarsi sul nucleo della vicenda.

ES: Io però trovo che la tripartizione (scene di Marco Rossi) non sia solo ideale bensì rigorosamente reale e spaziale: i personaggi non interagiscono mai – giustamente – da un’epoca all’altra: i passaggi avvengono sempre dietro la parete con le tre porte che forma una striscia retrostante per le controscene e proprio per dare un ordine al fluire del tempo. Ed è uno spazio dove scorre tutto ciò che sta, anche brevemente, fuori dall’area di azione.

EF:  In questa bidimensionalità incarnata in scena e controscena prende vita un lavoro attoriale decisamente complesso che riguarda i dodici attori coinvolti. Un numero notevole di interpreti se si pensa che le loro azioni, entrate e uscite si svolgono come su un tapis roulant in movimento. Certamente tutto ciò ci propone uno spettacolo dal taglio internazionale, che prende cioè le distanze dai parametri consoni alle abitudini italiane. Sarà anche per questo che lo spettatore ne viene destabilizzato, per gran parte del primo atto, fin quando non si arriva a comprendere che proprio in questa inedita struttura del dramma, in cui manca la linearità temporale a vantaggio di una sua tridimensionalità (se è possibile dirlo!), risiede il nucleo fondante di Anatomia di un suicidio.

ES: Bè, è senz’altro vero che lo spettacolo richiede impegno e attenzione allo spettatore per abituarsi allo schema della simultaneità e per focalizzare alcuni comprimari di cui non è  sempre leggibile la posizione nell’albero genealogico, ma – dopo l’iniziale stordimento – è un meccanismo che si chiarisce piuttosto presto e contribuisce a restare desti. Insieme a un testo molto intelligente, come raramente ne capitano nella drammaturgia contemporanea, e a una traduzione agile e naturale (di Margherita Mauro).
E questa architettura induce anche una serie di riflessioni filosofiche proprio sul concetto di Tempo: passa veramente o è una linea continua e circolare come diceva Parmenide? È un flusso che noi abbiamo bisogno di credere sia distinto per comodità di comprensione ma forse esistiamo invece tutti insieme, morti e vivi, solo in dimensioni diverse? E ci si parla come in un infinito telefono senza fili? Con tutte le incomprensioni del caso…

EF: Simultaneità e circolarità, questi sono i parametri temporali che scandiscono le vite di Carol (Tania Garribba), Anna (Petra Valentini) e Bonnie, rappresentati da una precisa corrispondenze di parole, atti, pensieri che vengono ripresi minuziosamente, mai a caso, nei dialoghi in simultanea. La tessitura drammaturgica è notevole, e ha la sua ragion d’essere in questa complessa costruzione temporale in cui la verticalità della genealogia viene sostituita dall’orizzontalità, conditio sine qua non tramite la quale è possibile indagare organicamente un dolore comune e inafferrabile.

ES: È molto forte il senso di famiglia non solo tra i personaggi ma anche tra gli attori perchè si tratta di un concerto in cui tutti sono costretti ad ascoltare gli altri, impossibile distrarsi pena la stecca che inficia tutta la sinfonia, le battute cui ti riferisci sono eco nel futuro per chi le aggancia e riprende da lì, è il legame che non si spezza. Sono una pallina che viene lanciata e rilanciata da un tempo (campo) all’altro. E non cade mai. È una giocoleria di alto bordo, come sinapsi che danno la scossa al neurone accanto, in un reticolo nervoso che forma un groviglio alla fine inestricabile.
Dal punto di vista tecnicamente recitativo (più che da quello interpretativo) è un grande lavoro corale, la regia è attenta, impeccabile anche nelle minime volute sbavature, crea una scacchiera di personaggi che conoscono perfettamente quale sarà la mossa successiva e la posizione da occupare. Anche ballando, nei rari momenti colorati, sulle note dei Velvet underground.
La compagine dei dodici attori è ben amalgamata (deve esserlo per i motivi di cui sopra) anche se emergono la squillante vitalità di Camilla Semino Favro (la spiritosissima quasi fidanzata di Bonnie), la tristezza rassegnata e contratta di Francesco Villano (John, marito di Carol) – entrambi nel cast del bel film L‘ultima notte di Amore di Andrea di Stefano –, la sospensione posata e vuota di Tania Garribba (Carol); talvolta eccessiva è invece la carica di Petra Valentini (Anna): molto sbronza, molto tossica, molto egocentrica, la sua è una recitazione satura, forse oltre quanto sarebbe richiesto dal personaggio; Rosellini non convince fino in fondo benché il suo sia un personaggio invece sottilmente  sfaccettato.

EF: Senza dubbio le tre donne hanno una connotazione caratteriale diversa, grazie alle quali recepiamo una sensibilità differente verso il male che inquina il loro sangue, i loro geni. E a tal proposito, è evidente sin da subito come il tema dei suicidio costituisca un binomio indissolubile con quello della maternità. Citavamo all’inizio la fragilità dello stare al mondo (emblematica la scomparsa, quasi in punta di piedi, di Carol); per le prime due la maternità è come un filo invisibile che le lega a questa terra ma che verrà comunque reciso. Era una possibile salvezza da quel male oppure una catena troppo grave da sopportare?
La scrittura di Alice Birch arriva, attraverso la trattazione del suicidio, a offrire una visione anche sulla maternità che è forse spiazzante, provocatoria, certo non comune e conciliante. Questa visione matura da una generazione all’altra e diviene sempre più netta quando, più coraggiosamente, verrà consolidata in Bonnie la quale vedrà nella perpetuazione della specie la reiterazione di un male profondo sul quale l’amore, le pulsioni, i richiami dell’altro, a un certo punto, smettono di avere presa. Con questa consapevolezza, la protagonista troverà anche una soluzione.

ES: Io invece non vedo la correlazione diretta suicidio-maternità. Carol lo tenta infatti prima di rimanere incinta. Il suicidio è legato semmai alla malattia psichica, tema trattato con qualche difficoltà, a mio avviso: la depressione di Carol sfocia in un problema serio, tanto da condurla a tentare di farla finita, ma il passaggio alla proposta choc da parte dello psichiatra di sottoporre la donna ad elettrochoc è repentino; terapia che parrebbe poi essere subìta (in una scena non riuscita, nemmeno esteticamente) dalla figlia Anna; il trattamento passa per una immagine traslata e in distonia di lei paziente scossa, condannata, chiaramente segnata da un destino che non potrà essere felice. Muore per inadeguatezza alla vita in sé. Della maternità ti dirò più avanti cosa penso.
Ora però torno agli uomini, ho un debole per loro: quelli di Birch sono veramente un po’ troppo inutili se non per il tragico fastidio del procreare, che è considerato un peso, non una gioia. Essere madri è presentato come un antidoto alla depressione e non esserlo equivale alla scelta di impedirselo, non è mai vissuta come una decisione serena.
Si è parlato molto di Anatomia come di un lavoro sul dolore, io credo che soprattutto si mostri l’incapacità di digerirlo, di superarlo, di elaborarlo. Tanto da volersi rendere infertile – come farà Bonnie – per non causarne di nuovo. A sè e a chi le sta intorno.

ph. Masiar Pasquali

EF: Sebbene la regia sia pulita, attenta a mantenere oliato un delicatissimo ingranaggio scenico e a sventare ogni possibile deriva caotica, anche con un rigoroso movimento dei personaggi in scena, tocca allo spettatore svolgere un ruolo attivo, ovvero leggere sinergicamente rapporti e corrispondenze magistralmente blindati nella scrittura di Birch.
È forse la mole della materia narrata a pesare talvolta sul complesso lavoro in scena, laddove proprio per preservare l’equilibrio e l’armonia di questa visione tripartita, poteva essere un po’ snellita, anche nel numero di personaggi minori.
Anche per questo tutte le riflessioni e l’apprezzamento di questo coraggioso spettacolo riaffiorano meglio dopo, quando siamo in grado di rivedere il tutto nella sua organicità. Benché non proprio in sincrono con la mia visione, la riflessione che ne deriva è sicuramente inedita, lontana da ogni possibile convenzione. In questo senso la voce femminile trova in Anatomia di un suicidio la sua spregiudicatezza, e con essa, la sua profonda verità senza il filtro di alcuna convenzione.

ES: Il ritmo e la verbosità fanno il paio con la struttura drammaturgica di tante serie TV (Birch è autrice di Normal people); quanto alla recitazione, scelta decisa della direzione regista di Ferlazzo Natoli e Ferroni, c’è naturalismo artificioso, molta falsa disinvoltura, costruita dove manca l’emotività. È la cronaca spietata della battaglia che tutti conduciamo, quotidianamente, nella vita per vincere su ciò che ci fa male e che proviamo a capire per non esserne sopraffatti. Anatomia è un intervento a cuore aperto ma senza spargimento di sangue, è la rappresentazione della maledetta fatica di gestire il grumo emotivo dei sentimenti. Che sono però la vita stessa.
L’ultima erede di questo nodo infausto, Bonnie, è il tentativo di andare oltre, non sappiamo se la sua scelta drastica porterà la libertà, sappiamo però che la bella chiusa dello spettacolo rimette in dialogo passato e presente, solo con uno sguardo.
E poi ci sono, in lontananza, gli alberi di prugne, come i ciliegi del Giardino di Čechov: loro sopravviveranno a tutto.


ANATOMIA DI UN SUICIDIO
di Alice Birch
un progetto di lacasadargilla 
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
traduzione Margherita Mauro
scene Marco Rossi
costumi Anna Missaglia 
disegno luci Luigi Biondi
paesaggi musicali Alessandro Ferroni
sound designer Pasquale Citera
disegno video e cura dei contenuti Maddalena Parise 
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
foto di scena Masiar Pasquali
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Piccolo Teatro Grassi, Milano
4 marzo 2023