MICHELE WEISS | In occasione della prima milanese di Fratellina al Teatro Franco Parenti (già recensita qui da PAC), decima e ultima pièce in ordine di tempo della Compagnia Scimone Sframeli, PAC ha dialogato con Spiro Scimone – autore del testo e in scena con Francesco Sframeli, anche regista; insieme i due fondatori della storica e omonima compagnia messinese – intorno al senso profondo del loro teatro.
Un teatro che se inizialmente nasceva dall’urgenza del testo e della messa in scena, adesso sembra sconfinare ancor più in una sorta di relazione “curativa” con lo spettatore, chiamato a empatizzare e ad aprirsi, corpo e anima, alla pièce. Aprire e aprirsi alla trasformazione, che è poi la legge stessa del teatro, che ha senso se e solo se fatto con e per il pubblico; trasformazione della solitudine di questo doloroso biennio pandemico in “amore e affetto per gli altri”, in una relazione rigenerata dall’azione drammaturgica.
Tutto questo esclusivamente con gli strumenti del teatro, farmaco (dal greco pharmakon: sostanza o azione curativa ma anche veleno, pozione) benigno che deve placare e instillare un cambiamento.
Ma che cos’è in fondo il teatro se non una lingua e una terra in cui viandanti e pellegrini vagano, affratellati dalla comune erranza, perdendosi (e ritrovandosi) alla ricerca del senso?
Silenzio. Linguaggio. Cura. Spiritualità. Solitudine. Dolcezza. Personaggi. Scrittura incarnata. Scenografia. Conflitto. Sicilia. Kafka. Origini e radici. Romeo Castellucci, Peter Brook e gli altri…
Dal colloquio con Spiro, che riportiamo interamente, emergono alcune novità e chiarificazioni sui topoi del teatro maieutico di Scimone | Sframeli, compagnia che nonostante lo status regalato da cinque premi UBU sembra non aver esaurito l’urgenza della spinta alla ricerca dei confini tra gesto teatrale e essenza dell’uomo.
Ciao Spiro, grazie per la conversazione. Da dove arriva il titolo della vostra ultima pièce, Fratellina, che sembra alludere a un’identità neutra; e poi, qual è l’idea centrale dello spettacolo?
Il titolo è una sintesi tra Fratellino e Sorellina, due personaggi dello spettacolo. Ma anche una parola che allude al bisogno di amore, protezione e affetto: volevamo usarla per superare le differenze e chiarire che chiunque è o può essere una “fratellina”, una persona da curare indipendentemente da tutto il resto. L’idea del testo è proprio andare alla ricerca di tutto ciò che abbiamo perso, per ritrovarlo nella nostra realtà nel senso di amore, affetto e cura degli altri.
Sembra l’emersione di una chiara istanza curativa del teatro.
Sì, il teatro ha anche questa forza, di farti stare meglio… e in questo momento, dopo i due anni pandemici è ancora più importante. Oggi dobbiamo recuperare la capacità di stare insieme, pena la fine dell’umanità: riscoprire la necessità di stare con gli altri a partire dalle piccole cose, dai gesti semplici.
Lo dici anche nell’ottica di una manifestazione di (laica) spiritualità all’interno della pratica teatrale?
Sì, mi sembra corretto, chiunque entri e dà vita al teatro, attori e spettatori, dev’essere come un bambino, portato all’ascolto con purezza e semplicità. La magia del teatro nasce proprio da questo incontro spirituale tra la compagnia e il pubblico, in uno scambio reciproco.
In passato avete dichiarato che il teatro “deve mettere in crisi”, lo diceva in particolare Francesco (Sframeli) con un’espressione e un’intensità che mettevano quasi spavento.
Francesco ha la capacità di trasmettere il senso delle parole anche attraverso la sua fisicità. Alludeva all’urgenza di fare teatro, che è il motore della nostra compagnia, del nostro lavoro. Come diceva Peter Brook a proposito dell’atto creativo: “Tienti forte e lasciati andare con dolcezza”.
È esattamente questo che deve uscire: l’urgenza e la necessità del dire devono essere accompagnati da una dolcezza risolutiva. È una prassi che scioglie i nodi e consente di rifondare senso e significati, l’artista e il teatrante devono fare questo per noi: essere liberi per rifondare la necessità, l’essenza (e l’urgenza) dell’opera d’arte da trasmettere al pubblico.
Come se l’artista fosse una levatrice, un curandero o uno sciamano drammaturgico che chiama lo spettatore al parto di una nuova sfera dell’anima, sei d’accordo?
Assolutamente sì, lo spettatore vive qualcosa di unico, non c’è mai una ripetizione nel teatro, lo ripetiamo sempre ma è comunque unico e questo avviene grazie alla dimensione dell’ascolto. È una questione di ascolto e imprevedibilità, e c’è anche un lato conflittuale che non va ignorato: senza il conflitto non ci sarebbe il teatro che porta a affrontare il conflitto nell’ottica di una risoluzione, che comporta nuove strade e un punto di contatto.
Guardando i vostri lavori e leggendo i vostri testi, una parola o concetto che irrompe nel mio immaginario è “silenzio”, mi sbaglio?
Il silenzio è importante nel nostro teatro e non mi riferisco solo al testo o alla recitazione ma anche alla messa in scena: il silenzio è l’insieme di tante parole che superano queste parole. Ma il silenzio in teatro è anche una forma tra le più alte di trasmissione delle emozioni, uno strumento fondamentale di comunicazione in scena. Per creare un vero “silenzio teatrale” serve una grandissima forza nella parola che lo precede e in quella che lo segue.
Si può parlare di silenzio anche a proposito della scenografia?
Lino Fiorito (lo scenografo delle loro ultime cinque commedie, n.d.r.) è colui che dovrebbe rispondere, in ogni caso quello che penso io è che occorre vedere come uno scenografo si rapporta al silenzio nel testo e nella recitazione. Lino non arriva mai con le idee già chiarite, lui ascolta e vede come sta prendendo corpo lo spettacolo e se nota che il silenzio è un elemento importante lo trasforma con il suo lavoro in una creazione scenografica.
Pensando al vostro teatro, l’azione drammaturgica sembra prevedere una gerarchia: prima il testo e poi il resto. Ma forse non è davvero così…
Partiamo sempre da un testo, questo è vero, ma occorre chiedersi come nasce il testo… il testo non nasce infatti dall’immaginazione concettuale, dalla mente dell’autore ma da quella fisica, dalla sua relazione con il corpo e lo spazio.
Le primissime parole di un testo, almeno per me, nascono dai personaggi, immagino la loro fisicità: l’autore – ed è quello che provo a insegnare nei laboratori di drammaturgia – parte dal “sentire” i personaggi, magari non subito ma è lì che si va a parare, bisogna “vedere” prima i personaggi in azione. Le parole arrivano solo in seguito. Cerco quindi la fisicità: il teatro è fisico, carne e anima, e deve emergere anche in fase di scrittura. Poi chiaro bisogna anche avere qualche cosa da dire: in Fratellina dico che solo l’amore ci salverà, ad esempio. È complesso perché non sto parlando di una fisicità reale ma teatrale.
La critica in questi anni vi ha apparentato a certo teatro e a certa letteratura dell’assurdo o esistenzialista – Beckett, Pinter e anche Kafka –: vi sentite debitori in qualche modo di questo filone?
Noi pensiamo di avere ormai una chiara cifra stilistica che ci rende riconoscibili e unici nei nostri tentativi teatrali, ma è vero che questi geni del passato che hai citato per noi sono importanti, li amiamo particolarmente e hanno pesato. Quindi si avvertono echi e influenze ma nel senso dell’arricchimento e dello stimolo, non della ripetizione o dell’esserne epigoni. Non meno importanti sono la vita, la cultura di formazione e le radici.
Appunto, le radici: dal messinese usato esclusivamente nelle prime opere sembra ci sia stata un’evoluzione, un distacco, una metamorfosi…
È vero, andando avanti negli anni l’urgenza del nostro dire teatrale è cambiata. L’importante è essere sempre sinceri e trovare purezza, chiarezza e verità nella nostra azione teatrale, ma senza gli inizi non saremmo mai arrivati dove siamo ora.
Fratellina, che è il mio decimo testo, non sarebbe stato possibile senza Nunzio e Bar: in ognuno c’è un’eco delle cose precedenti ma su questo voglio aggiungere una cosa.
Prego, volentieri.
Come ho già avuto modo di dire, il messinese degli inizi e l’italiano delle ultime opere non sono “naturali”: ogni lingua che uso è una lingua teatrale, qualcosa che ha senso solo nel teatro ed è per il teatro esclusivamente. È corretto parlare di un percorso, con tappe passate, presenti e future. In Fratellina quasi certamente c’è il sentore della prossima scrittura.
Abbiamo parlato dei “cari estinti”: quali lavori di autori contemporanei invece sentite più vicino al vostro?
Per noi, lo ripeto, è fondamentale quel teatro in cui emergono con chiarezza la forza dell’attore e del testo. Ciò non toglie che anche in forme apparentemente molto diverse dal nostro teatro possiamo trovare una grande necessità. È la necessità, al fondo, che legittima il teatro nella sua insorgenza e urgenza, ci sono autori che la sprigionano e che provano a farlo senza stereotipi ma con sincerità e andando a fondo di se stessi.
Qualche nome? Romeo Castellucci e tutte le sue prime cose: un teatro molto diverso dal nostro ma potentemente originale. E poi il clima teatrale di Deflorian/Tagliarini e qualcosa di Emma Dante. Ma sono solo tre nomi, potrei andare avanti.
Chiudiamo con una benevola provocazione: l’entità “Fratellina” è un alter ego di “Scimone Sframeli”?
No, non necessariamente. Quello che conta è l’urgenza che sta dietro al testo, che in questo caso ci dice che ognuno è diverso e irriducibile all’altro ma proprio per questo sacro. Anche tra due gemelli identici c’è una differenza, ma questa può e deve originare armonia e non dissonanza o distacco.
La si può vedere anche come un inno all’autenticità del singolo: la sfida è essere se stessi?
Certamente, ma con l’obiettivo di vivere una fertile diversità in armonia con gli altri. E c’’è un’ultima cosa, “ama il prossimo tuo come te stesso” si legge. Se ti dedichi agli altri anche gli altri si dedicheranno a te. C’è l’esigenza di una nuova comunità e di un nuovo patto all’insegna dell’amore per la vita e per gli esseri viventi.