CHIARA AMATO | Con la locuzione ‘Processo di riorganizzazione nazionale’ (Proceso de Reorganización Nacional o semplicemente el Proceso) si individua la dittatura militare che governò l’Argentina dal 1976 al 1983: momento infausto della Storia.
L’obiettivo del Processo era, secondo la gerarchia militare che prese il potere con la forza, combattere la corruzione e la sovversione per collocare l’Argentina in un nuovo modello economico-sociale, sulle linee del neoliberismo, imposto attraverso la violazione dei diritti umani ai danni di un settore della popolazione classificato come populista.
La stima dei dissidenti sequestrati, torturati, scomparsi, si aggira intorno alle 30.000 persone, i desaparecidos (scomparsi, appunto): cercati vanamente per anni dalle loro famiglie, che hanno pagato a caro prezzo la dissidenza politica al regime dei comandanti da parte di figli, mariti, fratelli, rimanendo senza il corpo dei congiunti da poter piangere, un silenzio forzato che pesa più della morte accertata.
Questo arco temporale fa da sfumato retroscena alla vicenda narrata in Ritratto dell’artista da morto, con l’interpretazione di Michele Riondino e la regia di Davide Carnevali (Premio Hystrio alla Drammaturgia 2018), andato in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano. Lo spettacolo è in realtà un racconto, a una voce, in cui l’attore tarantino, al centro dello spazio semicircolare del teatro milanese, si presenta e spiega come sia arrivato con Carnevali all’ideazione del progetto.
Mentre il pubblico entra in sala, Riondino suona la chitarra elettrica, sotto un cono di luce, indossando una t-shirt e un pantalone del tutto comuni: veste i panni di sé stesso, ma ci ricorda una rockstar che si riscalda prima dell’esibizione vera e propria. Successivamente aggiunge dettagli personali e professionali, ricorda il suo impegno politico e il suo ruolo ne Il Giovane Montalbano nel 2012. Si mostra con un linguaggio e un tono confidenziali, ingaggiando il pubblico in un rapporto di fiducia, che verrà più volte smentito durante la narrazione.
La scena che lo ospita, ideata da Charlotte Pistorius, è divisa in due spazi: uno circondato dalla platea tonda del Teatro Studio, in cui sono posizionati bauli in legno da trasloco, e l’altro, sullo sfondo: la ricostruzione di un appartamento, con un angolo cucina, uno stendino e una libreria, due scrivanie e due sedie con un tavolino da salotto. Le pareti sono quasi spoglie, risaltano un poster e una mappa dell’Argentina, quest’ultima proiettata anche su uno schermo sopra la scena.
La vicenda si sviluppa e viene presentata come un’indagine investigativa e documentaria, intorno a due raccomandate che Riondino avrebbe ricevuto da Buenos Aires, in merito a un appartamento di un lontano parente, tale Reondino. L’immobile ha ospitato anche un altro inquilino, un tale Misiti, compositore argentino di origini italiane, legato misteriosamente alle partiture di un pianista ebreo, Schmidt. I fili dell’intreccio si sovrappongono continuamente, legando, agli occhi del pubblico, le vite dei due musicisti con quelle di Riondino. Durante il viaggio, che l’attore e Carnevali fanno in Argentina, per venire a capo del caso, il regista resta in penombra, a causa di uno stato cagionevole di salute: è solo un accompagnatore, che pur stando nelle retrovie, fa sentire però la sua presenza.
La musica, di Gianluca Misiti, anche per queste circostanze legate alle biografie dei musicisti, ha un ruolo importante nella rappresentazione, è un elemento che prende spazio dopo la prima parte introduttiva e di captatio verbale: è proprio la passione per la musica uno degli elementi che collega la vita di Riondino a quella dei due compositori e in diversi momenti il pianoforte suona da solo, come se le note dei due artisti morti riecheggiassero nell’aria.
Le luci, di Luigi Biondi e Omar Scala, sottolineano alcuni elementi in scena – i bauli, l’attore, la libreria – passando da un effetto diffuso a piccoli coni di luce calda.
Molte le ripetizioni testuali che ritornano come formule, per sottolineare un fil rouge in tutto il racconto: i silenzi di alcuni personaggi incontrati durante la vicenda sono ‘poco plausibili’, (l’Argentina è il paese dove cose ‘poco plausibili’ accadono di continuo) ‘la detenzione di Misiti non è stata registrata dal governo’, un artista che celebra un altro ‘gli sta rubando l’anima o ne sta tenendo vivo il ricordo’, rendendo ancora più credibile l’improvvisazione del testo.
Il mistero dell’appartamento non arriva a una conclusione, ma solo a congetture, infatti Carnevali e Riondino rappresentano due punti di vista divergenti e sul finale spiegano perché lo spettacolo non sia davvero un documentario: all’aeroporto di Buenos Aires, sulla via del ritorno, sarebbero stati perquisiti e la loro telecamera prelevata dalla polizia.
A questo segue un comunicato stampa del Piccolo Teatro in memoria di Carnevali, come se l’artista fosse morto, per l’appunto, come si dice nel titolo. E qui si apre un punto fondamentale di tutta la recita: la finzione si palesa in maniera eclatante.
Perché arrivare a far raccontare la propria morte?
Perché Riondino e Virginia Landi, assistente alla regia, fanno credere al pubblico di leggere i pensieri di Carnevali sullo spettacolo, scritti prima di morire, ed esplicitano di aver scelto un altro finale?
La citazione del metodo teatrale al quale Carnevali si riferisce, allora, si chiarisce: si parla di autofinzione, l’impianto di originazione drammaturgica che avrebbe “inventato” il regista e drammaturgo uruguaiano Sergio Blanco, secondo il quale Mi arte es una ficción real, no es mi vida pero tampoco es mentira (La mia arte è una finzione reale, non è la mia vita ma non è nemmeno una menzogna).
Come Blanco, così Carnevali usa qui tecniche per creare un forte rapporto di fiducia con il pubblico, simulando quasi che non ci sia un testo, ma che si racconti a braccio sul palco, lasciando però ovunque tracce di quella menzogna.
Il problema che si pone per il pubblico di fronte a questo tipo di tecnica è fino a dove poter credere e dove invece prendere le distanze da ciò che si è visto: mischiare il reale con la finzione è alla base del teatro, da sempre, ma come lo si fa lascia più o meno ambiguità, che l’occhio di chi guarda deve interpretare fra le righe.
Nel saggio Autoficción, Blanco afferma per l’appunto che «questo gioco ambiguo, vago ed equivoco, teorizza l’autofinzione tra una persona e l’altra, tra l’io e l’alterità – essere io stesso materia prima di lavoro per poter, in questa forma, diventare un altro -, deriva ed è erede di tutta una forte corrente letteraria che propone la sfida estetica di partire dalla conoscenza di sé e di un vissuto proprio».
L’interpretazione di Riondino è calzante, credibile, ammiccante e incolla la platea a seguire tutti i passi di questo viaggio in Argentina: il tono di voce e la naturalezza dei movimenti ci fanno credere alle sue emozioni e alle sue parole. La presenza dell’io di Carnevali si sente, è autoreferenziale, e la regia da questo punto di vista mette in atto diversi escamotage per togliere ogni dubbio: le coincidenze piazzate ad hoc, la reiterazione continua della malattia a Buenos Aires, la spettacolarizzazione della finta morte, la camicia del regista usata da Riondino in Argentina e tanto altro.
Alla fine della rappresentazione sono molti gli spettatori che si trattengono, aggirandosi fra gli oggetti della scena/museo, che si confrontano raccontandosi a vicenda le impressioni personali, a dimostrazione del lavoro fatto per arrivare alla complicità con il pubblico, e che lo rende, in ultima analisi, così partecipe.
RITRATTO DELL’ARTISTA DA MORTO
(Italia ’41 – Argentina ’78)
scritto e diretto da Davide Carnevali
scene e costumi Charlotte Pistorius
luci Luigi Biondi, Omar Scala
musiche Gianluca Misiti
con Michele Riondino
assistente alla regia Virginia Landi
con la partecipazione di Gaston Polle Ansaldi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Comédie de Caen – CDN de Normandie, Comédie – Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège
Teatro Studio Melato, Milano | 23 marzo 2023