ELENA SCOLARI | Dio si presenta alle porte del paradiso e vede due file: una sterminata, con migliaia di uomini, e una composta da un solo uomo. Allora domanda a quelli della fila enorme: «Chi siete voi?» «Siamo gli uomini che per tutta la vita si sono fatti comandare a bacchetta dalle mogli». Poi si gira verso l’altra fila: «E tu cosa ci fai lì?» «E che ne so? È mia moglie che mi ha detto di mettermi qui!».
Questa è una tipica storiella tratta dall’infinito repertorio dell’umorismo ebraico, un umorismo che non risparmia nessuno – tanto meno abitudini e difetti della cultura ebraica – e molto spesso si rivolge proprio a Dio.
Non in paradiso ma in purgatorio ha inizio Quasi una serata di Ethan Coen – fratello minore di Joel con il quale forma una delle coppie celebri del cinema americano – nella messinscena del Giardino delle Ore in coproduzione con Mumble Teatro per la regia di Davide Marranchelli. Il testo teatrale di Coen è composto di tre atti unici, il primo si intitola Aspettando e vede protagonista uno sfortunato dipartito (Simone Severgnini, sinceramente illuso) all’ufficio protocolli del purgatorio dove una segretaria zelante e poco ciarliera (Paui Galli, perfidamente impiegatizia) comunica ai nuovi arrivati il numero di anni di attesa “comminati” prima di poter essere promossi al livello superiore: il paradiso. La funzionaria è seduta di spalle a una scrivania, batte a macchina, è autorizzata a rispondere alle domande per quindici minuti, poi non potrà più parlare con il candidato. Per una serie di esilaranti equivoci burocratici e di imperizie di addetti sadici, molto terreni, il nostro si ritroverà ad aspettare su un divano da sala d’attesa il trasferimento per centinaia di migliaia di anni, un numero nemmeno concepibile da mente umana, scoprendo poi qualcosa che forse toccherà scoprire anche a noi, un giorno. Chi lo sa.
Da questo primo episodio capiamo quale sarà il tono dello spettacolo: situazioni surreali, troppo assurde per essere veramente inquietanti, ottime battute e l’irresistibile lucido distacco dell’ironia ebraica. Elementi sempre sostenuti dall’interpretazione seriamente divertita dei quattro attori: oltre i già citati Severgnini e Galli, costituiscono il cast Stefano Annoni e il regista Marranchelli. Tutti trovano la giusta cifra per disegnare personaggi disincantati, cialtroni, bislacchi anche se in giacca e cravatta, che fingono di credere a loro stessi.
Tintinnanti stacchetti musicali separano i quadri all’interno di ogni atto, sottolineando l’atmosfera di un generale dileggio sopra questioni miseramente umane. Un disegno luci semplice e pulito fa risaltare i pochi arredi di scena (curati da Anna Bonomelli), punteggiati dalla presenza fuori contesto – e che crea quindi un’altra dimensione – di animali impagliati: volpi, cerbiatti, cinghiali assistono straniti al susseguirsi di sketch che perfino a loro paiono sghembi. Queste bestie osservano, dalla fissità eterna della loro tassidermia, altre bestie che invece non smettono di agitarsi per trovare il loro posto nel mondo, spesso a discapito di altri esemplari della stessa specie. Non sappiamo se sia un’indicazione data nel testo ma comunque la regia crea una specie di diorama che mescola umani e animali (tutte creature di Dio) in una ricostruzione che amplifica il senso di disorientamento suggerendo con spirito una consapevole perplessità di fronte a certi comportamenti.
Non raccontiamo nel dettaglio le trame dei tre capitoli per non togliere la sorpresa ai futuri spettatori ma possiamo rivelare che Quattro panchine vede agire niente meno che due agenti segreti alle prese con una missione omicida di cui discutono in una sauna (in quanti film di spionaggio la sauna è luogo dove si architettano piani?).
Il terzo e ultimo atto, Dibattito, vede confrontarsi in un dissacrante contest stile stand up comedy, due Dio: uno conciliante, un po’ predicatore/santone (Annoni) che raccoglie i fedeli e li spinge a stare uniti, guardando verso la luce e tendendo la mano alla guida spirituale che – senza crederci troppo – li convince a essere positivi, e l’altro (Marranchelli) incazzato, attaccabrighe, un dio che giudica, insulta e rimprovera in un monologo travolgente: «Io vi ho fatti mia immagine e somiglianza e voi la bucate e scarabocchiate con piercing e tatuaggi!». I due sono proprio in gara, si contendono il favore del pubblico davanti al microfono, Annoni e Marranchelli in dolcevita nera impersonano due padri eterni con atteggiamenti contrapposti su come accogliere o intimorire i propri creati; entrambi sono sopra le righe, incarnano stereotipi inconciliabili tanto da darsele di “santa” ragione come in una vera e propria rissa tra teppisti di gang rivali.
I tre atti unici di Quasi una serata (forse perché insieme formano appunto quasi una serata) si chiudono con un gioco metateatrale in cui al ristorante due diverse coppie commentano lo spettacolo appena visto: in una l’uomo è il regista e la compagna, irritata perchè lui si fa ancora consigliare dalla ex sui locali dove cenare con lei, conclude in tono colorito confermando il sentimento ma decisamente non l’apprezzamento professionale. Anche gli spettatori discuteranno di ciò che hanno appena visto, forse a cena, in un ristorante con un cameriere meno nervoso, sicuramente con un giudizio più entusiasta.
QUASI UNA SERATA – tre atti unici
di Ethan Coen
regia Davide Marranchelli
con Stefano Annoni, Paui Galli, Davide Marranchelli, Simone Severgnini
scene Anna Bonomelli
coproduzione Il Giardino delle Ore/Mumble Teatro
MTM Teatro Leonardo, Milano
23 marzo 2023