ELENA SCOLARI | C’erano Turgenev, Tolstoj, Maupassant: tre grandi autori, due russi e un francese, a ridersela del livello letterario di Borìs Aleksèevič Trigòrin, scrittore inventato da Anton Čechov, che gli regala un gran bel ruolo nel suo Gabbiano (1895). Gli autori vengono più volte citati da Trigòrin nello spettacolo per lamentarsi che, nonostante il suo successo, sono in molti a dire “È bravo, sì, ha talento, ma vuoi mettere un Turgenev, un Tolstoj, un Maupassant?”. E Trigòrin rosica.
Da questo possiamo supporre che si trattasse anche delle preferenze letterarie di Čechov stesso, il quale quindi trascura Dostoevskij e anche Puskin; e mette un po’ di sé nell’insoddisfatto Konstantìn Gavrìlovič Treplev, detto Kostja, giovane drammaturgo nel Gabbiano alle prese con un testo onirico, antirealista e concepito secondo una di quelle nuove forme vagheggiate – non solo in Russia – dalla seconda metà dell’800 (Pirandello sarà più longevo ma era quasi coetaneo di Čechov, per esempio).
Nella messinscena di questo classico russo diretta da Leonardo Lidi – regista ospitato alla Biennale Teatro nel 2018 e dal 2021 coordinatore didattico della scuola del Teatro Stabile di Torino – programmata nella Stagione del Piccolo Teatro di Milano fino al 16 aprile e fedelissima al testo originale, si può dire che il Trigòrin di Massimiliano Speziani, grazie alla sua incontenibile e trascinante interpretazione, sia il vero protagonista. Non Nina, Giuliana Vigogna irrisolta come tutti ma un po’ troppo ‘statuaria’ per un personaggio che incarna soprattutto l’idea di spirito del mondo, e non Kostja, Christian La Rosa giustamente mesto e insicuro. Gareggiano con Speziani per forza di presenza la Irina (madre critica di Konstantin) di Francesca Mazza, superbamente vanitosa ed egocentrica e il Pëtr Nikolàevič Sòrin (bonario fratello di Irina) di Orietta Notari, che porge perfettamente l’ingenuità e la scanzonatezza di un pingue ex funzionario statale (come moltissimi personaggi di romanzi e drammi russi, insieme a professori e militari) che si vuole godere gli ultimi fuochi vitali, benché non si ravvisi alcun motivo alieno allo zeitgeist odierno per far recitare il ruolo a una donna.
In scena pochi elementi: una panchina di legno dalla quale tutti, a turno, osservano il paesaggio campagnolo vista lago della tenuta ove il dramma si svolge, un libro, un mazzo di fiori, qualche sedia in lontananza. I costumi di Aurora Damanti sono come ci aspettiamo che siano, si sposano con la luce dal calore solare curata da Nicolas Bovey: colori prevalentemente chiari, giacche panna, abiti écru, toni noisette alludono all’epoca con discrezione.
La disposizione degli attori e degli arredi soffre dell’ampiezza del palco del Teatro Strehler, troppo vasto per rispettare l’intimità di relazioni tra persone che si respirano addosso come in posa per una fotografia d’epoca e che si spiano di sottecchi in netto contrasto spaziale con l’idea di graduale oppressione che Lidi cerca di evidenziare con l’idea di abbassare man mano il ring quadrato di americane sotto al quale i personaggi agiscono: con tutto quello spazio intorno la chiusura d’orizzonti non si avverte. Ricordo, in consonanza con questa intenzione, un Tre sorelle visto alcuni anni fa a San Pietroburgo, per la regia di Valerii Galendeev, in cui la facciata della casa avanzava poco per volta verso la platea, lasciando agli attori sempre meno profondità d’azione, fisica ed “esistenziale”. Ecco.
Apprezzabilissimo pregio della regia di Lidi è invece la ri-scoperta dell’ironia cechoviana, spesso ingiustamente trascurata negli allestimenti italiani e qui invece presente nel tono della recitazione e in una certa aria di sbeffeggio che aleggia in più momenti.
Che cosa invece manca in questo primo capitolo della trilogia affidata a Lidi che si completerà con Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi?
Manca quello che i personaggi di Čechov non dicono e non fanno ma lasciano intuire allo spettatore. La grandezza dell’autore sta nel creare una trama invisibile, impalpabile, ineffabile, tessuta proprio nell’inconcludenza. Qualcosa di indefinibile ma che caratterizza precisamente lo stile, un pulviscolo poetico inafferrabile, capace di posarsi sul pubblico, che può così condividere profondamente le sensazioni dei personaggi.
Questa dimensione è assente, anche a causa di un’amplificazione massiccia (chissà se i microfoni sono veramente indispensabili), che tende a coprire quasi completamente la voce naturale impedendo di individuare chi sta parlando e indebolendo le sfumature recitative. Peccato.
Peccato perché il cast di attori – nonostante l’appiattimento artificiale – mostra comunque ottime capacità anche nei comprimari: il maestro sempliciotto Semën Semënovič Medvèdenko di Giordano Agrusta, innamorato pacioso ma pensoso, il medico Evgènij Sergèevič Dorn, interpretato da Maurizio Cardillo, saggio, distaccato e ragionevole, il luogotenente e sua moglie, Tino Rossi e Angela Malfitano, in costante e contratto conflitto, la disillusa Maša di Ilaria Falini.
Tra i personaggi molti sono gli amori non corrisposti e male assortiti nel Gabbiano, illusioni chiaramente destinate a infrangersi ancor prima di essere davvero concepite, successi che non fanno la felicità, tirate teoriche che – con qualche ragione – fanno mettere la pistola alla tempia. Lo sparo non c’è ma le sue conseguenze sì.
L’élan vital di Trigòrin rimane l’espressione umana più sincera, il suo monologo in cui confessa l’imbarazzo per gli ammiratori, in cui finge di sopportare i complimenti e la fama, lamenta il tracimante talento che lo costringe a correre a scrivere, continuamente, come posseduto, la cattività che il mestiere di scrivere comporta, è mirabilmente appaiato al comportamento immaturo, alla vanità di sedurre una donna giovane e di guadagnare tempo insieme alle sue attenzioni.
L’uccello-simbolo del titolo nel testo viene ucciso per una tortuosa volontà di vendetta dal teatrante Kostja; Lidi dirige invece un Gabbiano che vola senza picchi, piuttosto placidamente, senza lasciare scie nuove nella storia dei Gabbiani. Più che l’oggetto teatrale ring che scende minacciando di schiacciare le creature di Čechov (e quindi il teatro che schiaccia gli attori?) è registicamente significativa la sequenza di ballo in cui gli elementi delle coppie curvano sempre più la schiena sotto il peso dell’incapacità e dell’inadeguatezza: ballano chinati vedendo chiaramente che la gioia rimarrà soltanto sperata.
di Anton Čechov
personaggi e interpreti (in ordine alfabetico):
Semen Semenovič Medvedenko Giordano Agrusta
Evgenij Sergeevič Dorn Maurizio Cardillo
Maša Ilaria Falini
Konstantin Gavrilovič Treplev Christian La Rosa
Polina Andreevna Angela Malfitano
Irina Nikolaevna Arkadina Francesca Mazza
Petr Nikolaevič Sorin Orietta Notari
Il’ja Afanas’evič Šamraev Tino Rossi
Boris Alekseevič Trigorin Massimiliano Speziani
Nina Michajlovna Zarečnaja Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Noemi Grasso
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi