ELENA SCOLARI | È curioso, e forse significativo, che gli spettacoli sugli anni del terrorismo in Italia siano firmati, per la maggior parte, da chi in quegli anni non c’era o era bambino. Penso, a mia personale memoria, ad Aldo morto di Daniele Timpano, La gabbia di Stefano Massini, Figli senza volto e Piombo di Animanera, Con il vostro irridente silenzio di Fabrizio Gifuni, Il ballerino e l’ideale di Simone Faloppa (che debutterà all’Elfo a breve) e ora Se ci fosse luce di Francesca Garolla (coproduzione LAC Lugano/Emilia Romagna Teatro ERT, debutto a Bologna e prima nazionale svizzera a Lugano). Fanno eccezione Viva l’Italia – l’omicidio di Fausto e Iaio di César Brie (che non è italiano) e Il rumore del silenzio di Renato Sarti, quest’ultimo è però sostanzialmente una cronaca storica della strage di Piazza Fontana.
Gli anni di piombo, e ci riferiamo ai fatti che avvennero dal 1969 a Milano fino alla strage alla stazione di Bologna nel 1980, esercitano un magnetismo inevitabile verso un’intera generazione che va dai 35 ai 55 anni, suppergiù. Perché?
Per alcuni, e anche per chi scrive, il rapimento Moro (1978) è stato il primo avvenimento importante che si ricordi, soprattutto per l’apprensione che si viveva in famiglia, un’eco imprecisa ma consapevole che “qualcosa di grave” stava succedendo. Per tutti, credo, c’è la chiara impressione che ancora molto della nostra situazione politico-sociale da lì venga. Sappiamo che quella dozzina d’anni ha segnato, ferito, cambiato profondamente il nostro paese e nessuno è alieno agli effetti che la cosiddetta strategia della tensione ebbe sulla democrazia italiana. Nemmeno chi non ne sa nulla e non ci pensa.
Più storia del Novecento e meno fenici e Mesopotamia nelle scuole servirebbero a formare cittadini più informati e meno sprovveduti.

Garolla, drammaturga e regista di Se ci fosse luce (il titolo è una frase tratta dalle lettere di Aldo Moro scritte durante il sequestro), mette la vicenda su un tavolo da obitorio, abbastanza grande e alto per riuscire scomodo a tutti i personaggi: Giovanni Crippa, l’assassino,  Angela Dematté, giudice e figlia di Moro, Paolo Lorimer, uno dei brigatisti, Anahì Traversi, una scrittrice che vuole scrivere un libro sul caso. Traversi e Demattè sono due coroner che analizzano la salma di un fatto storico, mai morto del tutto.

ph. Luca Del Pia

Gli interpreti siedono su sedie metalliche con alti schienali che li sovrastano, appoggiandosi malamente a quel tavolo che, sfiorato con le mani, produce suoni stridenti (curati da Emanuele Pontecorvo) e, battuto, rimbomba di piombo.

La scrittrice che intervista il latitante per la sua ricerca, registrando con mangianastri e  cassetta, sceglie di partire dalla telefonata che il brigatista Morucci fece all’assistente di Moro Franco Tritto la mattina del 9 maggio 1978 per comunicargli dove avrebbero trovato il corpo dell’onorevole, dentro una Renault 4 rossa in via Caetani a Roma. In quella telefonata, a Morucci scappa un “Mi dispiace”, e in queste due parole Garolla ravvisa una involontaria traccia di pentimento; anche se forse il dispiacere era legato alla consapevolezza istantanea di ciò che l’uccisione del segretario della DC avrebbe portato e cioè alla fine delle Brigate Rosse, chi lo sa. Pure la fine della Democrazia Cristiana è cominciata lì.
Da qui si apre una disquisizione – in veste di processo – tutta teorica ma carica di inquietudine, che coinvolge a turno i quattro attori e che tocca molti punti assai interessanti: il luogo fisico da cui è provenuta la chiamata che diventa il collegamento tra l’inizio e la fine di tutto; i concetti di colpa e responsabilità; la differenza tra pietà e rimorso; l’acuta riflessione della figlia di Moro/Demattè sulla stratificazione di punti di vista che hanno finito per formare anche il suo, che alla fine risulta un punto di vista astratto, tanto quello di tutti gli altri che pure non hanno perso il padre; il dilagare del passato che invade il presente, mai indipendente e libero.

ph. Luca Del Pia

Il testo è pieno di pensieri intelligenti e largamente condivisibili, personalmente ho sentito molta sintonia con le riflessioni dell’autrice che si concatenano in un ragionamento profondo e articolato. Ma è un ragionamento. E forse sta qui l’anello di comprensione mancante a chi ha solo sentito raccontare quegli anni ma non li ha vissuti: manca l’attenzione alla carne, alla fisicità, la spinta emotiva che muoveva la lotta armata. I brigatisti rivestivano di teoremi un progetto velleitario e inattuabile, in cui la componente vitalistica era fortissima. È questo che non capiamo. Ci sforziamo di capire, con l’analisi, con strumenti anche appuntiti come lo studio e la ragione, ma non arriviamo a comprendere davvero. Siamo una generazione che tenta di afferrare con il pensiero i motivi che possono aver causato scelte tanto estreme e violente ma è una parete che scaliamo senza avere i ganci dell’emotività e della temperatura sociale di allora.
“Da che parte stava mio padre?”, si chiede la scrittrice. Non lo sapremo, ma il punto è che la questione si poneva in questi termini, da quale parte stare. Fu in realtà una minoranza a scegliere la lotta armata, il paese non era con i brigatisti, si diceva anche Nè con lo Stato né con le BR ma erano gli anni delle lotte studentesche e tutti scendevano in piazza per dimostrare ed esprimere la propria appartenenza, una corrente popolare eterogenea e impossibile da trattenere. È questo aspetto che sfugge a un’analisi razionale, attenta ma fatalmente priva di quel tipo di comprensione che può venire solo dalla condivisione di uno stesso tempo, anche se vissuto da ognuno con azioni e idee in forte contrasto.
Lo spettacolo procede infatti con lucidità e tutto l’impianto – le luci autoptiche di Luigi Biondi, le scene spoglie di Davide Signorini – suggerisce una “mortisezione” dell’assassinio. Va detto anche che l’obiettivo di Se ci fosse luce non sembra essere un’indagine sui moventi delle BR o sulla congerie storico-politica degli anni ’70, bensì si concentra quasi solo sul fatto dell’omicidio, puntando la lente d’ingrandimento sulla colpa del singolo esecutore più che allargare la trattazione alla logica della banda o ai rapporti che gli individui hanno intrattenuto con i partiti e con lo Stato. Si esamina quindi l’epilogo tragico di una catena complessa e che è coda di una lunga serie di azioni compiute in un decennio.

Colpa e responsabilità sottolineano l’una il lato giuridico/legale e l’altra il carico di conseguenze che il gesto ha causato, conseguenze che ricadono su chi rimane, su chi ha dovuto gestire il dopo, anche su chi è nato dopo, che questa pesantissima eredità non l’avrebbe voluta: “Tenetevela, voi, padri, questa storia!”.

ph. Luca Del Pia

Lo scrittore e giornalista Leonardo Sciascia è stato deputato in parlamento dal 1979 al 1983 e ha presentato una dettagliata relazione di minoranza sul caso Moro (vd L’affaire Moro, ed. Adelphi), nello spettacolo si cita la sua distinzione tra pietà e rimorso: il rimorso dell’assassino è pena minore rispetto al sentimento che lo avrebbe roso se fosse stato colpito dalla pietà per l’uomo ucciso e per i suoi cari. Su questo, rimane insuperata la lezione di Dostoevskij in Delitto e castigo. 
Meno efficace il paragone iconografico tra la nota fotografia del corpo di Moro rannicchiato nel baule della R4 e la Crocifissione di San Pietro di Michelangelo, proiettate insieme sullo schermo a fondo scena: l’analogia prospettica secondo cui nelle due immagini le persone che guardano il defunto occupano una posizione simile appare poco significativa, la foto da sola dice già molto e può essere letta come metafora di un atteggiamento collettivo senza scomodare altro.

Nelle note sul programma si legge che la questa storia “pare essere riservata agli uomini, agita e scritta da loro, e dalla quale le donne sembrano essere escluse”; in realtà tra i 14 brigatisti coinvolti nel sequestro c’erano – a vario titolo – anche quattro donne, con posizioni non troppo defilate. Senza considerare che – benché vittime – la vedova Eleonora Moro e le due figlie fanno parte di questa storia, anche per ciò che hanno, appunto, ereditato.
In questo solco, l’angolatura di osservazione della regia e della scrittura di Garolla affida alle due attrici lo scavo del passato per riuscire ad affrancarsene guardando al futuro e ai due uomini la zavorra di ciò che è stato, impedendo loro la libertà che maldestramente cercavano e hanno invece soppresso. I maschi hanno anche due ruoli più piatti, Crippa e Lorimer sono inchiodati alle loro sedie, si muovono pochissimo, non possono cambiare posizione come invece fanno Demattè e Traversi, impegnate  – l’una con determinazione un po’ rabbiosa, l’altra con più solarità – a costruirsi una vita libera.

Ancora Sciascia, affilato, definisce Moro come “un corpo ormai estraneo alla DC: una specie di doloroso calcolo biliare da estrarre, con l’ardore statolatrico come anestetico”. In Se ci fosse luce il corpo di Aldo Moro è il corpo di una storia che non ci sarà mai estranea.

SE CI FOSSE LUCE

testo e regia Francesca Garolla
con (in ordine alfabetico) Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi
scene Davide Signorini
costumi Margherita Platé
disegno luci Luigi Biondi
suono Emanuele Pontecorvo
assistente alla regia Francesca Merli
direttore di scena e datore luci Marco Grisa
fonici Emanuele Pontecorvo, Antonello Ruzzini
produzione LAC Lugano Arte e Cultura in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale
si ringraziano lo storico e studioso Raffaele Liucci e il giornalista Antonio Padellaro per la loro collaborazione e testimonianza; l’Archivio Flamigni per il materiale d’archivio
Testo selezionato in Artcena – aide à la création 2022 (Centre National des arts du cirque de la rue et du théâtre); testo realizzato durante la residenza Cité Internationale des arts de Paris – Lauréat 2020; testo realizzato con il sostegno di K10-Kunzarchive – Lugano
partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco

LAC, Lugano – 22 aprile 2023