GILDA TENTORIO | Sguardo lucido e consapevole, un’energia vivida che guarda a progettualità di ampio respiro: Gemma Hansson Carbone ti travolge con il suo entusiasmo. La sua è un’identità cosmopolita favorita dalle origini italo-svedesi, con un’apertura a quel meticciato fluido che è la cifra per interpretare le contraddizioni del mondo contemporaneo. Lavora presso il Teatro Nazionale di Göteborg, ma si definisce una «freelance in giro per l’Europa e per il mondo»: si ritaglia infatti spazi creativi come attrice o regista in progetti che appaghino la sua inquietudine nomadica.
Ho seguito i suoi lavori, soprattutto quando l’hanno portata in Grecia a collaborare con i  maggiori registi contemporanei (Terzopoulos, Marmarinòs, Elli Papakonstantinou), e nelle sue sperimentazioni di linguaggi artistici sempre nuovi trovo un filo rosso: il tema della memoria, in una prospettiva di responsabilità e di interrogazione sul sé.

Ora la giovane artista si cimenta con un testo capitale della drammaturgia greca moderna, Muoio come un paese, di Dimitris Dimitriadis (1944-), che debutterà a Ravenna (qui il teaser) il prossimo 2 maggio nell’ambito della sesta edizione del POLIS Teatro Festival.

Dimitris Dimitriadis

Il testo fu pubblicato nel lontano 1978, dopo gli anni bui della dittatura dei colonnelli, quando la Grecia viveva il sogno della prosperità e l’euforia del “tutto è possibile”. Un fulmine a ciel sereno. Si tratta di una straordinaria allegoria: un’intera civiltà è al collasso, non nascono più figli, tutto si sgretola, le maglie dell’ordine e del vivere civile si allentano in un gioco al massacro e alla follia, mentre si susseguono annunci allarmanti sull’arrivo di un popolo nemico. A suo tempo, il testo, così radicale e controcorrente, non fu compreso, ma con gli anni è diventato uno dei must del repertorio greco.

Come sei approdata a questo testo che è uno dei vertici della letteratura greca contemporanea?

Me lo ha fatto conoscere alcuni anni fa Aglaia Pappà, un’attrice che lo ha sperimentato in scena e lo ha portato anche in Francia. Per me è stata una folgorazione. Il testo non è teatrale, ma una “poesia in prosa”, una metafora fantascientifica e allo stesso tempo arcaica di una società che ha perso se stessa e che è morta in se stessa. Esiste una traduzione italiana, a cura di Barbara Nativi e Dimitri Milopoulos, che lo avevano presentato nel 2002 al Festival Intercity al Teatro della Limonaia. Ma ho letto anche l’originale greco e la traduzione francese: insomma, è diventato per me un’ossessione. Ho capito subito che era un testo irrinunciabile ma dovevo trovare la prospettiva giusta. All’inizio progettavo di portarlo in Svezia e di curarne soltanto la regia, ma poi per una serie di problemi, coincidenze o scherzi del destino, grazie al supporto dello stesso Dimitriadis, uomo di grande generosità e ispirazione, e anche di Terzopoulos, ho capito che il testo mi chiamava in un senso totale. E così il progetto ha cominciato a muovere i primi passi, con il mio ruolo di regista e unica performer, e ha acquisito le mie dimensioni “nomadiche”.

In effetti dopo il debutto a Ravenna viaggerai molto. Qual è stato l’input per questa dilatazione geografica così vasta?

L’input è venuto dal testo. Mi ha colpito fin da subito la sua universalità. Si parla di un “Paese”, che nella sua astrazione può essere tutti i Paesi, in un dilagare che valica confini geografici e viaggia nella diacronia. Il racconto avviene attraverso una voce potente, spietata, che è fuori dal tempo e dallo spazio, come una sorta di Angelo della Storia. Mentre il progetto prendeva forma, ho capito che avrei inseguito la Storia in luoghi inaspettati, per ascoltarla parlare, per essere testimone della sua esistenza e del suo manifestarsi. La produzione è svedese (compagnia Naprawski), ma abbiamo toccato in residenza luoghi diversi: Grecia, Spagna, Svezia, Italia. Dopo la prima a Ravenna, saremo in Repubblica Ceca, Belgio, Lituania, Nepal e in futuro forse in Messico. E poi si vedrà.

Residenze artistiche in Italia, Svezia e Grecia (aprile-settembre 2022)

Quindi è un viaggio nella verticalità della Storia applicato però a una varietà di luoghi?

Esatto. Poiché la forza di questo testo è la sua universalità e diacronia, volevo testarla in luoghi e culture diversi. Ho lavorato con un giovane architetto greco (Vasilis Mavrianòs) che si sta occupando delle “architetture invisibili”, cioè quelle strutture immateriali che l’uomo crea nello spazio e nel tempo (dialetti, abitudini, mentalità) e insieme abbiamo studiato delle modalità per adattare l’architettura di questo testo alla morfologia dei vari paesaggi, individuando innanzitutto i landmarks topici di un territorio. Si tratta di un lavoro immersivo, una performance site specific intima e radicale in cui voglio mettere in dialogo le parole di Dimitriadis e di Benjamin (l’Angelo della Storia) per farle cadere però in un luogo fondante, dove si sono intrecciati i fili della Storia, spesso lasciando ferite dolorose. Porto lo spettatore a “incontrare” la Storia e lo invito a farsi “visitatore” o “testimone” del suo contesto.

Dunque il testo accompagna lo spettatore in un itinerario di consapevolezza nella memoria collettiva.

Sì, naturalmente in ogni Paese e città il lavoro cambia. E il testo di Dimitriadis si presta a questa versatilità anche sulla morfologia del territorio, grazie alla sua forma frammentaria. Quando esploro il nuovo paesaggio, capisco quale respiro dare al testo: quel frammento risponde a un’apertura, una discesa o un silenzio. Colloco cioè il testo “dentro” la geografia. Ma il lavoro è più lungo. Prima di tutto effettuo una mappatura geografica, politica, sociale e umana. Collaboro con archeologi, storici locali, geologi, intervisto gente comune e cerco di capire quale respiro della Storia è possibile trovare, di quale memoria collettiva si nutre quel luogo. Poi in base a queste mappature, “appoggio” il testo alle morfologie geografiche e umane.

Che cosa succederà a Ravenna?

L’intento del progetto è di indagare come la Storia abbia condizionato e modulato la presenza umana in un territorio (e viceversa: come un territorio ha influenzato il flusso della Storia, della Cultura e della Società che lo abita). Io sarò la guida di questa processione di “viaggiatori nel tempo” attraverso le vie di Ravenna secondo un itinerario speciale che sto disegnando e gli spettatori ascolteranno la mia voce attraverso cuffie. Finora la risposta del pubblico è stata sorprendente: il testo è difficile e radicale, eppure si connette immediatamente con le nostre storie.

Gemma Hansson Carbone – ph. Mema Pekik e Timoteo Carbone

E negli altri Paesi come pensi di gestire la perfomance?

Decido a seconda del paesaggio umano. La camminata è lo strumento più versatile e suggestivo, ma ho sperimentato altre forme. In certi casi la memoria in situ trasuda così forte che non c’è bisogno di altro: mi dispongo quindi in una immobilità assoluta e il testo prende allora una carica quasi liturgica che inonda il luogo. In Repubblica Ceca il prossimo maggio e in Italia a fine agosto al Festival I Fumi della Fornace sperimenterò una tessitura musicale: voglio studiare i ritmi tradizionali e offrire il testo ai cittadini come un canto corale. In settembre sarò in residenza a Katmandu in Nepal (lo spettacolo debutterà nel 2024) e qui, in stretta collaborazione con gli artisti locali, penso che la forma sarà ancora diversa: non voglio infatti imporre una sorta di “esportazione culturale”, ma vorrei lasciare che il testo risuoni in quella cultura così lontana. Sarà senz’altro affascinante vedere il risultato.

Insomma, un progetto all’incrocio di varie discipline e con una forte caratura cosmopolita.

Certo, il progetto coniuga architettura, pratica del camminare, cartografia, teatro, storia, antropologia, poesia. Siamo attivi in nove Paesi e la cosa affascinante è proprio questa catena di collaborazione: voglio innescare dialoghi trans-nazionali.

Molti hanno definito questo testo di Dimitriadis “profetico”. Che cosa ne pensi?

Penso che Dimitriadis – e in questo vedo molte affinità con Terzopoulos – sia in effetti un profeta che usa un linguaggio violento e crudele. Eppure parlare con lui è sempre un conforto: il suo sguardo è già avanti e vede qualcosa che noi non siamo ancora in grado di vedere. Il suo testo, così radicale, propone una verticalità di riflessione vertiginosa, e la cosa straordinaria è che è un organismo vivente.
Leggo e rileggo queste pagine straordinarie, e ogni volta parlano dell’oggi. La sua scrittura visionaria parla a noi, cittadini stanchi di una società devastata da anni di guerre, pandemie, cambiamenti climatici, corruzione, violenza, ipocrisia e lui ci spalanca davanti tutte le nostre atrocità. Il re è nudo: tutto sta accadendo, tutto esplode.
Alcuni brani descrivono esattamente quello che abbiamo vissuto durante il Covid; oggi ci ritrovo il buio di questo nostro periodo politico e il dramma della guerra. La forza di questo testo sta nel proporre una contemplazione della Storia al di là della nostra identità. La Storia, che ha le sue leggi, le sue logiche impossibili da penetrare, ci mostra in realtà che al di là di tutte le tragedie, del sangue versato e che continueremo a versare, l’umanità è forte, sopravvive, ama, lotta, resiste. Certo, è un testo difficile, che trasuda sofferenza nel rappresentare il travaglio di una comunità, lo stillicidio di un’attesa angosciante, la morte. Eppure riesce a farci entrare in una dimensione relazionale diversa con la Storia: ci porta ad astrarci da noi stessi, a vedere le cose da una distanza che ci aiuta a essere cittadini migliori, a capire le manipolazioni, gli intrighi, le meschinità della Storia, e a trovare un giusto posizionamento.
Il testo è intriso di dolore, ma vuole parlarci soprattutto del nostro “inter-esse”, cioè come facciamo corpo nell’esistere insieme, dentro le maglie inarrestabili e incomprensibili della Storia.

Dunque nel testo vedi spiragli di speranza?

Li vedo perché Dimitriadis ci aiuta a riposizionare l’uomo, non più al centro: è il cosmo intero che muove tutto. Mi dà speranza questo pensiero: i disastri che ci accadono e facciamo accadere forse devono accadere, c’è una logica che non potremo mai capire fino in fondo, una logica terribile che ci fa soffrire e ci annichilisce, che uccide i popoli e i Paesi, ma è una logica che continua imperterrita da secoli. Chi siamo noi per tentare di controllare questo vortice cosmico? Alla fine dal testo scaturisce un nuovo tipo di energia, la pura forza della vita e del senso del Tempo, contro lo stato di smarrimento, annientamento e decomposizione che ci circonda. Uno slancio di verità oltre i fatti e gli avvenimenti storici.

Il fatto che Dimitriadis sia greco ha influito secondo te sulla potenza espressiva di questo testo?

Per la posizione geografica e per la loro storia travagliata, i Greci si trovano sempre “a metà”: hanno forgiato la civiltà occidentale ma non sono europei fino in fondo. Conservano uno sguardo obliquo, una saggezza ancestrale che guarda all’Oriente. Questo testo è “greco” ma la filigrana nazionale si scioglie subito in visione universale. Si tratta di una visione impensabile da parte di uno svedese o un italiano: siamo troppo incentrati su noi stessi, i nostri Paesi, la nostra storia, i nazionalismi, le correnti linguistico-culturali. La Grecia invece è sempre stata un posto unico nel suo genere. È per questo che fin dall’inizio ho nutrito il desiderio di aprire il progetto anche all’Est e al Sud del mondo, oltre i confini dell’Europa, perché credo che parli anche a loro, benché abbia un linguaggio assolutamente occidentale.

 

MUOIO COME UN PAESE

Basato su Πεθαίνω σαν χώρα, testo di Dimitris Dimitriadis
di e con Gemma Hansson Carbone
architetto Vasilis Mavrianos
ringraziamenti speciali a Theodoros Terzopoulous e Aglaia Pappas
produzione Naprawski
partner Konstnärsnämnden – Swedish Art Grant Committee (SWE), Space A – KIAR 2023 (NEPAL), PARC – Performing Arts Research Center and Fondazione Fabbrica Europa (ITA), Verdecoprente (ITA),  Art del Caminar – Walking Art and Relational Geographies (ES), walk ● listen ● create (BE), CO.LABS (CZ),
KKKC – Klaipėdos kultūrų komunikacijų centras (LT)

Prima italiana Ravenna, POLIS Teatro Festival | 2-4 maggio 2023