RITA CIRRINCIONE | Un molo, una panchina al centro, più in là alcune barchette di carta di giornale a grandezza quasi naturale lasciano intuire il mare. Accendendosi e spegnendosi, un disegno luci essenziale segna il succedersi dei giorni. Unico elemento sonoro, un ricorrente scrusciu di mari in sottofondo.
Questa la scena scarna, quasi naif, che rimane immutata per tutta la durata dello spettacolo – a cambiare sono solo i costumi – dove ogni giorno s’incontrano i due protagonisti di Totò e la sua radiolina di Giada Baiamonte.
Lui è Totò, anche se nessuno in famiglia lo chiama con il suo nome, ma con appellativi come scimunitu, luaccu, ritaidato che lo fanno sentire sbagliato e incapace di fare qualcosa di buono; lei è Gisella, prostituta per necessità, che dietro l’apparente leggerezza nasconde antiche ferite.
Ogni giorno si ritrovano in questo luogo al confine tra terra e mare, tra una realtà da dimenticare, da lasciarsi alle spalle almeno per un po’, e quella distesa di acqua dalla quale si sentono accettati per quello che sono, senza alcun giudizio. Totò gli confida i propri segreti e i propri pensieri reconditi, sicuro di non essere mai tradito; Gisella vi si reca dopo il suo turno di lavoro, un po’ per riprendere contatto con sé stessa, un po’ per purificarsi.
Lei è bella e disinvolta, con un aspetto appariscente; lui è storto e visibilmente impacciato nel movimento e nella parola, un po’ buffo con quella radiolina appesa al collo, oggetto transizionale infantile e rassicurante; sembrano agli antipodi, ma entrambi vivono un senso di emarginazione e di infelicità; entrambi hanno una vita amara, «dura da masticare» (sarà per questo che Totò porta sempre con sé delle caramelle, anche se sa di non poterle mangiare). Tutti e due hanno un dono inaspettato, la gentilezza, ed è su questa base che, giorno dopo giorno, costruiscono il loro rapporto.
Totò capisce più di quello che dà a vedere: quasi salvato dalla sua disabilità, ha sviluppato una saggezza spicciola e concreta, una sorta di primitiva intelligenza del cuore; Gisella, dietro l’apparente sicurezza, nasconde mille fragilità e andando oltre le apparenze – quasi facendo propria la massima di Saint-Exupéry «Non si vede bene che col cuore» – ha fiducia in Totò e sente che può essere la persona giusta per aiutarla a uscire da un’esistenza sempre più insopportabile. Così, quel legame, inizialmente improbabile, a poco a poco diventa una storia fatta di piccole attenzioni, di gesti pudichi e timidi slanci. Sarà Totò a ideare la salvezza di Gisella, spingendola verso un futuro da cui lui si esclude. La lascerà andare, consapevole che una volta raggiunta la libertà la sua presenza non sarà più necessaria.
«Vorrei seguire ogni battito del mio cuore / per capire cosa succede dentro / e cos’è che lo muove / Da dove viene ogni tanto questo strano dolore / vorrei capire insomma che cos’è l’amore / dov’è che si prende, dov’è che si dà». A fine spettacolo, tra gli applausi, si fa strada la voce di Lucio Dalla che canta Le rondini e, quasi estrema integrazione di testo, quelle parole sembrano definire il senso ultimo e più profondo dello spettacolo.
Applausi meritati per Eletta del Castillo e Nicolò Prestigiacomo per l’intensità e la verosimiglianza con cui interpretano i loro personaggi.
Prima di questo spettacolo – visto allo Spazio Franco nell’ambito della rassegna Scena Nostra 2023 – non conoscevo né la regista, né i suoi spettacoli precedenti, a malapena gli attori. Mi incuriosisce il fatto che Totò, oltre a essere uno strano mix di tradizione e contemporaneità, di tratti neorealistici e toni poetici, sia uno spettacolo intriso di palermitudine, che sembra richiamare tanta drammaturgia palermitana e allo stesso tempo se ne discosta.
Cerco di saperne di più contattando direttamente Giada Baiamonte. Ne nasce l’intervista che segue.
Giada Baiamonte, come autrice e drammaturga (per quello che ho visto in questo spettacolo) ho notato una certa tua indipendenza rispetto a una serie di autori della recente stagione drammaturgica palermitana, che inizialmente sembri richiamare. Ci aiuti a capire? Ci racconti la tua formazione?
La mia formazione è frutto di diverse contaminazioni e dell’incontro con tanti insegnanti. Da ciascuno di loro ho preso qualcosa. Quando ho cominciato a capire che nella vita volevo fare l’attrice, ho deciso che la mia formazione doveva essere la più completa possibile. Dato che cantavo e il mio idolo era Gigi Proietti, scegliere un’accademia di musical mi sembrò la scelta perfetta. Cominciai il mio primo anno alla Da.Re.C Academy Palermo di Gino Landi. Ma Palermo mi stava stretta e allora Rinaldo Clementi, mio primo maestro di recitazione, mi preparò per continuare a studiare a Roma. Mentre a Palermo si viveva il fermento di Emma Dante, si riprendevano i testi di Scaldati, si aprivano i primi teatri off, io facevo i provini per entrare alla Fonderia delle Arti – Scuola di Teatro e Musical di Giampiero Ingrassia a Roma dove mi sono diplomata. Con il senno del poi, forse avrei fatto bene a rimanere nel “fermento palermitano”, ma mi sarei persa tutto il resto.
Si dice che per fare teatro bisogna vedere tanto teatro e tutto quello che ho visto a Roma purtroppo a Palermo non è mai arrivato. Non avrei incontrato Lorenzo Gioielli, il mio insegnante di regia, Edy Angelillo e il suo senso della tecnica, Dino Scuderi e il suo modo di spiegarmi come la musica entra in contatto con gli attori, o Ilaria Amaldi, da cui ho imparato che essere eclettici non significa non sapere scegliere, ma avere una marcia in più. E non mi sarei scontrata con la severità di Pierluigi Cuomo: a lui non piacevano i secchioni (e io lo ero) e per questo non mi faceva recitare quasi mai. Io reagivo studiando i monologhi e i testi di tutti: prima o poi mi avrebbe ascoltata e io dovevo essere preparata. Grazie a lui conobbi Annibale Ruccello, autore straordinario, morto a soli trent’anni, ma già grande nel panorama teatrale del suo tempo. «Io devo essere come lui», mi dicevo. Ruccello prendeva gli argomenti del suo tempo, li riportava nella sua lingua (il casertano) e spingeva al massimo il pedale della verosimiglianza. È da lì che viene il mio uso del dialetto. Grazie a un suo monologo vinsi il mio primo concorso, Monologando, patrocinato dal Comune di Roma.
E rispetto agli autori palermitani?
Spesso mi viene chiesto se mi rifaccio a qualcuno di loro. Posso solo rispondere di no. Non mi piace rielaborare le cose di altri e neanche strizzare l’occhio a quello che va di moda. Se proprio bisogna rielaborare qualcosa, allora rielaboriamo la storia. Come dice De Gregori, “la storia siamo noi”, e la nostra storia, quella del mio tempo, non sta andando proprio bene. Bisogna guardare al passato per capire quando abbiamo cominciato a sbagliare, per intervenire e cambiare, per proiettarci nel futuro. L’arte, ma anche la regia, fa un po’ questo: aiuta a rielaborare il dolore e a generare acqua nuova.
Totò e la sua radiolina è il primo episodio indipendente di una serie che nasce dalla messa in scena di E murìu u cani, un tuo precedente spettacolo. Com’è nata l’idea di una serie teatrale?
E murìu u cani – modo di dire palermitano per indicare un evento terribile e nefasto, quando ormai tutto è perduto e non c’è più nulla da fare – è la storia di cinque figli che si ritrovano in occasione della veglia funebre per il padre appena defunto, una veglia lunga una notte, alla fine della quale nulla sarà come prima. In un vortice di battute frenetiche e tragicomiche i cinque personaggi – ognuno di loro incarna un tipo umano, una categoria dell’esistenza – mettono a nudo le proprie ferite più nascoste, in una esposizione estrema al cospetto del pubblico, che viene risucchiato in una spirale di dolore. Alla fine dello spettacolo è come se ciascuno dei personaggi avesse ancora tanto da dire, e questa cosa, con mio stupore, è stata colta per prima dal pubblico. Molti spettatori tra i saluti e i ringraziamenti volevano saperne di più e mi tartassavano di domande sulle loro vicende. Domenico Bravo (l’attore che interpreta uno dei figli), mentre si smonta la scenografia mi dice: «Giada, ma a questo punto perché non scrivi una serie?». «Ci sto pensando» rispondo. Da qui l’idea di scrivere una serie teatrale dove ogni personaggio di E murìu u cani diventa protagonista di una nuova storia.
Come mai hai scelto di mettere in scena come primo episodio Totò?
Totò e la sua radiolina nella mia idea doveva essere l’ultimo spin-off di questo progetto che alla fine sarà una esalogia. È diventato il primo perché avevo bisogno di distanziarmi da E murìu u cani, più violento e viscerale, mentre Totò, come tipologia di storia e di scrittura, è sicuramente più poetico e rarefatto.
Tullio De Mauro ne La lingua batte dove il dente duole, dialogando su lingua e dialetto con Andrea Camilleri, racconta come in Sicilia, anche in ambienti colti, certe discussioni partono in italiano ma, appena si accalorano, passano al siciliano. Anche i tuoi personaggi intercalano i due registri linguistici e scivolano nel siciliano, soprattutto quando si parla di sentimenti o si toccano temi più intimi. Nelle tue storie a quale Palermo ti riferisci?
Quando scrivo i dialoghi penso alla verosimiglianza, al linguaggio ibrido che nella vita di tutti i giorni viene utilizzato in quasi tutte le famiglie siciliane e così faccio anch’io con i miei personaggi. La Palermo a cui mi riferisco è quella della periferia palermitana – a livello temporale siamo a metà degli anni ’90 – e i soggetti sociali sono quei poveri che fanno di tutto per non sembrare poveri e per riuscirci arrivano anche a indebitarsi. Appartengono alla generazione precedente alla mia, quella che ha fatto di tutto per essere come i padri, ma che ha concluso veramente poco e non ci ha lasciato quasi nulla.
Come giudichi l’ambiente teatrale della nostra città?
Penso che in questo momento storico esistono tanti tipi di sperimentazioni teatrali. Alcune validissime, altre un po’ meno che si proteggono sotto il titolo di “teatro di ricerca”, ma ancora non si capisce cosa stiano ricercando. Dopo il Covid stiamo ripartendo con moltissime attività delle quali sono piacevolmente stupita: non mi aspettavo tanto fermento. Palermo è sempre stata culla di cultura e di sperimentazione, ma siamo sempre stati penalizzati dalla distanza dal “continente” e dai costi di produzione. Per poter partecipare a bandi teatrali fuori dalla Sicilia dobbiamo affrontare spostamenti costosissimi e questo frena molto le giovani compagnie che non hanno acceso ai finanziamenti pubblici.
Che posto pensi di occupare nel panorama teatrale di Palermo?
Faccio questo lavoro da 18 anni e solo adesso riesco a vivere di questo. Come tanti della mia età (ho 35 anni) ho fatto molti sacrifici per farmi conoscere, anche perché, quando sono tornata da Roma nessuno mi conosceva. Sono arrivata a pensare che nessuno volesse conoscermi. Se avessi fatto la commessa, forse adesso la mia vita sarebbe più semplice. Quello che ancora non mi fa gettare la spugna è l’idea che “commuovendoci”, muovendoci insieme, scrivendo qualcosa di genuinamente pop, che possa davvero riguardare la vita di tutti, forse qualcosa può cambiare. Oggi non ho un mio posto se non all’Art Factory, dove insegno recitazione. Ma è già tanto essere riuscita a presentarmi e dire «Io esisto» e, grazie allo Spazio Franco che mi ha fatto da megafono, essere stata ascoltata. Non so se occuperò mai un posto nel panorama teatrale di Palermo, ma so che sicuramente continuerò a dire «Io esisto» e a fare ancora quello che sto facendo.
TOTÒ E LA SUA RADIOLINA
testo e regia Giada Baiamonte
interpreti Eletta del Castillo e Nicolò Prestigiacomo
disegno luci e costumi Andrea Schirmenti
scenografia Danilo Zisa
assistente tecnico Francesco Bonomo
Palermo – Spazio Franco
Palermo, 7 aprile 2023