LILIANA TANGORRA | Torna in scena un appuntamento che da venticinque anni accompagna i detenuti del carcere minorile di Bari N. Fornelli alla scoperta di una libertà tangibile attraverso l’arte scenica.
Il sogno di Asterione, spettacolo della Compagnia Sala Prove e Teatri di Bari, ispirato a un testo di Jorge Luis Borges, in scena presso il teatro dell’Istituto penitenziario minorile barese, ha registrato il tutto esaurito nelle date del 19, 20, 21, 26 e 27 aprile. Le repliche sono il frutto del progetto nazionale Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza – ideato e capitanato da Carte Blanche/Compagnia della Fortezza e promosso da Acri-Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio SpA – che per la sua V edizione ha visto anche Sala Prove nella rete finalizzata a promuovere e rafforzare progetti attivi all’interno degli istituti penitenziari che mirino alla formazione, al recupero, alla rieducazione e alla risocializzazione del detenuto tramite la pratica d’attore nonché grazie alla conoscenza dei mestieri propri dell’attività teatrale.
L’appuntamento celebra, altresì, i venticinque anni di attività del progetto Sala Prove, laboratorio teatrale con i giovani detenuti curato da Lello Tedeschi per Teatri di Bari: la Compagnia Sala Prove – composta anche da giovani detenuti attori – ha portato così negli spazi del carcere minorile barese la storia di Asterione (Signore delle stelle) – uno dei nomi con cui era conosciuto il Minotauro – rinchiuso dalla nascita in un labirinto a Creta dal re Minosse. Il testo si ispira a un racconto di Borges (La casa di Asterione), contaminato dalle parole di Vladimiro e Estragone in En attendant Godot di Samuel Beckett.
Abbiamo posto delle domande al regista dello spettacolo – nonché conduttore del laboratorio – Lello Tedeschi:
Cosa è cambiato o cosa non è mutato nel corso di questi venticinque anni di laboratorio nell’Istituto penitenziario minorile?
L’obiettivo principale del progetto che ci accompagna da un quarto di secolo è rimasto invariato: fare teatro in un luogo che non è un teatro e non potrebbe essere effettivamente un teatro; questo al fine di favorire il match tra detenuto e pubblico, offrendo una visione rinnovata dell’incontro tra realtà esterna e interna nella fase finale della produzione, alias lo spettacolo. Quello che è cambiato è invece l’umanità delle persone coinvolte, è cambiata la società in cui viviamo, sembra che i giovani siano più volubili, risulta più complesso scrutare la loro profondità. Il percorso laboratoriale diviene più tortuoso, ma si arriva sempre a una finalizzazione che inevitabilmente coinvolge attori e pubblico emotivamente. Questa considerazione è dettata anche dalla breve permanenza nel penitenziario che scandisce le ore e il percorso del laboratorio. L’indirizzo della giustizia minorile è quello di abbreviare la reclusione per offrire altre opportunità in strutture esterne. Questo però non compromette il valore del lavoro con ‘agenti’ esterni – ad esempio con i nostri laboratoristi del teatro Kismet – con i quali i detenuti dialogano, come nel caso de Il sogno di Asterione.
Il dialogo tra ‘esterno’ e ‘interno’, tra ‘realtà’ e ‘surrealtà’ è dunque fisico o metafisico?
Già Borges immaginava di inglobare il lettore nelle stanze della casa di Asterione invitandolo ad attraversare corridoi, oltrepassare porte, a guardare oltre le finestre per osservare i cortili, questa lettura nel nostro caso immette in una realtà fisica fatta, per l’appunto, di corridoi, porte, finestre e cortili – quella del carcere – ma anche in una surreale fatta di sorprese e attese. In questo lavoro, messo in scena per la seconda volta, mi sono permesso di scaravoltare il finale del mito per portare sul palcoscenico fino in fondo l’idea di Borges. Teseo decide nel nostro caso di non uccidere il Minotauro, rimane volontariamente rinchiuso nel labirinto, liberandosi dal filo di Arianna. L’eroe attico si riconosce dunque in Asterione come se fosse davanti a uno specchio deformato, proponendo così al pubblico un’interconnessione e uno scambio tra vittima e carnefice. Potremmo essere noi Asterione, abitarci tutti in quella casa prigione labirinto, umani e bestiali a un tempo. Solo che forse, per dirla con Borges, non ne abbiamo memoria.
Che cosa attendono dunque Asterione e Teseo?
Attendono Godot! Non è dato sapere cosa scandisce il loro tempo, se l’attesa della morte o della liberazione. Rappresentano e presentano al pubblico quella sensazione di attesa nella quale ognuno di noi si può trovare. Noi uomini e donne di teatro cogliamo nelle parole di Borges quell’assonanza tra lo stato mentale fatto di stanze e corridoi e lo associamo a uno stato fisico, quello della casa circondariale. Il carcere è fatto di corridoi, di attese, per questo è inevitabile che osservando Il sogno di Asterione gli spettatori – imprigionati nella casa del Minotauro – si sentano accomunati alla condizione di Asterione e Teseo così come a quella dei detenuti.
Lo spettacolo principia con un’invocazione, si chiede allo spettatore di ‘immaginare’ una casa/labirinto, cosa dovrebbe invocare questa frase negli attori in scena e negli spettatori?
La prima parola scelta nel prologo è ‘immaginiamo’. Il gioco che si crea nell’immaginare una realtà appena percepita stimola la mia artisticità perché quello che è reale può essere probabile e quello che è surreale può diventare pratico come ci mostra il dialogo tra Asterione e Teseo. È il gioco atavico della relatività dei vissuti, delle esperienze e delle domande che vogliamo mettere in scena.
Raccontaci il percorso affrontato dai detenuti nell’ambito del progetto Per Aspera ad Astra.
Per Aspera ad Astra-Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza è stato ideato da Carte Blanche/Compagnia della Fortezza ed è promosso da Acri-Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio SpA. Oggi è alla sua V edizione e ha visto anche Sala Prove nella rete che ha promosso progetti attivi all’interno degli istituti penitenziari; tali progetti mirano alla formazione, al recupero, alla rieducazione e alla risocializzazione del detenuto tramite il teatro e le sue arti. In effetti i ragazzi del penitenziario barese grazie alle risorse messe in campo dal fare artistico di Armando Punzo e della rete di Per Aspera ad Astra hanno realizzato un percorso formativo di 270 ore sulla produzione scenografica, drammaturgica, audiovisiva e sartoriale. Questi tre mesi di formazione ho deciso di spenderli nella realizzazione di tutte le panche del teatro e la scenografia dello spettacolo grazie al contributo di Vittorio Palumbo e di undici detenuti; sono stati realizzati i costumi indossati in scena grazie all’apporto di Annamaria Lupacchino; è stato prodotto un video dello spettacolo, e infine è stato creato un percorso di drammaturgia guidato da me e da Damiano Nirchio il cui esito finale è stato presentato a Pontremoli. A settembre il percorso riprenderà il suo cammino con altre 330 ore di attività, si concluderà tra aprile e maggio e sarà caratterizzato dallo studio su un nuovo testo e dunque da una nuova drammaturgia.
In conclusione: perché dunque fare teatro in carcere?
Ma perché no? Il teatro nel carcere lo abbiamo creato e abitato; è un luogo fisico in cui praticare la scena per e con chi è dentro e chi è fuori. Un luogo permeabile e aperto a relazioni senza distinzioni: pratiche di laboratorio con giovani detenuti e attori di fuori, aperture pubbliche, seminari per il teatro in carcere per artisti ed educatori. Sala Prove è per noi un luogo per l’intera comunità di cui il carcere è solo una porzione: un evidente cortocircuito per una struttura che per natura e abitudini reclude e esclude, ma una altrettanto evidente necessità per offrire a tutti, di dentro e di fuori, l’occasione di elaborare differenti visioni di sé e degli altri e poter trasformare il proprio stare al mondo.