RENZO FRANCABANDERA | Il super classico delle scene di tutto il mondo, l’Amleto di Shakespeare, per la regia di Laura Angiulli e con la produzione di Galleria Toledo di Napoli, è andato in scena a Bologna a Teatri di Vita nell’ambito di ResiDANZE di Primavera, la rassegna che fino a metà maggio coinvolge compagnie e artisti in progetti ibridi fra rappresentazione, pratiche laboratoriali e restituzioni, come quella che vedrà protagonisti il 13-14 maggio Purgatori di Collettivo Est (restituzione della residenza di un gruppo giovane e di particolare interesse) ed Eco del mondo di Tecnologia Filosofica (restituzione della residenza del collettivo performativo coreografico torinese, con il recupero della figura di Arlecchino).
Angiulli, direttrice artistica dal 1991 del centro di produzione Galleria Toledo, che ha curato drammaturgia e regia di circa 40 spettacoli di repertorio, e recentemente a Teatri di Vita con Cassandra, firma qui una regia che si fonda su una personale rielaborazione, invero complessivamente fedele e anzi finanche rispettosa del tono poetico della scrittura del Bardo, che viene preservata.
All’ingresso degli spettatori in sala, la scena è già rivelata e dentro una bruma artificiale si staglia, al centro del palcoscenico, un salotto di poltrone in pelle dalle tonalità fredde, che virano dal blu leggero al verde chiaro.
Questo circolo di elementi da salotto viene reso asimmetrico rispetto allo sguardo del pubblico dalla presenza, a sinistra, di un separè, e, a destra, da una piccola vasca da bagno, elemento ovviamente fuori luogo dentro un paesaggio da soggiorno, ma che, per chi conosce la vicenda, è incombente presagio di quello che accadrà. Una serie di grandi tappeti un po’ consumati a terra fra le poltrone, come pure un lampadario in ferro battuto arrugginito che pende dal soffitto, spostato sul lato sinistro, sembrano omaggi di Rosario Squillace, che firma la scenografia, ai due grandi registi dell’era contemporanea che dell’opera shakespeariana hanno regalato letture diversissime, ma entrambe sconvolgenti e intense: Peter Brook ed Eimuntas Nekrosius.
Fin dall’inizio della rappresentazione, si avvia la dinamica di movimento scenico che contraddistingue tutto lo spettacolo nel seguito, con un seguirsi di scene molto serrato e senza intermezzi, a cui gli interpreti danno vita entrando e uscendo da dietro le quinte.
Il codice scelto per i costumi rafforza la sensazione di un tempo della rappresentazione ibrido, che vuole legare il tempo immaginario della scrittura shakespeariano e la più tradizionale iconografia teatrale dei personaggi a una contemporaneità vintage con abiti da sera eleganti, almeno per le figure dei regnanti, della corte. Nero e un po’ dark goticheggiante, invece, è la figura di Amleto. Uniche note di colore nei cromatismi dei vestiti sono una Ofelia color pesca e i due cortigiani Rosencrantz e Guildenstern che, pur nel loro frequente cambiarsi d’abito, rivelano un’apparente estraneità al contesto in cui sono chiamati a intervenire.
Del ritmato evolvere della vicenda immaginata dal Bardo e prima di lui da tante storie e leggende che già affollavano le narrazioni tardomedievali, la regista Laura Angiulli ha favorito non una riscrittura, ma una rispettosa sintesi del testo shakespeariano che ne mantenesse non solo la sostanza narrativa, ma anche l’impasto poetico.
Le interpretazioni affidate agli attori restano dentro una volutamente misurata classicità, pulita e senza che alcuno indulga in gesti scomposti. Claudio è un usurpatore placido, che vuole quasi sembrare uno di quegli innocui uomini d’apparato, un borghese della nomenclatura. La figura di Orazio scompare del tutto e così, all’inizio, Amleto si trova quasi subito davanti al fantasma della figura paterna. In realtà, più che davanti occorrerebbe dire di spalle, perché il figlio non guarda mai il padre in volto: gli appare vero davanti, non permettendo, di conseguenza, la rivelazione del sembiante.
La resa registica complessiva rimane dentro un binario di pulizia in cui non spiccano forzature psicanalitiche di sorta, se non un’insistenza iniziale sul rapporto edipico che lega il protagonista alla madre. E vista la scelta dell’assenza dell’amico del cuore del protagonista, quest’ultimo, in qualche modo, sopravvive a sé stesso, sopravvive all’ecatombe che lo scrittore aveva immaginato come conclusione del suo dramma: quasi a voler dire che Amleto comunque sopravvive, che qualsiasi cosa accada alla vicenda umana, il teatro è capace di restare.
Un lavoro nel complesso onesto, senza inutili sofisticazioni, e fedele, pur con qualche piccola trasgressione, che però non modifica l’impianto e rende lo spettacolo adatto anche a spettatori giovani. Ci sono piaciute le interpretazioni dei giovani e il sordido Polonio di esperienza.
AMLETO
da William Shakespeare
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Paolo Aguzzi, Giovanni Battaglia, Alessandra D’Elia, Enrico Disegni, Stefano Jotti, Valentina Martiniello, Andrea Palladino, Antonio Speranza
scena Rosario Squillace
luci Lucio Sabatino
assistente Martina Gallo
scenotecnica Clelio Alfinito, Mario Di Nardo
elementi scenici Vincenzo Romano
foto Anna Camerlingo
produzione Galleria Toledo