RENZO FRANCABANDERA | Incontriamo Mimmo Borrelli dopo quelle che possono essere viste come un punto importante del percorso artistico e produttivo, ovvero le repliche presso il Piccolo Teatro Studio di Milano de La Cupa.
Lo spettacolo racconta, in una atmosfera oscura e opprimente, della faida che contrappone due famiglie di scavatori di tufo protagoniste della creazione di Borrelli, premiata due anni fa proprio in questo teatro con il premio Ubu, e che ha avuto le sue repliche a Milano dal 10 al 14 maggio. Il pubblico cittadino ha potuto confrontarsi con la scrittura visionaria, declinata in quindicimila versi di una lingua napoletana potente in cui risuonano echi di Basile e Shakespeare, baluginano riferimenti al Teatro Nō e alla tragedia greca.
Mimmo, La Cupa chiude forse un cerchio rispetto a una tua elaborazione di segni scenici, parole, pensieri sul fatto teatrale, che si ricollegano direttamente a La madre e ad altri esperimenti condotti in questi anni. Lo pensi anche tu?
La Cupa è il testo che determina lo “svango”, lo svuotamento, quel passaggio dalla Trinità dell’Acqua (’Nzularchia – 2003; ’A Sciaveca – 2006; La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma – 2010) alla Trinità della Terra. La Cupa è una ferita, la voragine del mondo, metafora del suo buio sprofondamento. Unica salvezza l’oscurità, unica condizione di benessere, la cattiveria. È un’opera che racconta una deriva in un tempo dove un bambino fin dall’età di un anno e mezzo non ha più la possibilità di sviluppare quello che è stato il fuoco sacro dell’evoluzione umana: la creatività. Senza creazione, senza creatività una civiltà è destinata ad estinguersi. Ai bambini viene tarpata l’età del gioco e dell’infanzia: oggi come oggi, ogni apprendimento è indotto, è già condotto verso un’illusoria e fallace vittoria apparente; prima si giocava con le pietre e con quelle ci si immaginava ad essere guerrieri, soldati o principi e mostri, ora quei mostri sono già creati e con un gesto su un touch-screen si ha la sensazione di condurli alla vittoria, mentre la sconfitta è dietro il compimento l’ultimo quadro: l’oblivione, l’appannamento della creatività a favore di una lobotomia genetica della coscienza.
E in questa riflessione ho condotto una riflessione più grande seppur semplice: la difficoltà della paternità in questa epoca. Essere o non poter essere padre in questo mondo.
La famiglia è il termometro dell’esistenza e la spia che da sempre, nella sua virulente forma, ha lasciato scoperte le facciate agli scoppi delle sue crepe. Dalla terra sono stati creati uomini e case. Dalla pietra dalle insidie della terra ci difendiamo con la pietra, nella pietra ci tumuliamo.
Cos’è una cava? È un incavo nella terra, come dell’esistenza umana. Il territorio devastato e smosso trascende nell’allegoria del familiare che qui non sprofonda, ma ha crepe, dilavamenti e cupe che riemergono col tempo dal sottosuolo già violato. L’inane spinta verso l’inferno della montagna e non verso il cielo.
Ma questo come si proietta nel lavoro con gli attori?
Con La Cupa volevo mettere in piedi anche un discorso assolutamente politico su quello che deve essere il percorso di un attore che affronta le mie opere. Si tratta di un percorso che dura anni, così come l’autore impiega anni per scrivere il testo. Non si può prescindere da tale allenamento, altrimenti si impacchetta e si compie uno spettacolo di intrattenimento e non un atto culturale e politico che il teatro è e deve essere.
In questo accompagnamento ormai da quasi dieci anni, mi sono adoperato ad addestrare personalmente un manipolo di attori ad affrontare tale drammaturgia, attraverso seminari e progetti di formazione. Addestrarli per poi averli pronti, per solo 7/8 settimane di prove e non anni come i grandi registi stranieri sostenuti da un sistema ministeriale diverso. Un lavoro di scavo dove il mio teatro, seppur molto formalizzato, vuole prescindere assolutamente dalla finzione, ma adoperare in modo maniacale un salto nel pericolo continuo. Mettersi in gioco e in pericolo sempre, su un solo argomento: la verità degli attraversamenti emotivi, in un’ossessiva formalizzazione e replica continua di quel vero-finto-vero. Il tutto procedendo su quell’idea di teatro totale che evolve la prosa, evitando la danza, le sue convenzioni rispetto a grazia e femminilità, ma tenendone i prodromi del ritmo, del suono, del verso, delle geometrie, del canto che ricade nel corpo e in un corpo che mai cerca di sostituirsi al verso.
La voce è corpo. La voce è il vero strumento emotivo della prosa e della verità. In questo evitando quell’errore e orrore continuo e perenne di sostituire col corpo l’incapacità attoriale e registica di chi non sa risolvere la parola vedendola come un limite, anziché un trampolino. La voce muove il corpo, il canto muove la visione ed una missione. Quella di raccontare e agire e liberare una storia e non raccontare il pensiero deviato e sempre fallace, poiché intellettivo, che il regista si fa di quella storia.
Anche in questo La Cupa chiude un cerchio: avendo per la prima volta la possibilità produttiva di tanti attori a disposizione, potevo determinare il mio teatro, che qualcuno ha definito totale. Durante le prove ero avvezzo dire che indipendentemente dalla qualità artistica che è sempre opinabile, stavamo facendo qualcosa che non avevo mai visto: prosa ma non fino in fondo, danza (e fortunatamente) non fino in fondo, epica, sceneggiata ma non fino in fondo, dramma musicale, melodramma, teatro no, teatro kabuki.
C’è da sempre un tuo bisogno di rappresentare una umanità degradata, in cui si mescolano disperazione, società e nuclei familiari disgregati, ammalati di un erotismo disperato e blasfemo. E di converso la presenza di figure innocenti, vittime del loro candore e del loro anelito spirituale. Da cosa nascono in te questi conflitti? Come ti raccontano queste epifanie sceniche?
Il motivo è chirurgico. Io dico sempre che un drammaturgo è e deve essere uno stupratore di storie. Il mio intento da narratore e poeta di queste epoche è spostare la percezione del male, che ci arriva notificato sui cellulari in ogni dove e in ogni forma e notizia; quel globale fasullo che non ci coglie più e storpia nella coscienza e nella misericordia ogni nostra percezione. Poiché ne siamo assuefatti, inevitabilmente per la quantità inenarrabile e non percepibile. In teatro bisogna invece farsi sentire, sensorialmente.
Ne La Cupa, per verticalizzare il tutto, dovevo spostare quelli che sono poi rapporti familiari impossibili, attraverso non il corpo (che di per sé è elegante) ma il linguaggio.
Un testo imperniato, inchiodato e crocefisso in marmo di miseria, sull’impossibilità di essere padre senza mal ferire e senza peccato, nell’onnivora società di consumo moderna. Dove il consumo, il corrodere esistenze e vite disperate, l’inane esistenza di apparire per sentirsi vivi, rende quelle esistenze stesse sempre più limate come pietre di tufo in polvere. Tutto ciò è allegoria fondante del processo di scrittura dei versi, alle fondamenta di quello che è poi il vacuo e vuoto benessere di un sempre più ipocrita quieto vivere. Quel benessere senza etica di paternità e senza Dio, senza più origini e identità, dove il “piccato” e scolpito liberismo anticamera del fascismo, distrugge e omologa, scava e appiattisce, rimuove per coprire nell’incavo di una dimenticanza immorale ormai consunta dall’orrore. Ogni rapporto familiare è degradato e perverso. Anche la sessualità deviata dei personaggi è assolutamente spinta e sta ad indicarne una mutazione, non verso l’animale, che sarebbe di per sé positiva, ma verso uomini che ragionano e rivolgono la loro intelligenza al male. Bestie con la ragione e dunque mosse da istinti perversi. Linguaggio che verticalizza l’orrore attraverso il non detto, una lingua spigolosa e scorretta, che accumula per sovrapposizione, calembour struggenti, poesie e atti d’amore, invettive della peggior fatta, liquami e umori escatologici d’ogni sorta. Creature mostruose, che si muovono eleganti verso questa bestiale “primordialità” animale, spostando sempre più l’asse del linguaggio: che di per sé è volutamente inquinato di metafore, iperboli, lessico iconoclasta e neologie blasfeme. Tutto questo per esplicitare, anche destando fastidio, il pericolo che corre l’umanità nel suo autodistruggersi.
Questo testo alla fine parla di cose enormemente attuali: pedofilia, incesto, violenza sulle donne e minori, uxoricidio, parricidio, figlicidio paterno. Argomenti del tutto esposti alla realtà del presente, ma rispetto ai quali non sentiamo e percepiamo più l’orrore, poiché siamo avvinti da quell’ assuefazione, dovuta al lucro dei mezzi televisivi e telematici, circa la diffusione di tali notizie. L’intento dell’autore e anche della regia è stato quello di mettere in crisi e spostate ancor più in basso sul pentagramma della tastiera dello sdegno, l’asse della violenza di questa vicenda per allarmarne il pericolo. Rispetto a questi orrori, dunque, dare materia viva di suono ai sentimenti di collera, disperazione e strazio, con l’uso reiterato di un turpiloquio ossessivo, preordinato che muove la dannazione certa di queste anime condannate, in una sorta di confessionale in processione.
La lingua diventa però contraltare basso e debordante di un’altra esigenza, quella della bellezza della scena, dei costumi e dei corpi, nella continua ricerca di un combattimento continuo, ma stilizzato, tra l’eleganza del male e i liquami del suo degrado.
Come è possibile, per un artista che arriva ad una elaborazione così compiuta e piena del proprio sistema di rappresentazione, continuare a sfidarsi, a uscire dalla propria zona di comfort, di maturità stilistica riconosciuta, per continuare la ricerca?
Io non ragiono mai da artista; artigiano sì, forse. Ma da essere umano. Sulla necessità di raccontare e veicolare.
Sull’urgenza del racconto.
Scrivo prima di tutto per salvare me stesso e la mia piccola comunità, Torregaveta, che poi è divenuta il cosmo del mio mondo altrove. Poiché in effetti, nei miei testi uso personaggi vicini alla mia realtà, quotidianità, per parlare poi fondamentalmente di me e delle mie povertà esistenziali. Il tutto nella famosa legge teatrale del parlare di sé non attraverso il proprio sé, ma attraverso gli altri. Nulla, dal 2012 fino al 2017 avevo forti dubbi sulle mie possibilità di essere all’altezza di una famiglia, con la mia attuale moglie, allora compagna. Insomma di essere padre davvero. Dunque nel testo questo aspetto è molto sviscerato e fortemente presente. Una paternità nel suo patriarcato esecrabile messa in discussione fortemente.
Scrivo quindi prima di tutto per salvare me, nella speranza di salvare almeno il prossimo vicino, non pretendo il pubblico intero che però corre a vedermi. Salvare il mondo è impossibile e guai a chi si erge a Dio in terra. Ma ogni particolare è cellula di un’universalità, forse la mia fortuna è stata questa. Per il comfort, io agisco così dal 2003 cioè non penso mai di uscirne, poiché è il mondo creativo comodo che consente di evocare i propri morti. E non devo pensarci. Quello è un pensiero che lascio ai miei colleghi registi, che hanno il bisogno di piacere, accattivare inseguire il successo. Il mio unico bisogno è veicolare delle mie verità oscure. Quando non ne avrò più farò repertorio e veicolerò ciò che di bene e male ho messo in atto. Solo la parola salva.
Dentro le tue opere c’è sempre una grandissima musicalità, che fra parola e suoni le spinge in un’area che si avvicina al musical espressionista kantoriano. Ti sei chiesto come mai?
Non me lo sono mai chiesto, mai, ma un motivo c’è. Poiché il melodramma (il genere teatrale più importante che abbiamo mai ideato) nasce in Italia, anticipato da Metastasio, ma approfondito dall’invenzione dell’opera buffa che avviene a Napoli con Paisiello. Operazione non minore affatto: anzi, che arricchì l’opera seria e definì l’evoluzione di quei canoni dell’opera lirica che di lì a poco avrebbero preso il sopravvento, poi a cavallo tra ottocento e novecento, ancora oggi praticati. Nel frattempo Napoli diveniva una delle capitali del teatro in quei secoli, con l’invenzione di generi come il vaudeville, da lì poi la sceneggiata seppur genere minore, l’opera teatrale, politica e musicale enorme di Raffaele Viviani, che anticipa e sovrasta, in verticalità è qualità l’opera dello stesso Brecht. Lo sviluppo di famiglie teatrali dai comici dell’arte dal 600 ad oggi: da Sannazzaro a Caracciolo, dall’attore Silvio Fiorillo (primo pulcinella della storia forse) all’autore Velardiniello, per passare poi all’ottocento con la dinastia di Antonio Petito, poi a quella di Eduardo Scarpetta, fino ad arrivare al già citato Viviani, a Roberto Bracco (defraudato del premio Nobel dalle ingerenze fasciste che lo boicottarono), fino al novecento con Eduardo e la famiglia De Filippo, al principe della risata Antonio De Curtis, arrivando poi all’etnoteatromusicologia di Roberto De Simone; passando di assito in assito, per la canzone classica e macchiettistica: da Di Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, E.A Mario, Ernesto Murolo, Taranto, Maldacea, Pisano e Cioffi. Siamo di fronte ad una città stato unica nel suo genere e di una cultura teatrale e musicale che ha ideato e dato vita a generi diversi che poi sono esplosi in tutto il mondo. Un teatro a scena aperta che si affaccia sull’orlo di una tradizione in movimento ed una lingua scenica ancora viva e soprattutto parlata e dunque inequivocabile nel raccontare l’azione ed il presente.
In questo senso quello che qualcuno ha definito teatro totale non poteva che esplicitarsi sulla cima di queste passate esperienze, poi spostandomi verso l’orizzonte delle origini ebraiche e salmodiate dei Campi Flegrei, fino alla melopea greca di Cuma (la prima città Italiana), alle reminiscenze poetiche dei latini ed in particolare di Virgilio, che visse in queste zone e raccontò quel mondo. Insomma se il mio teatro un passo in più ha compiuto, è stato possibile solo per la presenza di una tradizione immane e presente.
Su Kantor e Grotowski ai quali con onore vengo paragonato, posso dire di aver letto tutti i loro scritti e testimonianze sul loro lavoro, ma per motivi anagrafici di non aver mai potuto assistere al loro lavoro dal vivo. La mia formazione da ex cantante lirico, burattinaio e becero attore di giro, si rifà rubando a destra e a manca, ma senza i mezzi di oggi dove su internet puoi trovare di tutto. Credo che la mia fortuna sia stata proprio per citare uno dei due, questa povertà. Senza mai uno spazio, senza laboratori e mai ricattando gli attori per anni con seminari pagati, ma solo in una stanza, unica libertà una penna, un foglio e la sapienza attoriale artigianale proveniente dal basso. Prevedere tutto in laboratorio, poi andare alle prove. C’è chi pensa che La Cupa venga da anni di prove, invece come dicevo prima, solo 8 settimane scarse con un gruppo di attori fedele e meraviglioso.
Il vero dramma de La Cupa, tuttavia, più che in scena è fuori scena perché mette a nudo la fragilità e i limiti di un sistema teatrale incapace ormai di permettere la circuitazione nazionale di lavori con più di due o tre persone in scena, e di favorirne il lancio a livello internazionale, cosa che pure un’opera così matura, al di là di ogni barriera linguistica, meriterebbero. Anche questa è una tragedia senza speranze?
A tale proposito vorrei rispondere con alcuni pensieri e idee che esposi in varie interviste sul senso del teatro in piena pandemia nel 2020, ma ancora irrisolti ed attuali.
L’arte d’improvviso, almeno secondo me, non ha nulla a che vedere con l’astratto, ma si misura con la concretezza della materia, del contatto oggi precluso e quindi del corpo.
Il teatro quello vero si fa insieme, si fa in comunità. Si fa in tanti, si fa costituendo un mondo altrove attraverso la formazione sociale e umana di una famiglia altrove: la compagnia.
Il teatro moderno purtroppo, soprattutto quello finanziato dallo stato, nei circuiti ufficiali e non, sperimentali e di trincea, tralasciando quelli commerciali, è un fenomeno assolutamente e dannatamente borghese.
Del potere e la presenza borghese.
Un fenomeno unicamente partecipativo, che fonda l’individuo sociale, il quale attraverso l’illusione di partecipazione a eventi culturali, compie il suo passaporto e percorso ipocrita e iniziatico di uomo sociale, il quale ha il dovere di andare a teatro solo per compiere un dovere sociale e non per inseguire un piacere viscerale e primordiale. Esistere.
Non viene in sala per farsi emozionare e riflettere, ma unicamente per partecipare ad un evento senza alcuna partecipazione emotiva e rituale.
È quell’atto non necessario, ma comunitario, di cui il borghese ha bisogno per sentirsi parte eletta viva e culturale di una società. Non è un processo dettato dal vero fuoco della conoscenza, dell’assemblea della catarsi collettiva nell’aver fede in un aedo che canta e racconta l’incapacità dell’uomo di stare al mondo.
Un processo di frequentazione non partecipativo, senza la presenza di un corpo connesso, che determina un pubblico apparentemente partecipativo, ma poco interessato se non a morfeo e alla noia del suo passare il tempo.
Risultante è la percentuale altissima di persone che durante gli spettacoli ergono ad arto ed estensione corporale e schermo tra la catarsi e la scena, l’emozione e la poltrona, uno schermo cellulare dove e soprattutto mentre, in scena vi è qualcuno eletto dal proprio silenzio alla parola. Si è in un luogo, silenti e poco attenti, agendo il riflesso incondizionato, ma evidentissimo e tracciato di voler essere altrove.
L’altro tipo di riflessione va fatta sugli enti, pubblici e privati.
Cosa deve essere sostenuto dallo stato e non? Quesito che forse non avrà mai una risposta ma ho il dovere di porlo sia per me, che per il rispetto di questa possibilità di contraddittorio.
Che senso ha che lo stato sostenga “ministerialmente” un teatro commerciale che già di per sé ha introiti di consenso?
È l’annoso e irrisolvibile problema: come a chi spetta nell’intera struttura pubblica, il compito di decidere cosa è degno da sostenere in quanto arte e cosa non sostenere in quanto intrattenimento? Cosa e quale teatro è al servizio politico e morale nel suo essere amorale, della società e cosa è unicamente d’intrattenimento?
Ma dato che la politica invade e inquina con ignoranza e incapacità e corruzione entrambi gli ambiti vedremo sempre scelte artistiche pubbliche e a volte anche private, che non avranno alcuna ragione e alcun nesso e legame al valore artistico dell’opera. Tranne che raramente per alcuni e felici casi.
Qual è il teatro che va promosso dallo stato, qual è il teatro che non va promosso?
Io credo che l’iper produzione ministeriale e l’arroccamento di premi ormai settoriali e parziali, dove ogn’uno premia gli amici degli amici, non da possibilità alcuna ad un giovane (io sono salvo) di emergere con meritocrazia. Credo invece nel repertorio, non nel nuovo, quello è un’onnivora deriva consumista che ha travolto, teatri, intellettuali, artisti (pochi), attori e critici in modo irreversibile.
Il tuo fare artistico è dilatato. Sei irruento nel creare ma non compulsivo nel produrre. Pensi sia un limite, o è un lusso che puoi permetterti (forse anche grazie ad altri medium che ti affrancano dalle contingenze teatrali)?
Ogni limite penso sia prima un confine, dunque una immane forza. Io non credo nell’infinità, ma credo nello specificare oggettivare ed ampliare i propri confini con i propri mezzi. Non credo ovviamente nel teatro di regia critica che è stato ideato da Strehler e Ronconi e come mi disse personalmente quest’ultimo è morto con loro. Credo che il compito dei poeti sia evidenziare la storia per farla aderire alla memoria. Credo nei testi. Ma di Siae non si campa. Per finanziare Mimmo autore devo fare mille altri mestieri, seppur fortunatamente complementari e necessari alla sopravvivenza della figura del drammaturgo stesso: regista, attore, poeta, direttore artistico, consulente, attore di cinema, insegnante, docente.
Se questa condizione affligge il sottoscritto, non oso immaginare per un giovane che si appresta e affaccia al mondo della drammaturgia. In effetti scrivere ha bisogno di tempo e non credo affatto di essere irruente anzi, molto matematico. La parte del fuoco impulsiva è forse nella stesura delle poesie: almeno una ogni tre giorni che raccolgo, documento e metto in elenco; poi le interviste che sbobino a mano; raccolta e numerazione di detti, proverbi, storie e locuzioni; i temi; le letture; traduzione di libri sacri come bibbia e corano; tutto catalogato e numerato. Dopo anni di raccolta dei prodotti, procedo ma in modo ordinato e glaciale: sveglia alle otto del mattino, studio delle scene il giorno prima e costruzione della scena in versi costringendomi ad inserire (versi, poesie, locuzioni, passi della bibbia, temi, proverbi, storie) ciò che si è deciso, imponendo di attenermi a questa regola. Alle 16.00 mi alzo e verifico il blocco di versi scritti a penna. Elimino e cancello le cose usate. Giorno dopo si riparte daccapo. Sempre già immaginando la regia probabile e le immagini. Prevedere tutto senza lasciare nulla al caso. Un lavoro lungo ma che fa una grande differenza e che produttivamente rende molto di più delle economie spese per finanziare una compagnia di danza per due anni in cerca di idee drammaturgiche e sceniche. Io non ho mai avuto questa fortuna, ma la sfortuna inconscia di aver creato un privilegio. La libertà di immaginare da solo.