LEONARDO DELFANTI | Chiude il Festival non c’è differenza, organizzato dal Teatro Laboratorio di Verona per la direzione artistica di Isabella Caserta, uno spettacolo dal forte impatto sociale ed emotivo. L’ultima estate, Falcone e Borsellino 30 anni dopo, su testo di Claudio Fava, è infatti la storia non commemorativa dell’amicizia tra i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo spettacolo ha ottenuto premi e riconoscimenti, riassumibili nel privilegio di essere stato chiamato in Lussemburgo per essere rappresentato presso la Corte Europea di Giustizia.
L’opera, diretta da Chiara Callegari e interpretata magistralmente da Giovanni Santangelo, nei panni di Borsellino e Simone Luglio in quelli di Falcone, è capace di superare la mera celebrazione di due figure mitiche della recente storia nostrana per tramandarne piuttosto l’umanità. L’immagine è racchiusa nel dilemma ben rappresentato dalle parole dello stesso Borsellino, cosciente di esser ormai vicino alla morte: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”.
Per meglio comprendere uno spettacolo che non smette di smuovere coscienze dopo più di 100 repliche in tutta Italia, abbiamo intervistato attori e regista il giorno successivo alla loro data veronese lo scorso 21 maggio.
Che cosa è cambiato dagli attentati del ‘92 a oggi e qual è il senso di fare un altro spettacolo su quello che è stato l’11 settembre italiano?
C. Quando Simone mi ha proposto di fare la regia di questo spettacolo, la mia prima risposta è stata: ma perché dobbiamo rifare l’ennesimo spettacolo su Falcone e Borsellino?
Ci siamo detti era che c’era bisogno di un passaggio di testimone e che questo era possibile solo a patto di raccontarli in quanto uomini e non eroi su di un piedistallo. Ciò che li rende tali è il fatto che avessero paura e dubbi ma che nonostante tutto, da veri eroi, siano andati avanti.
L’altra cosa che ci interessava moltissimo era proprio indagare la relazione d’amicizia tra i due. Noi che non li abbiamo conosciuti di persona siamo dovuti partire dall’amicizia tra Simone e Giovanni. Siamo andati a vivere assieme, complice anche la chiusura dei teatri. Ci siamo ritirati in campagna e due colleghi sono diventati amici. Quello che si vede, in primis, è la loro relazione. E la cosa incredibile è che le persone che hanno conosciuto veramente Falcone e Borsellino, dalla figlia ai colleghi del pool, ci dicono che era veramente così.
Questo perché una relazione di amicizia per ognuno di noi è una relazione vera. Uno più entusiasta e protettivo, l’altro e l’altro molto più razionale, con più tentennamenti, perché quello che metteva in gioco era di più.
Che tipo di lavoro attoriale avete portato avanti nell’affrontare due figure che, anche per via delle numerose fiction e opere su di loro, sono ormai cristallizzate nella memoria collettiva italiana?
S. Parlare al pubblico oggi vuol dire prendersi la responsabilità di tradire. Che si tratti di Amleto o di eroi nazionali, i grandi classici sono tali perché sono stati precursori dei tempi. Falcone e Borsellino hanno parlato alle persone del loro tempo e metterli in scena in maniera “tradizionale”, come vorrebbero alcuni amatori, sarebbe in realtà in vero tradimento perché risulterebbero fuori dal tempo e non più avvicinabili.
In questo, la responsabilità è maggiore perché incontriamo persone che li hanno conosciuti, che li hanno amati e che per sempre lì avranno impressi nella loro memoria.
Questo approccio, in effetti, ha scatenato un dibattito molto vivo l’altra sera…
S. Noi non siamo sul palco per raccontare una storia teatrale, cioè una storia raccontata con il mezzo del teatro e ci dispiace quando le persone si presentano come a una celebrazione. Il ricordo di quella viene dopo, quello deve venire dentro di te, altrimenti ti perdi il racconto, che è la cosa più bella. Questo succede all’estero e con i ragazzi. Loro vengono ad ascoltare un racconto. E questo è bellissimo perché dove c’è da ridere ridono, dove c’è da stupirsi, fanno rumore. E quel rumore per noi è vita, perché sentiamo che è una cosa che non riescono a trattenere.
G. Certe volte l’applauso o la risata nervosa sono partiti proprio dai ragazzi, nel mezzo delle scene più drammatiche. Quella risata esprime l’imbarazzo di un’emozione forte come il pianto. Sentiamo tantissimo la comunicazione del pubblico e capiamo quando sono con noi o quando ci stanno solamente osservando.
Quando andiamo nelle scuole, poi, i ragazzi vengono preparati. Questo è merito degli insegnati. E con nostra graditissima sorpresa abbiamo visto studenti di nove o dieci anni preparatissimi. A Chivasso non solo ci interrompevano per raccontarci gli aneddoti, ma ci hanno anche chiesto come fare per diventare magistrati!
In questi dibattiti si nota il ritorno della passione civile, quella che passa dalla celebrazione a una prima forma di azione.
C. A noi questo piace e pensiamo ce ne sia bisogno. C’è bisogno di piangere e di arrabbiarsi per risvegliare le coscienze. Una cosa incredibile che succede con i giovani, quelli che non hanno vissuto direttamente i fatti, è che vengono a vedere uno spettacolo teatrale, e poi, quando si guardano attorno, vedono le facce dei loro genitori. E allora capiscono.
G. Ci fa piacere perché significa che non c’è distacco. Io, che al momento delle stragi avevo dodici anni, nemmeno sapevo chi fossero Falcone e Borsellino, ovviamente. In questi trent’anni ho approfondito le loro figure e la loro storia e mi sono accorto che più passa il tempo più vengono raccontati con l’aura degli eroi. Portarli invece sul piano umano e potentissimo perché questa è la sensazione che provo io da attore.
Il pubblico vede due uomini semplicissimi che stanno facendo il loro dovere: due persone che hanno fatto il loro lavoro nella paura, nell’allegria e nell’amarezza.
Da cosa siete partiti per ricreare questi due uomini così fortemente impressi nella vostra memoria?
C. Una cosa che abbiamo evitato di fare è stata quella di prendere le parti. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno è, all’interno dello spettacolo, così come nella storia. Ogni personaggio ha le proprie ragioni e ognuno crede fermamente di avere ragione e quindi è un conflitto tra persone che hanno perfettamente ragione, dal loro punto di vista ovviamente. Sarà poi il pubblico a decidere, basandosi sui fatti storici.
Per questo ci teniamo molto a terminare lo spettacolo con l’aggiornamento delle sentenze. Questo testo era stato scritto per il ventennale ed era aggiornato a oltre dieci anni fa. Con Claudio abbiamo deciso di riscriverlo fino alle più recenti vicende giudiziarie.
G. L’operazione di Fava in effetti è molto intelligente. Borsellino dice di aver scoperto che c’è una trattativa tra Stato e mafia. Alla luce di questo, riproponendo trent’anni dopo, è obbligatorio inserire che la sentenza del 23 settembre 2021 secondo cui la trattativa c’è stata ma non costituisce reato e che la Cassazione ha recentemente aggiornato assolvendo tutti perché il fatto non sussiste.
E allora qual è la ragione di fare questo spettacolo oggi?
G. Stranamente la cronaca attuale ci sta dando una fortissima motivazione per ritornare a parlarne, perché oggi stiamo rivivendo dei momenti accaduti negli anni ‘70 e’80: quei tempi lì sono attualissimi perché loro li avevano previsti. Falcone e Borsellino avevano previsto la dinamica del potere in Italia
L’ULTIMA ESTATE. Falcone e Borsellino 30 anni dopo
Di Claudio Fava
un progetto di Simone Luglio
regia di Chiara Callegari
con Simone Luglio e Giovanni Santangelo
voce fuori campo Luca Massaro
scene e costumi Simone Luglio
musiche originali di Salvo Seminatore
disegno luci di Massimo Galardini
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Chinnicchinnacchi Teatro e Collegamenti Festival
tournée all’estero in collaborazione con la Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Cultuale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale