GIANNA VALENTI | I danzatori “ripetono all’infinito gli stessi movimenti”, in un “accordo plastico, monotono, ostinato,” “disposti in colonne o in figure simmetriche, gli esecutori, uniformemente vestiti in marrone e bianco, si spostano per riprodurre il ritmo, attraverso un movimento simultaneo e identico, ossessivo” *— parole che nascono a Parigi, negli anni Venti, dalla penna di André Levinson, famoso critico di danza cresciuto in Russia nei templi del Balletto Imperiale e costretto a lasciare il suo Paese per ragioni politiche. Il suo sguardo, così radicato nella tradizione classica del balletto russo, è testimonianza dell’influenza della meccanizzazione sulla scena teatrale europea dopo la prima guerra mondiale. Levinson è ostinatamente contrario al sapore tecnologico dei corpi della danza nelle opere coreografiche di Vaslav Nijinsky, Le Sacre du Printemps del 1913, e della sorella Bronislava Nijinska, Les Noces del 1923, di cui ripudia il ritmo tagliente, incalzante, inumano, la disarticolazione fisica dei corpi e l’apparenza uniforme e massificata dei danzatori.
Quel ritmo ossessivo, ostinato e pressante è per lui la sola identità di Le Sacre, mentre i danzatori di Nijinsky non incarnano altro che il tempo, in un’ostinazione di puri contrasti dinamici, attraverso movimenti semplificati che seguono una linea temporale di continue accelerazioni e decelerazioni. Contrasti dinamici forti e improvvisi che permettono ai corpi di incarnare le modalità di movimento delle macchine della nuova tecnologia produttiva industriale, con ginocchia che si piegano e si raddrizzano, talloni che si sollevano e battono ricadendo al suolo; con movimenti rigidi, improvvisi e spezzati che disarticolano i corpi con ritmi monotoni, reiterati e percussivi. Eccoli i ritmi di Le Sacre du Printemps del 1913, su musica di Igor Stravinsky, nella versione ricostruita del 1987 di Millicent Hodson e Kenneth Archer per il Joffrey Ballet — parte 1 — parte 2 — parte 3 — per lasciarci semplicemente condurre dal ritmo insistente e ipnotico e dall’incalzante modulazione energetica ed esplosiva dei corpi dei danzatori.
Frasi di movimento uniformi, rigide, reiterate e sincronizzate che ripropongono ritmi insistenti ed esplosivi anche per il balletto Les Noces di Nijinska, dove la geometrizzazione e la frammentazione del corpo e l’uso ossessivo di una gestualità quotidiana comunicano, per Levinson, il gusto disumano proprio della modernità e i modelli di movimento degli ingranaggi meccanici.
Nijinska aveva voluto lavorare su una sintesi astratta del rituale russo del matrimonio, con un utilizzo di costumi essenziali e senza ornamenti, quasi delle uniformi. La sua coreografia — un impegno importante al femminile nella storia del balletto e del modernismo — fa un uso potente dei gruppi di danzatori, con costruzioni formali che appaiono, si disfano e confluiscono ininterrottamente una nell’altra, sul ritmo incalzante della musica di Stravisnky e sostenute dal ritmo percussivo dei corpi, con un footwork veloce e complesso e una gestualità essenziale, reiterata, forte e diretta.
La coreografa mantiene il lessico del balletto, ma lo altera completamente nel ritmo e negli accenti. I salti, come già in Le Sacre, si danno alla gravità e negano la qualità aerea del classicismo; l’apertura del corpo nella lateralità, l’en dehors, è cancellata per un’affermazione compatta e bidimensionale e una maggiore apparente quotidianità; l’uso delle punte è mantenuto, ma con un nuovo valore di durezza e asprezza che ne sfida ampiamente l’uso tradizionale e le trasforma in strumenti percussivi. Ed ecco la versione ricostruita di Les Noces danzata dal Mariinsky Ballet nel 2008: parte 1 — parte 2.
Nijinska si era trasferita da San Pietroburgo a Kiev nel 1919 e qui aveva aperto la sua Scuola di Movimento con un impegno didattico a incorporare nella danse d’école le innovazioni dei nuovi coreografi, come Fokine e Nijinsky, e della nuova danza dei seguaci di Duncan e Dalcroze. Il balletto, nella sua visione, andava mantenuto, ma doveva assorbire le forme proposte dagli artisti moderni e arrivare a comprendere e assimilare ciò che chiama movimento, quella forza organica capace di dare unità al transitare dei corpi da una posizione all’altra. Nijinska, a Kiev, frequentava con i suoi allievi danzatori lo studio dell’amica pittrice cubo-futurista Alexandra Exter, perché discutere di arte era una parte importante della sua proposta didattica. Il suo breve scritto On Movement and the School of Movement,** lascia trasparire che movimento è la continuità di incarnazione energetica e dinamica dei corpi in scena, per superare quello che per lei sono gli aspetti negativi del balletto, il semplice immettersi del corpo da una forma/posizione all’altra e l’uso della camminata “vuota”, non drammaturgicamente necessaria, e usata solo per trasferire il corpo in un punto della scena necessario a dare inizio a una frase danzata. E non manca tra le sue parole la metafora della macchina, alla quale riconosce una forma propria, con una qualità di movimento predeterminata.
Inaspettatamente, anche una modernista come Martha Graham, che abbiamo già citato nella puntata precedente per l’impulso a essere presenza psicologica e animica sulla scena, negli anni Trenta — anni per lei di grande vicinanza alle arti visive e di fascinazione formalista — afferma che “la macchina è un naturale fenomeno della vita” e quando parla di consapevolezza fisica come di una tensione di movimento continua, incontra Nijinska e la sua necessità di incarnare il movimento danzato con una continuità di sostegno energetico e ritmico. È interessante guardare uno dopo l’altro una parte di Les Noces di Nijinska del 1923 e di Chronicle della Graham del 1936 (di cui ho già parlato in Scatti Coreografici#5) e scivolare indietro nel tempo a una scena di Le Sacre di Nijinsky del 1913, per lasciarsi semplicemente trasportare dai ritmi percussivi, dalla bidimensionalità dei corpi, dalla gestualità reiterata, dalla modulazione non fluida ed esplosiva del flusso energetico, dalla linearità spezzata, dal rincorrersi delle formazioni geometriche e da vicinanze e assonanze che possono essere sorprendenti, pur nella diversità dei progetti.
La macchina e l’ingranaggio meccanico propongono a livello coreografico il movimento come reiterazione e declinazione di un tempo dato e velocizzato che solo a tratti può decelerare, per poi riprendere identico, sinché non viene spento; la macchina come forza dinamica che sottende alle forme della costruzione coreografica, come linfa vitale che crea continuità e unità percettiva; la macchina che propone movimenti forti, diretti e ripetuti, la cui potenza sta nell’affermazione di un’identità di movimento che si ripete inalterata e che trova nella ripetizione ossessiva la propria forza espressiva; la macchina che si estende nello spazio, creando concatenazioni di ingranaggi che si moltiplicano sulla scena in continui incroci di geometrizzazioni di corpi; la macchina che suggerisce ai corpi una frammentazione e separazione delle parti, creando linee spezzate e forme angolari. Corpi che danzano a cui è richiesto di incarnare tempi e ritmi che non hanno precedenti nella storia della danza teatrale occidentale — gli spasmi di Nijinsky, gli impulsi di Nijinska, la forza dinamica di Graham come condivisione di un unico respiro.
Che senso ha, mi chiedo, osservare il respiro della danza in Occidente nei primi decenni del Novecento? Ha forse il valore di un dialogo, di consegnarci dei codici drammaturgici e compositivi che, benché passati, potrebbero avere un ruolo nelle nostre creazioni contemporanee? Ha il valore di allenarci a osservare? Ha il valore di una nuova conoscenza, di un nuovo incontro? O la capacità di regalarci un’apertura, un’intuizione inaspettata? E se lasciamo il respiro di quei processi meccanici, eccoci nell’ultima parte del secolo, nella logica del frammento e del frammento di senso che contiene il tutto, nel mondo quantico dei processi coreografici non lineari, nella drammaturgia aperta, nella logica del senso che è movimento e spostamento continuo, come l’inarrestabile procedere delle particelle elementari, in un altro tipo di movimento rispetto all’inizio del Novecento. E ora cosa? Quali trasformazioni stiamo subendo di cui non riusciamo più nemmeno a tenere traccia, a trovare un senso, navigando nella molteplicità degli impulsi e delle conoscenze del nostro presente — il world wide web, i networks, i sistemi cloud, le nuove intelligenze non umane. È questo il respiro che stiamo condividendo? E come sta cambiando il corpo di chi danza e di chi guarda la danza? E oltre? Quale oltre? Già si parla di multidimensionalità, dello smaterializzarsi dei corpi o di nuovi DNA. E come saranno i corpi della danza che condivideranno questo respiro? E quali pratiche fisiche saranno necessarie per allenarsi a questo respiro? Domandiamo e ci domandiamo per continuare a viaggiare.
* André Levinson, André Levinson on Dance: Writings from Paris in the Twenties. Wesleyan University Press, 1991.
** Bronislava Nijinska, On Movement and the School of Movement. Valerie Preston-Dunlop, Schrifttanz: German Modern Dance Writings of the 1920’s and 1930’s. Dance Books, 1990.