RENZO FRANCABANDERA | È certo che Mario Perrotta non abbia mai scelto strade comode per i suoi allestimenti e, dopo una serie di spettacoli a più voci ispirati al tema della famiglia, torna al monologo in Come una specie di vertigine, interpretazione solitaria ispirata nella drammaturgia a una serie di letture e attraversamenti dell’opera di Italo Calvino.
L’operazione scenica inizia con una vera e propria trasformazione: parte Il mondo di Jimmy Fontana, una vecchia traccia super pop della fine del secolo scorso (che impressione fa dirlo), mentre vediamo in controluce un uomo seduto dentro una struttura di ferro; man mano che la luce lo illumina, si modifica il sembiante fisico di quest’uomo incastrato sulla pedana sormontata da una sedia girevole, che assomiglia quasi a quella di un dentista o di un barbiere vintage. L’attore emerge dal buio con una giacca di paillettes e si trasforma progressivamente in una persona affetta da disabilità motoria. Accenna movimenti spastici con il corpo, per poi liberare un’identità sciolta, libera da costrizioni.
Vediamo questa trasformazione lenta, ma progressiva e inesorabile, esattamente come la malattia che coinvolge e trafigge chi ne viene affetto. Si tratta di un percorso simile a quello del film Risvegli di Penny Marshall, in cui persone ammalate e immobili riprendono a vivere quasi normalmente. E così succede anche in questo caso, come nella sceneggiatura ispirata al celebre libro omonimo del neurologo Oliver Sacks.
Si tratterà di una parentesi, di qualcosa che accade, per poi far ripiombare l’esistenza dentro il buio inesorabile della malattia degenerativa. In questo spazio temporale, della durata di circa un’ora, il risveglio restituisce la parola, che torna sulla bocca di chi non l’ha potuta avere per anni.
Gli spettatori diventano dunque depositari di una sorta di confessione flash, un racconto che spazia fra l’onirico, il letterario e il reale, per impastare un amalgama drammaturgico che fonde, in particolare, due piani: il piano del malato e di una biografia del dolore, ambientata, per lo più, dentro la sua casa di ricovero, nel suo rapporto con gli altri individui, che in quello stesso luogo sono accolti, anche se a volte verrebbe da pensare quasi detenuti.
L’altro è un piano onirico-letterario in cui Perrotta prova a portare il racconto, le fantasie, fuori da questa gabbia strettissima e insormontabile dell’esistenza reclusa nello spazio di una stanza o poco più, e si affida a una reinterpretazione personale di alcune tematiche affrontate da Calvino in diversi suoi libri, per creare una sorta di vapore di pensiero, capace di non schiacciare le vicissitudini dentro il contingente, ma di prenderle a spunto per creare degli universali. Alcuni rimandi sono più diretti e precisi, altri si vanno puntualizzando nel rapporto delle repliche con il pubblico, che come sempre nelle recite restituisce un respiro capace di far comprendere l’adesione e la prossimità fra il respiro della platea e quello della scena.
Si alternano, così, anche due registri verbali: quello nella casa di ricovero con cui l’uomo descrive la sua vita, con cui si rivolge agli altri malati e con cui racconta la sua esistenza: un registro a volte finanche crudele, molto poco politically correct.
Qui Perrotta prosegue un suo personale percorso nel portare in scena quello che le persone pensano e non dicono, trasferendo sul palco il tema dell’indicibile. Si genera una cifra verbale caustica e urticante, aumentata dalla presenza di una figura femminile verso la quale si riversano forme strane di desiderio di questo uomo malato e immobile: una presenza di chiesa, una suora, suor Antica, un nome che sa quasi di testo manzoniano. Ma proprio come la monaca di Monza, il personaggio diventa entità carnalissima, oggetto della cupidigia di questi uomini, che non vedono altra presenza, altro corpo che possa diventare catalizzatore di desiderio, costretti come sono all’immobilità.
È come se, di colpo, si aprisse uno squarcio su un mondo indolente e di eterna pena, dove la privazione del desiderio, della dinamica sentimentale, ma anche di quella fisica del piacere, diventa emblema di una schiavitù, che la condanna della natura alla malattia costringe i malati a dover sopportare.
Queste vicende vengono rilette, poi, con un secondo registro, che si ricama dentro le suggestioni dell’opera dello scrittore italiano con cui l’opera teatrale è in qualche modo in dialogo, riferendosi a questa o quella forma di amore descritta da Calvino, a questo a quella forma di viaggio chissà dove nell’universo, al Barone Rampante, a Le Cosmicomiche o a La giornata d’uno scrutatore, libro quest’ultimo che ha ispirato la figura protagonista dello spettacolo, e presente in poche righe appena accennate.
La vita, alienata e mai comunicata e/o comunicante dell’individuo, diventa metafora esistenziale di quella parte che in ognuno di noi vive, ed è costretta a subire, a limitarsi, chiusa nel suo impossibile da dire, sanzionata dal pensiero sociale dominante.
Lo spettacolo di Perrotta affidato, come sempre, a una sua interpretazione generosa e naturalmente viva, ha la caratteristica di continuare nella ricerca sulla complessità della psiche umana, filone che l’artista di origini salentine e da molti anni ormai in Emilia, ha attraversato nell’ultimo quinquennio della sua Trilogia della famiglia.
Un filo che collega questo lavoro ai tre precedenti è forse il tema dei non detti: mentre le relazioni familiari sono tutte bloccate da cose non dette, ma che stanno dentro il cemento della struttura sociale, qui il non detto viene dall’impossibilità di una vera comunicazione, dal blocco che la malattia degenerativa impone a chi ne è vittima.
Un silenzio, una immobilità, un buio che a tratti sentiamo causticamente arrivarci addosso: immaginiamo il dolore di questa esistenza inchiodata al letto in attesa di qualcuno che arrivi ad asciugare il filo di bava che scorre al lato della bocca, a nutrire, a pulire.
Si è costretti a immaginarsi in quella condizione di assoluta dipendenza e fragilità, a immaginare cosa sarebbe di noi se anche noi fossimo così, se toccasse anche a noi. Si è costretti a immedesimarsi in quei pensieri che incorporano un desiderio di vita, ma anche un rancore per il destino immutabile, irreversibile, una drammatica cattiveria verso l’esistere. Sotto questo profilo lo spettacolo, nella sua sostanziale “scorrettezza poetica”, ha questa forza: ci lega alla barella e ci porta dentro una alienazione.
COME UNA SPECIE DI VERTIGINE
Il Nano, Calvino, la libertà
scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta
collaborazione alla regia Paola Roscioli
mashup e musiche originali Marco Mantovani / Mario Perrotta
produzione Permàr – Compagnia Mario Perrotta / ERT- Teatro Nazionale
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Comune di Medicina
in collaborazione con Teatro Asioli di Correggio, Duel