PAOLA ABENAVOLI | Il pubblico che diventa protagonista, coinvolto nello spettacolo, pur senza interagire con parole o azioni, ma vivendo da vicino la scena, entrando dentro essa, accanto agli attori: è quello che Ugo Ronfani definì “Teatro della persona”. È quel teatro, quella ricerca che ha caratterizzato gran parte del lavoro, della regia e della drammaturgia di Walter Manfrè. Un’innovazione che portò nel teatro italiano trent’anni fa: una rottura più profonda della quarta parete, dello spazio tra attore e spettatore, non solo di quello tra palco e platea, e in cui la tensione, l’energia che si crea tra pubblico e cast diviene l’elemento fondamentale, proprio grazie alla mancanza di un’azione da parte di chi assiste all’evento.
Ascoltare una “confessione” – come nel caso del più celebre tra gli spettacoli dell’autore e regista – con una recita per un singolo, che rende unica la performance stessa, o essere seduti attorno a un tavolo insieme ai protagonisti di una “battaglia” familiare, dà vita a una costruzione che, appunto, dall’energia, dagli sguardi, dalle reazioni degli spettatori trae linfa, si genera e si rigenera ogni volta.
Proprio La cena è uno degli spettacoli ripresi recentemente da Manfrè e che resta intatto, soprattutto nella forza dell’idea scenica, che poi crea e ricrea la drammaturgia. Perché è la tensione che nasce dalla forma del “Teatro della persona”, dal vivere senza filtri l’azione, a rendere un unicum ogni rappresentazione, a sviluppare l’energia scenica e, dunque, a influire, pur se non in modo diretto, nella stessa drammaturgia che prende forma su un palco insolito.
Gli spettatori, 29, vengono accompagnati al loro posto da un maggiordomo, davanti a un tavolo apparecchiato per una cena, in una stanza (o, come nel caso delle performance a Catonateatro, in uno spazio chiuso ricreato sul palcoscenico, quasi a voler sottolineare maggiormente questo incontro tra teatro e realtà). Qui è già seduto, a capotavola, un uomo che – si scoprirà subito – attende l’arrivo della figlia, che ritorna a casa dopo cinque anni, e del suo fidanzato.
Una lotta di nervi si svolge davanti agli occhi, anzi accanto al pubblico: tanti sono i sentimenti che traspaiono dagli sguardi degli spettatori, che si trovano a vivere da vicino quella storia. Sguardi a tratti ipnotizzati dalla forza scenica di Andrea Tidona, che domina non solo l’insolito “palco”, ma anche gli altri personaggi. È un gioco di forza, infatti, quello condotto dal protagonista, che tenta di provocare il genero, di sfidare la figlia, con la quale ha un rapporto da padre-padrone, un rapporto morboso non totalmente esplicitato.
Tanti sono i non detti su cui si fonda la storia, le vicende accennate, le domande che restano nell’aria: tutto serve a creare quella tensione che è il filo conduttore – come si diceva – di tutto. Una tensione costante – più che un racconto in crescendo – che si crea e che vive, appunto, dell’incontro ravvicinato tra attori e pubblico, e che è fulcro, al di là e oltre lo svelamento finale, dello spettacolo.
Indispensabile, perché tutto funzioni, perché questa tensione non scemi, è il talento degli interpreti: a partire da Tidona, per la padronanza della scena, l’uso della voce e dello sguardo; e poi Chiara Condrò, nei panni della figlia, Giulio Pampiglione, in quelli del maggiordomo, e, in particolare, Stefano Skalkotos, che, nel ruolo del genero, ingaggia una “battaglia scenica” con il suocero, non facile da sostenere, ma alla fine vinta, modulando toni, registri e intensità.
LA CENA
di Giuseppe Manfridi
progetto teatrale e regia Walter Manfrè
con Andrea Tidona, Chiara Condrò, Stefano Skalkotos, Giulio Pampiglione
20 luglio 2023 | Catonateatro, Reggio Calabria