RITA CIRRINCIONE | Seduta nello spazio antistante la Bottega 3 (una delle botteghe dell’ex mobilificio Ducrot ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo) insieme a una manciata di persone a formare un semicerchio, un mese fa circa ho assistito a Stralunato, ultimo spettacolo di Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi e della Compagnia di ragazzi con sindrome di Down, per loro semplicemente ragazzi Dada.
Ispirato alla figura di Don Chisciotte, la performance vede in scena il gruppo ormai consolidato di attori della compagnia con le loro poetiche incertezze e le sfrontate improvvisazioni, a cui si è aggiunto Camillo Palmeri – figura a sé stante più che ulteriore membro della compagnia – che in Stralunato incarna un essere un po’ folletto, un po’ deus ex machina, capace di attivare qua e là, in momenti topici della messinscena, piccoli inneschi trasformativi in perfetta sintonia con lo spirito dei Teatrialchemici.
Era stata questa la dimensione del lavoro in cui quasi per caso anni fa avevo conosciuto Ugo Giacomazzi e Luigi Di Ganci, in occasione di un incontro informale con la loro compagnia di ragazzi Dada e con le loro famiglie in una saletta della Fabbrica 102, bistrot e inusuale spazio di incontro.
Mi avevano colpito il loro modo rilassato e non giudicante, ma al tempo stesso attento e vigile, di gestire l’incontro e la libertà espressiva con cui i ragazzi si muovevano sotto lo sguardo indulgente dei loro maestri, fuori da atteggiamenti controllanti e toni paternalistici. Emergeva che quel clima apparentemente naturale era il frutto di un grande lavoro maieutico pregresso, il risultato di un metodo di lavoro che, andando oltre le innegabili difficoltà, vede nella disabilità quasi un’opportunità creativa, un’occasione di irriverente diversa espressività.
Solo dopo avevo scoperto che dietro e prima di questa attività sociale e pedagogica come educatori con bambini, persone disabili e detenuti, c’era da parte di entrambi una solida formazione e una notevole esperienza come attori, registi e drammaturghi: un diploma alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler per Giacomazzi e la sua collaborazione come attore con grandi nomi della scena nazionale come Giuseppe Patroni Griffi, Gabriele Lavia, Giorgio Albertazzi, Davide Enia, Emma Dante; una formazione presso la Scuola Natyadarmi di Sergio Rubino, con la Banda Teatrale Montevergini di Carlos Riboty e con il Theatés di Michele Perriera ed esperienze di teatro di ricerca con Claudio Collovà, Emma Dante, Davide Enia, Gaetano Colella, Gianfranco Berardi per Di Gangi, attivo anche come artista visivo.
Nel 2005 fondano la Compagnia Teatrialchemici con cui proseguono la loro esperienza di teatro sociale con ragazzi in situazione di disabilità, dando inizio a un’intensa attività sia nell’ambito del teatro di prosa – Desideranza, Ergo non sei, Il Grappolo – che dell’opera lirica di tradizione e contemporanea – Le maschere, Norma, Il Pirata, Pagliacci, Cavalleria Rusticana – in svariati teatri italiani ed europei (Opéra-théâtre de Saint-Étienne, Teatro Massimo di Palermo, Carlo Felice di Genova, Sferisterio di Macerata, Teatro Donizetti di Bergamo e Teatro del Maggio a Firenze).
Poco prima di Stralunato avevo assistito al Teatro Massimo di Palermo alla loro Norma – prodotta dallo stesso Teatro Massimo in collaborazione con Arena Sferisterio di Macerata – una suggestiva messinscena dell’opera di Vincenzo Bellini che, richiamando l’opprimente sistema basato sulla colpa e sulla punizione della tragedia euripidea, accosta la figura di Norma a quella di Medea.
A restituire simbolicamente la trama dei legami affettivi tra i personaggi e dei vincoli sociali e religiosi che li imprigionano – oltre che a disegnare con un potente impatto visivo la geometria dello spazio scenico – è un suggestivo intreccio di corde, stracci, fettucce e tralicci, che trae ispirazione dall’opera dell’artista sarda Maria Lai e, in particolare, dalla sua arte relazionale e dall’evento di comunità Legarsi alla montagna.
Queste visioni fatte a breve distanza di tempo davano un’immediata rappresentazione di due modi apparentemente molto distanti di fare teatro a partire dal luogo – da un lato lo spazio nudo, grezzo, povero della Bottega 3 dei Cantieri; dall’altro il Teatro Massimo, uno dei più grandi e sontuosi teatri d’opera d’Europa, il più grande d’Italia – eppure così in continuità e con tante affinità di fondo. Da qui l’idea di approfondire e di intervistarli.
Ci vediamo proprio alla Bottega 3, seduti nello spazio antistante: i 40 gradi di temperatura non ci consentono di stare all’interno, una sorta di stanzone senza finestre, né condizionatori, in questi giorni un vero forno.
Eccoci qua, nello stesso luogo dove ho visto il vostro ultimo spettacolo con i ragazzi Dada quando è nata l’idea di questa intervista. Mi viene subito di chiedervi: è da qui che parte tutto? È questa la base sicura del vostro fare teatro?
Il nostro vero teatro è costituito in realtà da tutti i luoghi che abbiamo attraversato e in cui abbiamo sostato. Siamo nati girovaghi ed essere nomadi era per noi quasi un manifesto. Ovunque andassimo eravamo costretti ad ascoltare il luogo per capire cosa fare e come. Dalla antica casa di Luigi a Polizzi Generosa alle cappelle del Nuovo Teatro Montevergini passando per garage, case di amici, palestre, campi da calcetto, strade di campagna e di città, l’ascolto del luogo è stato per noi uno dei doni che il Teatro ci potesse fare. Fino a quando due anni fa, durante una sonora litigata con l’allora assessore alle Culture di Palermo Adham Darauwsha, abbiamo letteralmente urlato che meritavamo uno spazio nostro per poter continuare la ricerca con i nostri ragazzi dada.
Noi rivendichiamo quell’urlo e adesso la Bottega è diventata un centro aggregativo di liberi pensatori dove, con i compagni attirati dalla bizzarra tipologia del nostro viaggio che unisce la botanica al teatro, sta nascendo l’ambizioso progetto di una Nova Schola, per chiunque voglia imparare a fare arte o mettere a disposizione le proprie conoscenze per gli altri. La vecchia scuola sta sguazzando nel suo fallimento fatto di separazioni, schemi, giudizi, decervellazioni a mitraglia, giochi di basso potere; noi stiamo sperimentando un luogo in cui gli unici motori sono il sapere e la passione di conoscere, le modalità per questo tipo di trasmissione sono le più varie e, grazie all’ascolto reciproco, si creano dal vivo.
Vedendovi in azione con i ragazzi Dada si capisce che non c’è retorica quando dite che sono i vostri maestri. Ci spiegate meglio il senso di questa affermazione, dal momento che non vi sono certo mancati i grandi maestri del teatro?
I grandi Maestri a un certo punto vanno “uccisi”, Strehler per uno o Perriera per l’altro, solo per citarne un paio, hanno costituito dei capisaldi che, per trovare una propria identità, abbiamo dovuto superare per forza. Teatrialchemici nasce dall’uccisione della figura del regista, uomini e donne ossessionati dal loro ego che snobbavano, quando non maltrattavano, gli attori, dopo aver loro succhiato anima e corpo, con in più l’inganno e l’ipocrisia di eterne dichiarazioni d’amore.
I ragazzi down ti portano fuori da questi pericolosi meccanismi che hanno rovinato generazioni intere di artisti; grazie a loro abbiamo disimparato, resettato e ricostruito una modalità di relazione umana e di formazione dell’attore. Sono gli unici Maestri che non si possono uccidere, dèi olimpici cui sacrificare il proprio ego e la propria vanagloria, guide di luoghi ineffabili ad alte temperature energetiche, reali, concreti e, allo stesso tempo, dadaisti e patafisici: un cocktail esplosivo di creatività. Come rinunciarvi?
Nel 2005 avete fondato la Compagnia Teatrialchemici. Alchimia è un termine ombrello ricorrente nella vostra storia artistica: riesce tuttora a comprendere la complessità, l’eterogeneità e il potere trasformativo del vostro teatro? Quando l’avete scelta, era messa nel conto anche una certa sfumatura di inganno e di falsificazione insita nella parola?
Certo che sì, il Teatro è prima di tutto inganno, ma un inganno concordato, ci si lascia prendere in giro consapevolmente, pur provando compassione per ciò che si vede. Senza la complicità tra attore e spettatore l’inganno diventa malafede. È quello che capita la maggior parte delle volte che metto piede in teatro: mi sento raggirato e derubato della mia onestà.
Alchimia significa in generale trasformazione; nella costruzione di uno spettacolo, nella creazione di una regia, la scrittura di un testo, fino alla direzione di attori o cantanti lirici, è necessario sentirsi in un laboratorio di Cagliostro con l’ambizione di trasformare il piombo in oro. Dove il piombo è la pagina bianca, il nulla, l’assenza di idee, il dovere, il caldo, la noia, la rabbia, l’accidia. Tutti ottimi ingredienti per cominciare una creazione.
Ci mettiamo in difficoltà per provocare scintille necessarie ad accendere il fuoco e poi sperimentiamo e inseriamo il nostro bagaglio di conoscenze in fieri ed elementi umani che andiamo di volta in volta incontrando. Ci piace e ci diverte pensare che Teatrialchemici sia una creatura in continua trasformazione, non ha padri, né padroni, è nata da relazioni e di relazioni si nutre. Se contassimo tutti gli artisti con cui in 18 anni abbiamo collaborato e le persone con cui ci siamo scambiati liquidi ed effluvi animici, potremmo riempire un teatro greco: la festa riuscirebbe benissimo per qualità, oltre che per quantità.
Il vostro lavoro teatrale si articola in almeno tre direzioni: il lavoro pedagogico e sociale, quello come registi di teatro d’opera e quello come attori e drammaturghi del vostro teatro di ricerca. Qual è la relazione dinamica tra queste tre forme? Cosa ciascuna di esse vi ha insegnato? Cosa avete potuto trasferire da un ambito all’altro?
In realtà, se cominci a sentire separazione tra le diverse cose che fai, iniziano le crepe. Il segreto sta nel respiro comune e nel pensare tutto come dei vasi comunicanti. Quando diciamo ai cantanti lirici che abbiamo imparato a fare opera grazie ai ragazzi down, all’inizio rimangono interdetti, ma poi capiscono cosa vogliamo dire e, anzi, si lasciano andare. In ogni caso in questa professione tutto fa brodo, e per un buon brodo bisogna mettere della buona carne di diverse qualità e delle spezie particolari, se ti ostini a far bollire solo pollo alla fine diventi un pollo. La metafora naif mi è simpatica perché porta in ambiti che risvegliano i cinque sensi, cosa che il teatro reclama il diritto di fare; la nostra ricerca è sinestetica, le parole assumono colori, i gesti sapori, e quando parlo di bollori mi riconnetto agli alambicchi dei maghi e ai tentativi riusciti e falliti di partorire una creatura.
Scrivere un testo non significa mettersi al computer e aspettare l’ispirazione, prima di mettere giù nero su bianco passiamo giorni in sala prova e attorno a un tavolino in Bottega, apparentemente a volte i discorsi che intavoliamo o le improvvisazioni che facciamo non hanno nulla a che vedere con il tema da trattare, ma a un certo punto ti rendi conto che stai già lavorando a tuo favore, stai indagando la materia. Questo accade appunto grazie all’istinto di sopravvivenza nello scegliere i propri compagni, come il nostro amico Camillo Palmeri, intellettuale, professore, archeologo, per cui ogni definizione sarebbe stretta e con cui ci tuffiamo nel mare magnum della ricerca.
Ci arriva come un fulmine una riflessione: pensare che il lavoro sociale sia quello con la diversa abilità porta del tutto fuori strada, i veri casi disperati si trovano nelle direzioni dei teatri stabili, nelle giurie dei premi, nelle colonne (ormai colonnine) dei giornali. Dovremmo fare laboratori tenuti da ragazzi down per tutte queste categorie, il teatro tornerebbe a essere ricco di senso, laddove l’unico senso ormai conclamato senza pudore è lo scambio tra produttori e i favori da chiedere e restituire. Un olezzo nauseabondo che impuzza l’Italia.
Anche solo considerando questi due ultimi spettacoli, pur nelle evidenti differenze, essi presentano certe analogie riguardanti, ad esempio, i materiali della messinscena. Si tratta, in entrambi i casi, di materiali dimessi, poveri, poco elaborati: l’intreccio/reticolo di corde e stracci, in Norma; le canne, le stoppie, i ciuffi di ampelodesma con cui sono stati realizzati Ronzinante e il mulino a vento, in Stralunato. Possiamo affermare che per voi la materia ha forte valenza drammaturgica oltre che simbolica e scenografica?
Il nostro teatro nasce dalla materia. La materia stessa, come tu hai notato giustamente, genera drammaturgia. A volte, gli oggetti sono dei doni trovati per caso; sempre più spesso, dopo la fine del nomadismo, gli oggetti che portiamo in bottega sono figli di un richiamo, li porti dentro e basta, non sai se e quando li utilizzerai, ma sai che devono abitare questo luogo. Chiunque entra alla Bottega 3 non sa come spiegarlo, ma percepisce l’armonia tra il luogo e le cose che lo fanno vivere. Ogni luogo ha un’anima e noi abbiamo voluto rispettare questo spazio senza violare la sua. Qui dentro per una nostra estetica che rispetta il rito arcaico del Teatro, entrano oggetti antichi e già ricchi di una propria storia o legati alla Natura.
Non per questo ci sentiamo vecchi, tutt’altro. La vera rivoluzione è portare in scena un canto straziante di Prefiche, non “allampare” gli spettatori con un video super tecnologico. Odiamo il cielo nuvoloso in video, il fuoco in video, preferiamo accendere una candela. La poesia ha diritto a dimorare nell’atto drammatico, ama essere svelata tra il rumore di foglie secche, sopra un cavallo dalla coda di ampelodesmo, ormai non ha altri spazi dove esprimersi, se la togli anche da lì, accendendo un ledwall in scena, stai contribuendo alla sua estinzione, e noi non vogliamo essere complici di questo omicidio.
Non viviamo in Texas – osiamo dire per fortuna! – ma in Sicilia, una terra in cui i contadini, i ferrai, i macellai fino agli inizi del Novecento organizzavano certamen di poesia improvvisata per tutta l’isola, gente “incolta” definita ignorante, che non sapendo né leggere, né scrivere, verseggiava in endecasillabi davanti a un pubblico che bramava ascoltare i loro versi. Siamo figli del mito che si è trasformato in racconto, dei cerchi di sedie delle nostre nonne che ci ammaliavano con storie fuori dalla porta di casa, “epopea del vicinato”, come la chiama Leonardo Sciascia. Perché non prendere acqua da questi pozzi ancora pieni? Il problema è che spesso non si sa dove siano o addirittura vengono insabbiati.
Nel panorama teatrale palermitano e nazionale rappresentate una certa anomalia, voi stessi non avete difficoltà a definirvi outsider, ma, passando in rassegna le vostre esperienze, spiccano anche grossi progetti e importanti realtà del panorama teatrale nazionale. Anche l’appartenenza a Genìa non vi colloca certo “out”, ma all’interno di una comunità artistica molto attiva della nostra città. Vi diverte stare dentro questo gioco di opposti?
Nel definirci outsider c’è un certo snobismo nei confronti del teatro istituzionale, che probabilmente deriva anche da un sentimento di esclusione. Quando abbiamo iniziato ci aspettavamo di essere riconosciuti da chi gestiva la cultura, adesso il sentimento di attesa non ci appartiene più e la Bottega è la concretizzazione di questo pensiero: siamo felici di andare al Massimo, ma rivendichiamo la nostra libertà di creazione, forse, così, rispondo anche alla tua domanda sul piccolo e sul grande, che si nutrono vicendevolmente. Il microcosmo non è meno importante del macrocosmo, la questione è sempre riferibile alla qualità e non alla quantità, e per esplorare il grande devi imparare a custodire e proteggere il piccolo.
Noi amiamo la nostra identità, ma ci piace anche mischiarci. Genìa nasce dall’idea di Sabino Civilleri che, sfidando i continui fallimenti di collaborazione tra le realtà artistiche palermitane, ci ha fatto ricredere fondando il festival Prima Onda che nasce dal confronto tra folli che, pur mantenendo, appunto, la propria identità, decidono di contaminarsi per evolversi. Non è semplice, ma il tentativo è lodevole di per sé.
Esprimendolo possibilmente con una sola parola, nella coppia artistica Di Gangi/Giacomazzi, cosa rappresenta l’altro per ciascuno di voi?
Luigi: l’altrametàdellamela (riferito a Ugo); Ugo: poetamagomonèllo (riferito a Luigi).