EDGARDO BELLINI | Più di una rassegna, meno di una kermesse; dove gli spazi sono luoghi e non location, e il fatto teatrale un rito collettivo, non un evento. Ideato e realizzato dalla compagnia cagliaritana Cada Die Teatro, il Festival dei Tacchi si svolge in una zona della Sardegna poco frequentata dal turismo di massa, dunque più verace: l’Ogliastra. Fra i vicini paesi di Jerzu e Ulàssai, dominati dalle magnifiche dolomiti sarde – i «tacchi» appunto – il festival propone in meno di una settimana un programma di notevole qualità teatrale, concentrato soprattutto sul teatro di parola e sul rapporto col territorio, la sua natura, i suoi manufatti. Proveremo a raccontare in poche righe questa ventiquattresima edizione – un festival longevo, guidato con cura e tenacia da Giancarlo Biffi – riportando i fatti e le impressioni salienti.
L’apertura è affidata a uno spettacolo intenso, con tre personaggi ed un solo attore; tre figure paterne diverse tra loro ed egualmente segnate da una drammatica distanza emotiva coi propri figli, incapaci di accostarsi anche solo con la parola alle fragilità di una generazione silenziosa e schiva. In nome del padre di Mario Perrotta mette in scena un disagio contemporaneo con acume critico e senza giudizio, limitandosi a tracciare con perizia – anche attoriale – tre possibilità del mancato incontro e lasciando allo spettatore la responsabilità della sintesi.
Nella stessa serata i Motus mettono in scena il loro ultimo lavoro Of the nightingale I envy the fate, una sorta di digressione visuale da Tutto brucia, loro precedente opera. Sulla pedana allestita per l’occasione Cassandra, una strepitosa Stefania Tansini, sospende il respiro del pubblico sin dal primo misterioso battito di ciglia, sfidando l’audacia della rappresentazione all’aperto – con un vento rigido e battente – e riempiendo di senso una drammaturgia scenica forse ancora in divenire. Il corpo dell’artista ora si slancia in figurazioni disumane, ora aderisce al ritmo di sonorità radioattive, restituendo l’impressione costante di un sublime congegno demoniaco: l’applauso del pubblico arriva sontuoso.
Bella e toccante la narrazione Stefano Panzeri, che racconta il dramma del genocidio armeno – ben poco conosciuto e persino innominabile ancor oggi in Turchia – nel controluce di una piccola vicenda personale. Garò. Una storia armena è un testo gentile, eseguito con colore e misura; per certi aspetti affine sin dalla forma del titolo a Giobbe. Storia di un uomo semplice – dal romanzo di Joseph Roth – narrato a sua volta con bravura da Roberto Anglisani, che si fonda invece sulla storia di una famiglia ebrea russa a cui la divina provvidenza dà e toglie senza apparente criterio, fino all’inaspettata agnizione finale. Entrambi gli attori governano sapientemente il filo emotivo delle loro narrazioni arrivando a commuovere buona parte degli spettatori.
Unico spettacolo al chiuso, in una sala che profuma di legno e di vino nelle cantine degli Antichi Poderi di Jerzu, è L’avvelenatrice, esilarante racconto di Éric Emmanuel Schmitt interpretato da una soave Maria Paiato. Capace di coloriture sopraffine l’attrice riesce a tradurre ogni sfumatura espressiva del testo in gesto attoriale, anche in virtù di un prodigioso controllo della voce. Nella Stazione dell’Arte di Ulàssai, che accoglie le opere di Maria Lai, va in scena a tarda sera Riva Luigi ’69-’70, il fortunato racconto di Alessandro Lay che celebra il ricordo di un personaggio fortemente legato al territorio; con un testo schietto, asciutto, antiretorico, l’attore tratteggia la vicenda personale del celebre calciatore – lombardo di nascita e cagliaritano per scelta – attraversando al tempo stesso la memoria collettiva oltre i margini dell’ambito sportivo.
Per chi scrive, la sorpresa del festival si chiama Roberto Mercadini, poliedrico solista della scena che presenta una lectio mirabilis su Leonardo e Michelangelo attingendo ad un’aneddotica, sconosciuta alla manualistica della scuola, che scorona i due mostri sacri del Rinascimento restituendone la dimensione umanissima e imperfetta, pur senza sminuire l’altezza vertiginosa della loro produzione artistica. Ma ancor più efficace è il monologo Noi siamo la terra, noi siamo il suolo, scritto con acume scientifico e stile teatrale – la potenza rivelatrice dei numeri, la forza poetica delle chiavi formali – ed interpretato con una grande libertà espressiva che a tratti ricorda il lucido cinismo di Daniele Luttazzi, a tratti l’ironia spiazzante di Giorgio Gaber.
Lo sfondo delle cisterne metalliche della cantina di Jerzu si colora a più riprese di tinte lunari o infernali durante lo spettacolo Shakespeare and me interpretato da Andrea Pennacchi col prezioso accompagnamento alla chitarra di Giorgio Gobbo. La potenza di questo lavoro è nell’attraversamento in vivo della lezione shakespeariana: una semplice vicenda personale che s’ingrandisce a poco a poco nella narrazione, diventando storia esemplare di un’epoca, breve affresco dell’adolescenza in una piccola città degli anni Ottanta. Pennacchi è magnetico sul palco, governa con abilità il ritmo della narrazione, ondeggia con sicurezza fra l’elegia e la risata.
Uno spazio del festival è dedicato ai bambini e ai ragazzi, coinvolti come spettatori ma anche come interpreti attivi di performance collettive. Il direttore Giancarlo Biffi racconta ai più piccoli un’avventura di Gufo Rosmarino, protagonista di una piccola saga di fiabe pedagogiche a sfondo ecologista. La collaborazione fra Cada Die Teatro e La Baracca Testoni Ragazzi di Bologna ha dato vita ad Atlantide, luogo-metafora della libertà e direzione utopica di due uomini in relazione poiché compartecipi della condizione di asservimento. E ancora, nel bosco di Sant’Antonio il collettivo giovanile dei Cuori di panna smontata sotto la guida di Bruno Cappagli mette in scena Mappe tattili, azione creativa sulle responsabilità dell’uomo dinanzi alla natura. Nel bosco si svolge anche il percorso sonoro Alberi maestri, di Campsirago Residenza, una camminata nel profondo della vegetazione che un testo in cuffia trasforma in un viaggio spirituale alla ricerca dell’invisibile e dell’inaudito.
Ancora legato al territorio è lo spettacolo La scelta di Cesare, narrazione a due voci di Tommaso Rotella e Patrizia Camadel sulla tragica vicenda di un giovane aviatore ulassese in epoca fascista. Alessandro Lay e Francesca Pani raccontano un’altra storia sarda, L’uomo che volle essere Peròn, vicenda dai tratti surreali accompagnata dai formidabili guizzi musicali di Gavino Murgia, struggente col sax soprano su un bordone elettronico, quasi fosse un canto a tenore, e ipnotico nel suo breve assolo vocale. Su di un palco che ha per sfondo le colline Enrico Messina mescola letteratura e invenzione comica rivisitando a suo modo il poema dell’Ariosto con Orlando. Furiosamente solo rotolando, un monologo brillante dai colori vivaci. Si chiude ridendo con la schietta comicità di Maria Cassi e Leonardo Brizzi nel duetto La solita zuppa, lui impassibile pianista ed efficace spalla, lei esuberante monologhista e istrionico “fool” dal ritmo travolgente.
La varietà dei lavori visti in questo festival costituisce senz’altro uno dei suoi punti di forza; ma ci piace segnalare il senso di puntigliosa indipendenza che la rassegna suggerisce allo spettatore, con scelte calibrate sul pubblico, che infatti affolla gli spettacoli, senza essere né troppo distante né troppo compiacente. Una politica saggia, che oltre ad affezionare le persone al teatro costruisce comunità e relazioni anche al di fuori della sfera degli “addetti ai lavori”. Un modello positivo su cui varrebbe la pena di spendere un’attenzione maggiore e qualche riflessione più approfondita.