GIANNA VALENTI | San Ginesio è un antico borgo marchigiano che per il Ginesio Fest, quest’anno dal 18 al 25 agosto, si fa teatro e territorio che sa accogliere e raccogliere azioni e relazioni di professionisti, di giovani amatori e pubblico, con spettacoli come momenti di confronto sulle forme del teatro, percorsi laboratoriali per bambini e adolescenti e progetti di residenze artistiche per giovani artisti: la centralità dei corpi del teatro e la loro forza comunicativa sono i valori da diffondere insieme al loro riconoscimento attraverso il premio San Ginesio “All’Arte dell’Attore”.
Incontro Leonardo Lidi, alla direzione del Festival per il secondo anno, per raccogliere un pensiero che non ha paura di interrogarsi e di interrogare forme e percorsi distanti dai propri e che sa agire il coraggio della vulnerabilità, perché “I festival — condivide Lidi con passione — non possono essere affermazioni, non possono essere stagioni. I festival sono un’occasione per raccoglierci e dibattere su come operiamo e dove stiamo andando, prendendoci i rischi di dialoghi capaci di sostituire il fare vetrina”.
Qual è stata l’urgenza o il desiderio che ti ha fatto accettare la direzione artistica di un progetto come Ginesio Fest?
Non vedevo l’ora che arrivasse una proposta simile e da qualche anno sentivo questo desiderio. Ero già stato direttore artistico dei Filodrammatici di Piacenza ed è un ruolo affine al mio carattere, alla mia formazione, al mio fare quotidiano: svegliarmi e andare a dormire pensando al teatro, impostare i miei viaggi all’estero in base agli spettacoli che voglio seguire e andare a teatro quasi tutte le sere, costruendomi così una mappatura molto precisa e un progetto che si sta progressivamente chiarendo; è una grande responsabilità ma le responsabilità mi piacciono.
Quanto c’è e cosa c’è del tuo fare teatro nel modo in cui guidi questa direzione artistica?
Non molto perché cerco di agire non attraverso il gusto ma tramite un pensiero politico e ogni anno cerco di darmi obiettivi diversi, allontanandomi da dinamiche che ho già percorso. Rimane costante la centralità dell’attore, come nelle mie regie e nel mio progetto didattico, la cura verso gli artisti e l’essere artista e il pensiero rivolto alle giovani generazioni, che è poi il motivo per cui ho accettato di essere coordinatore didattico alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. E qui ritorna un pensiero che mi sta a cuore e che ho già condiviso pubblicamente: l’esclusione dei giovani, degli under 40 e delle nuove generazioni come limite alla crescita teatrale italiana.
Quali sono i valori che hanno guidato il tuo sguardo per le scelte di quest’anno?
Quest’anno ho pensato di aggiungere un binario nella ricerca e nella scelta degli spettacoli: mentre l’anno scorso ho cercato spettacoli che mettessero al centro la forza interpretativa, espressiva e drammaturgica dell’attore, per l’edizione 23 il binario aggiunto è la maschera, perché volevo creare un’identità forte rispetto al borgo di San Ginesio, un santo rappresentato proprio con una maschera e poi che si toglie una maschera.
E centrale è la maschera intesa non come presenza fisica da indossare ma come tecnica di recitazione, ho così invitato spettacoli che ne fanno uso per rendere possibile un dibattito intorno al percorso di questa tecnica nella tradizione teatrale italiana.
Come spettatore internazionale di teatro mi rendo conto che continuiamo a vivere un’educazione teatrale che parte dalla maschera, mentre in altri Paesi questo non avviene e la recitazione può abitare contemporaneamente le forme del teatro, del cinema e della televisione. Non ha più senso diplomare classi di attori forti che però non sanno dialogare con il cinema o sapere che vengono scelti nei casting persone assolutamente prive di tecnica ma che offrono il vantaggio di una maggior credibilità per la mancanza di impostazioni. Nel teatro italiano, forti della nostra tradizione e della nostra maschera, ci siamo a un certo punto arrestati e non abbiamo accolto quelle modalità di didattica presenti invece a livello europeo.
Poi c’è la maschera contemporanea, con il dibattito costante sugli avatar che parlano con il nostro nome e con la nostra immagine e ci stanno educando a un imbruttimento e a un degrado del linguaggio della comunicazione e della relazione sui social. Per il teatro è importante riflettere su queste nuove realtà, perché indossare un visore come maschera, per andare altrove e per esprimere se stessi, crea una relazione di senso con la nostra tradizione della maschera teatrale e ci pone di fronte alla possibilità di incontri in un luogo che non è abitato da corpi e che diseduca ai tempi dell’incontro fisico.
Al Ginesio Fest ci sono molti testi e molti corpi che incarnano testi: ci regali una domanda, una parola guida o un senso per ogni spettacolo che hai scelto?
La Scimmia di Giuliana Musso è l’inizio e il pensiero primordiale; Esilio di Piccola Compagnia Dammacco è la scimmia che si trasforma attraverso l’anima, la persona che perde la propria maschera perché perde il lavoro. Mio Eroe, secondo spettacolo di Musso, è il dolore per la perdita di un figlio in un conflitto e la domanda politica sul senso di questa perdita. Anche per il secondo spettacolo di Dammacco, La Buona Educazione, sarà una perdita ad aprire domande sul prendersi cura di un altro essere vivente per poi perderlo.
Teatro dei Gordi, con Sulla morte senza esagerare, porta invece la scelta della maschera come forma e Roberto Latini, che per me è un nipote di quella Commedia dell’Arte che è ricerca di senso nella maschera italiana, qui porta Venere e Adone.
La Stanza di Asterlizze è il tassello di rischio, un esperimento interessante e in crescita che ci aiuta a porci domande sul visore come maschera.
Filippo Timi, con One Shot Show, è invece regista residente a cui ho dato carta bianca e una presenza artistica che attraversa le forme dal teatro, del cinema e della televisione — una centralità di pensiero che condivido con il resto della struttura direttiva e con il premio San Ginesio “All’Arte dell’Attore”.
Ginesio Fest non è solo spettacolo, ma anche percorsi didattici per diverse fasce d’età e per giovani professionisti: quale tessuto di relazioni e trasformazioni desideri attivare con questa visione?
Includere non è una priorità teorica ma pratica; era importante avere laboratori per bambini, per adolescenti, per neodiplomati come per ragazzi in formazione. Ho lasciato la parte infanzia e adolescenza a Vera Vaiano, un’artista che conosce bene le dinamiche del territorio; ho chiesto poi ai miei ragazzi della Scuola dello Stabile di Torino di tornare per questo secondo appuntamento che si sta consolidando, non come semplice percorso didattico ma come riflessione rispetto alla forma.
La mia richiesta recitativa è infatti di togliere qualsiasi tipo di maschera e di esternare secondo la loro esperienza, la loro storia e il loro incontro con il testo ed è interessante che la persona che li invita a togliersi la maschera tutti i giorni, li inviti anche a un festival sotto il nome della maschera: se non si comprende qualcosa, per me è il momento di incontrarla e di studiarla e la maschera è una domanda personale che avevo necessità di condividere.
Quindi anche in una posizione di leadership, nel tuo essere regista, pedagogo, direttore artistico, la vulnerabilità ha un valore.
Passa dalla sensibilità, dall’esposizione e dalla sincerità. Il processo di lavoro, sia come attore che come regista, è di vulnerabilità e spesso lo si nasconde per paura di essere scoperti o di non lavorare, mettendosi una maschera di forza nelle relazioni di lavoro e non condividendo ciò di cui si ha bisogno. Ho fatto la mia prima regia a 17 anni e la mia prima regia prodotta da un Nazionale a 26 e mi sono educato ad affrontare ciò che era più grande di me.
La pedagogia teatrale si sta trasformando e si trasformerà ancora nei prossimi anni. Cosa possiamo salvare delle pratiche del Novecento?
Io salvo la centralità dell’artista attore e la sua libertà nel movimento attraverso la tecnica, recuperando la gioia nel lavoro e il divertimento che il precariato e le politiche culturali hanno messo in secondo piano, prediligendo la forza di un progetto, di una regia, dell’immagine o della vendita di un pacchetto. Non ci manca invece una scala gerarchica nel lavoro teatrale, dove il regista può permettersi di trattare l’attore in modo volgare — ogni scala è fuori tempo: regia, scrittura e recitazione stanno con parità sulla stessa linea.
Il senso del collettivo come guida alle azioni personali, puoi elaborare il concetto di questa visione che ti sta a cuore?
Penso sia anacronistico mettersi nell’io, ma al tempo stesso bisogna mettersi al centro per smuovere la realtà e quando si arriva al centro è importante non escludere chi lavora con te, così da dare una dimensione collettiva alle tue azioni artistiche e politiche.
Il talento più grande che ti riconosci?
Dirigere l’attore con facilità. Mi è sempre stato facile dirigere gli attori: dirigere con sincerità, sensibilità, empatia e pensiero.
San Ginesio – MC
18-25 agosto 2023