RENZO FRANCABANDERA | Andato in scena al teatro negli spazi di Parco Albanese a Mestre, Split è stato il secondo appuntamento a Biennale Danza 2023 con la coreografa australiana Lucy Guerin.
Dopo la formazione a New York, dalla seconda metà degli anni Ottanta, la coreografa ha avviato un percorso creativo con la compagnia omonima fondata a Melbourne nel 2002 e Mc Ewan l’ha scelta con ben due creazioni in questa edizione.
Split è una coreografia del 2017, affidata qui nell’interpretazione a Ashley McLellan e Lilian Steiner, e che oscilla tra due corpi su un palcoscenico spoglio, dove lo spazio progressivamente si riduce, creando un rapporto fra di essi ora di conflitto e ora di competizione, ora di fusione, ora di repulsione.
Lo spettacolo è stato stato senza dubbio una delle creazioni più interessanti e coinvolgenti fra quelle viste in questa edizione della rassegna veneziana.
In scena nello spazio buio accedono allo spazio scenico le due danzatrici: la prima è vestita con un lungo e semplice abito azzurro, la seconda è completamente nuda.
La luce è fioca, le due si muovono dentro un ampio rettangolo con un perimetro segnato dal nastro carta che prende quasi tutta la scena.
Eseguono migliaia di vorticosi microgesti in movimento sincronico, utilizzando tutto lo spazio disponibile. Ora stando ferme sul posto, e con un focus motorio sulle braccia, ora muovendosi in circolo dentro lo spazio delimitato.
L’occhio dello spettatore segue questo vortice di gesti simbiotici, cercando di cogliere eventuali piccole differenze, cedimenti, ma non succede: le due donne continuano in una specularità gestuale davvero sconvolgente per precisione e attenzione l’una all’altra, pur senza guardarsi mai in nessun modo.
Arrivano, come ovvio, momenti di rottura dello spasmo congiunto, arriva il momento in cui sembrano prendere strade differenti, ma è solo per poco, perché poi le due tornano alla danza unitaria, che ha dentro tracce di movimenti rituali e ancestrali che arrivano in modo molto pulito e diretto al pubblico in sala.
La musica non è una composizione sonora vera e propria con una base melodica, ma una traccia ritmica piuttosto semplice e di suoni e ritmi anch’essi ancestrali, di tamburi bassi in una rilettura elettronica, dal ritmo incalzante, che sembra raggiungere un apice per poi invece riprendere dall’inizio in una sorta di eterno loop inarrestabile.
Dopo oltre 20 minuti di questo esercizio coreografico, si giunge a quella che sembra la fine di qualcosa, ma che in realtà è l’inizio vero e proprio del concetto alla base della azione performativa.
Accade che le due, dopo aver asciugato il sudore, prendono il nastro carta e dividono il rettangolo originario in due parti uguali: da questo momento in avanti l’azione coreografica si svolgerà dentro solo uno dei due rettangoli, mentre dal punto di vista della drammaturgia di scena il rapporto di gesti e azioni, fino a quel momento equilibrato e paritario, si sbilancia verso il racconto di un rapporto squilibrato e di dominanza di una figura sull’altra, in cui esistono posture e espressioni di soggezione, con un accenno ad una narrazione visiva che cambia i connotati concettuali della coreografia.
Tutto dura ancora una decina di minuti per poi arrivare ad una nuova suddivisione dello spazio rettangolare, quasi alla ricerca di una sezione aurea della scena.
Ancora una volta le due danzatrici riprenderanno lo spettacolo, tornando a danzare solo in uno dei due rettangoli più piccoli ricavati, e anche in questo caso passeranno alcuni minuti prima che nuovamente si fermino per ridelimitare lo spazio agito, che si va via via rimpicciolendo, fino ad accogliere poco più che i loro corpi, mentre la musica continua a incalzare inesorabile e ritmata.
Il gioco di sezionamento, delimitazione, riduzione e costruzione dello spazio e dei movimenti continua ancora e ancora, fino a quando non viene segnato uno spazio minuscolo, angusto, di pochi centimetri in cui a malapena è possibile che stiano i piedi di una sola di loro.
Fra segni di rinascita e morte, di costruzione e distruzione, di soggezione e dominanza, la creazione ambisce a passare da una serie di gesti totalmente condivisi e formali, iscritti dentro una danza a tratti quasi tradizionale, a una vicenda di descrizione dei rapporti umani, nell’interessenza delle coabitazioni, possibili o impossibili, di cui siamo interpreti quotidianamente.
In questo passaggio, in cui un certo spazio viene ceduto anche alla recitazione, seppur minimale, seppur limitata a poche espressioni del volto e a pochi gesti, lo spettacolo forse perde un po’ in astrazione; ma senza dubbio guadagna in una possibile lettura, non indispensabile certamente, ma che arricchisce la seconda parte, resa comunque viva, e in qualche forma indimenticabile, da questa continua autocostrizione.
Ci si chiede ad ogni risegmentazione fino a che punto sia possibile portarla avanti, mantenendo intatto in qualche modo lo spazio della danza.
Ecco, forse alla fine la domanda è proprio questa: fino a quale punto è possibile per l’essere umano, pur nella costrizione della vita e dei rapporti sociali, continuare a praticare l’arte come segno di identità e liberazione.
Una visione notevole.
SPLIT
Anno/Durata: 2017, 45’ (prima italiana)
Coreografia: Lucy Guerin
Danzatori: Ashley McLellan, Lilian Steiner
Danzatori della prima assoluta: Melanie Lane, Lilian Steiner
Composition: Scanner
Sound design: Robin Fox
Luci: Paul Lim
Produttrice della prima assoluta: Annette Vieusseux
Produzione esecutiva: Brendan O’Connell
Una produzione di: Lucy Guerin Inc
In collaborazione con: Settore Cultura, Teatro del Parco Comune di Venezia