RENZO FRANCABANDERA | Si svolge questa settimana, a Bologna, la ventisettesima edizione di Danza Urbana, un festival con una lunga pratica culturale sul territorio, che presenta i più noti esponenti della nuova danza d’autore, sia italiani che stranieri, in ambienti urbani, spesso in spazi all’aperto. L’obiettivo è quello di conferire un nuovo significato, attraverso l’intervento creativo degli artisti, a questi contesti urbani, pratica oggi diventata comune ma che trent’anni fa circa, quando il festival è nato, era assolutamente pionieristica.
Il festival ha avuto questa cifra di sperimentazione fin dagli esordi, con un approccio specifico al dialogo coreografico creativo e aperto. L’idea era quella di portare la danza non solo nei centri storici e nei luoghi d’arte, ma anche nelle aree metropolitane e nelle periferie, spesso trascurate, al fine di offrire una prospettiva diversa, anche a coloro che conoscono bene queste zone, perchè le abitano.
Tutto questo è stato possibile grazie all’iniziativa di Massimo Carosi e Luca Nava, il Direttore Artistico e il Direttore Organizzativo del festival, insieme a un gruppo di studenti del corso di Storia della Danza al DAMS di Bologna, guidato da Eugenia Casini Ropa.
Danza Urbana è stato il primo festival in Italia a concentrarsi sul rapporto tra danza e spazio urbano, rappresentando l’apice del lavoro svolto durante l’anno dall’Associazione Danza Urbana su due fronti principali: la promozione e il supporto agli artisti e la riqualificazione degli spazi urbani. L’obiettivo è stato quello di mettere in dialogo i luoghi con il pensiero dei cittadini, in particolare nell’ambito del tema dell’abitare. La danza funge da strumento per trasformare e rivitalizzare questi luoghi, promuovendo il dialogo tra diverse generazioni, sia tra il pubblico che tra gli artisti coinvolti.
Ne abbiamo parlato con Massimo Carosi.
Che edizione è per Danza Urbana quella di quest’anno? Quali scelte di direzione avete preso?
Il Festival anche quest’anno si articola in una programmazione diffusa nella città, con creazioni che coinvolgono oltre una decina di luoghi, dal centro alla periferia, da siti storico–artistico–monumentali a aree abbandonate o di rigenerazione urbana. Questo attraversamento dei luoghi è accompagnato dal tentativo di sottrarsi alla dittatura del tempo cronologico e quotidiano, immergendoci in un “tempo altro”. Gli eventi performativi non sono proposti per la loro univoca derivazione estetica o poetica, ma – al contrario – per la diversità di approcci che sviluppano con il contesto, per la capacità di generare un’increspatura nella linea del tempo offrendo nelle sue pieghe il dispiegarsi di esperienze soggettive o condivise.
Il tempo della condivisione e della cura traspare in diverse opere in programma, così come una riflessione sulle potenzialità dell’arte, ed in particolare della danza, nel contribuire a rigenerare i contesti sociali, là dove gli interventi urbanistici non possono costituire da soli il fattore di rigenerazione. Il Festival intende quindi offrire delle esperienze che amplifichino la nostra percezione sul presente, sul dato di realtà, sulla nostra condizione di cittadini.
Lo spazio urbano è ancora il luogo delle contraddizioni in cui far esplodere i cortocircuiti dei corpi danzanti?
I corpi performanti nello spazio pubblico, e più in generale negli spazi urbani, sono un modo per far esplodere le contraddizioni con il dato di realtà, con il presente. La danza urbana ci consente di immergerci nei contesti con una percezione, un punto di esperienza differente. Ci sottrae alla consuetudinarietà, agli schemi abituali di fruizione e relazione con la città, con i contesti della nostra quotidianità. Ci rende, forse, consapevoli della potenzialità sovversiva dei nostri corpi che performano ogni giorno lo spazio pubblico e la città.
Il Festival per esempio con Porpora che cammina ci invita ad attraversare e a scoprire attraverso una camminata una Bologna fuori dall’ordinario, con Body Farm offre un esperimento percettivo capace di interrogarci sull’evento performativo, o ancora con Eternal di Bassam Aboud Diab trasforma in danza i gesti e i canti della protesta delle primavere arabe.
Esiste un filo che lega il vostro percorso di pratica artistica sulla città? Se vi guardate indietro quale strada è stata tracciata?
Danza Urbana ha scelto una linea che ha perseguito tenacemente in tutti questi anni. L’esperienza maturata nelle ventisei edizioni precedenti ha permesso di renderci maggiormente consapevoli delle implicazioni della scelta fatta alle origini del Festival.
Lavorare esclusivamente nel paesaggio e negli spazi pubblici è un cambio di paradigma. Pone gli artisti a confronto con il dato di realtà, con i contesti. Mette i cittadini di fronte a forme e linguaggi del corpo che si sottraggono a modelli funzionalistici di fruizione dello spazio pubblico, alla relazione con gli altri e con i contesti.
Il Festival diventa un modo di interrogarci sulla nostra condizione di cittadini attraverso la scoperta di prospettive insolite e nuove sul nostro contesto, nella capacità di proiettarci, anche solo per un momento, in esperienze del presente fuori dagli schemi di consumo, transito e divertimento su cui si struttura il sistema città.
Allo stesso tempo, l’esperienza maturata è messa a disposizione dei giovani curatori e artisti attraverso numerosi progetti di formazione e tutoraggio, anche in collaborazione con il corso di laurea magistrale di Musica e Teatro dell’Università di Bologna.
Credo che Danza Urbana abbia saputo dare impulso alla danza in contesto, alla danza nel paesaggio non solo a Bologna, ma in Italia. Parole come territori, comunità, paesaggio, spazio pubblico, site-specific sono diventate di largo utilizzo nelle arti performative e indicano una tendenza sempre più forte di una danza che si fa sempre più generatrice di esperienze e sempre meno produttrice di rappresentazioni.