RENZO FRANCABANDERA | Si è nutrito di potenti suggestioni poetiche ma anche filosofiche l’edizione 2023 di Oriente Occidente, il festival che ogni anno a Settembre porta a Rovereto, in Trentino, il meglio della danza italiana e mondiale. Intitolata quest’anno It’s time, it’s time, it’s time, la rassegna ha ospitato quasi 40 eventi in otto giorni tra spettacoli e conferenze per 211 artisti e artiste coinvolte da 16 diverse nazioni. A dirigerle il tutto da anni la carismatica figura di Lanfranco Cis supportato da un team molto giovane e da anni orientato a creare un ponte con le giovani generazioni, vocazionalmente scelte per esprimere gli artisti associati, che in questa edizione sono stati Nicola Galli e Panzetti e Ticconi.
Abbiamo preso parte al primo dei due weekend del festival, ricco di eventi e spettacoli che hanno posto in forma ampia interrogativi non solo sul codice, ma sull’etica e l’estetica di questo tempo del genere umano, come il titolo richiama, fra utopia e distonia. Chiamarla distopia, d’altronde, ormai non è nemmeno più il caso, perché molti scenari purtroppo sono diventati presenti, quasi concreti.
La fantascienza noir à-la Black Mirror che ha alimentato le suggestioni negli ultimi decenni, da Blade Runner in avanti, è ormai in certa parte realtà.
Il mondo desertificato all’interno del quale la figura umana appare piccola, fragile, nera, che si muove in un controluce di totem che rimandano a Stanley Kubrick e al suo monolite è quanto anima la scena di Ultra, di Nicola Galli, che si ambienta dentro un mondo buio, illuminato da forme simil-monolitiche che rimandano a paesaggi urbani, grattacieli in miniatura alzati al cielo, illuminati ma di piccola stazza, fra i quali si muovono il coreografo e l’altro danzatore che con lui abita all’istallazione, Massimo Monticelli. Il lavoro fa parte di un corpus di opere che si ricollega a suggestioni astrali già stilizzate in Jupiter and Beyond, Venus e Mars.
Qui però l’umanità fragile sembra tornata a livello troglodita, striscia dentro un universo del sottosuolo, ritorna a una fase quasi del tutto non verbale e a movimenti che è difficile stabilire quanto abbiano a che fare con l’umano, e quanto ancor più con l’animale.
Il lavoro mantiene ampia suggestione visiva e un ritmo scandito da un gioco luci che si irradia sia dalle strutture dei piccoli parallelepipedi che da due parentesi graffe giganti a fondo scena, che sembrano quasi lasciare uno spazio vuoto all’esistenza.
La musica è tutta fatta di suoni elettronici industriali che creano un cupo rimbombo e che confliggono con gli ultimi 30 secondi di spettacolo in cui i due si portano in proscenio e vengono illuminati da una fiochissima luce di tono più caldo, che dà una parvenza di calore all’esistenza, mentre i suoni si mutano, appunto dall’apocalittico e al naturale, con cinguettii di uccelli mescolati al frinire di cicale. Un cenno di speranza esile ma al quale ci si deve aggrappare.
La costruzione ha sicuramente momenti suggestivi, come pure alcune lentezze e insistenze nel gioco luci che non si fanno portatrici di specifico aggiungere senso.
Dentro un mondo futuro prossimo, abitato da androidi dal sembiante umano, un po’ tutti uguali, vestiti come Mario del videogioco Mario bros, affannati dentro laboratori a creare e ricreare come formiche suoni musiche e arte, è ambientato anche Firmamento di Marcos Morau, una delle nuove stelle della coreografia mondiale con la sua compagnia La Veronal, e anni addietro anche artista associato di Rovereto.
Firmamento è un lavoro molto denso, eccezionalmente interpretato da un gruppo di danzatori performer dalle qualità artistiche onestamente indiscutibili e che porta il pubblico alla standing ovation a fine spettacolo: gioca su un’azione danzata a ritmi forsennati, frenetici, in cui i movimenti dei protagonisti sono tutti sincopati, robotici, da continua break dance, in cui si riconosce chiaramente lo scenario androide.
Al centro della scena c’è un grande tavolo composto da strumenti elettronici utili a creare il suono: mixer, equalizzatore, strumenti digitali di ogni sorta ma anche strumenti normali, una grancassa, una fisarmonica suonata da un fisarmonicista anche lui un po’ clown Mario Bros.
Lo spettacolo inizia proprio con queste figure che dentro un ambiente laboratoriale oscuro si affannano a creare loop musicali, frasi sonore dentro un sotterraneo transumano. Gli eventi che connotano lo spettacolo hanno cifra surreale: sebbene nella coreografia contemporanea una vicenda drammaturgica è difficile che si compia nella sua interezza, qui assistiamo comunque un rapporto di coabitazione e coesistenza di esseri (ex umani? Mai umani? Disumani?) che però dell’umano mantengono il sembiante e anche la buffa caratteristica di combinare guai e pasticci.
La scena viene illuminata da lampade da tavolo, grandi gru sorveglianti insieme allo schermo fondale che di tanto in tanto si illumina in stile Grande fratello, a vigilare su queste formichine intente a produrre non si capisce cosa, se non appunto arte; e in questo potrebbe appunto esserci una lettura dell’universo dell’arte schiacciato dall’affanno del correre a produrre, anche in quel caso non si capisce cosa e per chi.
Un mondo di burattini etero diretti o comunque organizzati dentro un sistema in cui evidentemente, seppure in modo disordinato, sanno cosa fare: sono operai, hanno la tuta da lavoro, il berrettino, e anche se non è rosso come quello del personaggio dei videogames, sono tutti cloni.
A creare una sorta di nucleo drammaturgico ma anche a ribadire una presenza disumana arrivano poi alcune figure puppet, mosse invero in maniera incredibilmente abile dai peformer stessi, e che raccontano di un viaggio nelle profondità siderali, dalle quali gli affanni dell’umano esistere, sono granelli insignificanti, mentre la presenza di universi e multiversi ci lascia nella sorpresa di capire se davvero esistiamo e in quale progetto, di quale mente. Fra Truman Show e Matrix si tratta ovviamente di formulazioni di pensiero che ormai la creatività cinematografica mastica da decenni e che negli ultimi anni sta nutrendo anche lo spettacolo dal vivo, man mano che le dotazioni tecnologiche permettono anche di realizzare in presa diretta o comunque con mezzi e strumenti suggestivi, spazi di una qualche colossale vigoria scenica.
Come in Blade Runner, anche questo spettacolo si conclude con una sorta di: “ho visto cose che voi umani…” Con la aggiunta qui dell’intelligenza artificiale che perturba e scuote le intelligenze in modo tangibile. Ci sono anche momenti in cui il segno diventa grafico, a dare manifesta esemplificazione del mondo nel mondo nel mondo nel mondo, un po’ come il teatro nel teatro che infatti vediamo rappresentato in scena, perché noi guardiamo lo spettacolo e dentro lo spettacolo c’è uno di questi replicanti che guarda una scatola all’interno della quale avvengono scene che continuano a raccontare un mondo visto da un altro mondo eccetera. Anche la sequenza disegnata si muove nella medesima direzione creando micro mondi che vengono visti in espansione progressiva, zoom escheriani in cui i confini fra uno e l’altro si perdono. Tantissimi stimoli, troppi a tratti, ma la capacità compositiva di Morau suggestiona per intensità dell’azione e abilità di portare dentro fantasie sempre diverse, inscatolate in una sequenza inarrestabile.