ELENA SCOLARI | La panchina è un oggetto perfetto per creare una situazione teatrale: un personaggio si siede, un secondo si siede accanto, entrambi guardano avanti, verso la platea; sono generalmente in un parco, magari uno legge il giornale, l’altro estrae il lavoro a maglia dalla borsa. Cercano un modo per far passare il tempo, osservano gli altri passare e andare verso mete ignote mentre loro hanno sospeso per un po’ il loro moto.
La panchina è un invito alla conversazione, al contatto: si attacca bottone, su una panchina; ci si innamora e ci si lascia. Spesso a Central Park. Si parla, dalle sciocchezze alle notizie di attualità, dal clima alle confidenze/confessioni fino – talvolta – a riflessioni profonde, giacché non guardarsi in faccia e guardare invece avanti, verso l’orizzonte, facilita il pensiero e il distacco.
Su una panchina, soprattutto – e in teatro specialmente – si aspetta.
L’attesa per eccellenza è quella di Vladimiro ed Estragone ma aspettano e osservano passare la loro vita anche i personaggi del Gabbiano di Čecov mentre guardano il lago, così come i giocatori in panchina aspettano di entrare in campo e i passeggeri di un autobus attendono di salirci sopra. La panchina è attesa. Mentre lei sta lì, ferma, accoglie il tempo degli altri, non avendo una misura del proprio, se non per una doga che si imbarca o un bullone che si arrugginisce per la tanta pioggia sopportata.
Nella sala Bausch del Teatro Elfo Puccini, nella penultima serata di Hystrio Festival, Nicola Lorusso e Giulio Macrì aspettano il loro destino su una panchina bianca. Memori, spettacolo vincitore del Bando CURA, Indòmati Fest e Radici Festival 2022 vede due uomini vestiti di nero, giacca maglietta pantaloni e scarpe (ah, le scarpe in scena! Che bellezza), con la faccia bianca di biacca e piccoli segni neri clowneschi, una simil lacrima qui, un sopracciglio accentuato là.
I due personaggi – senza nome, va da sé – cercano (senza riuscirci, anche questo va da sé) di ricordare cosa sia successo, perché si trovano lì, su quella panchina? Niente da fare, affiorano brandelli di memoria, qualche immagine che poi si interrompe, uno dei due sembra vagamente più presente dell’altro ma no, chi li ha portati lì non si sa. “E come ne usciamo? Quando ne usciamo? Perché se siamo entrati ci deve essere anche una via di uscita”.
Già.
Ma la via d’uscita è tutta nella testa di queste due creature, di questi due attori che non hanno che l’altro per sentirsi vivi, ognuno esiste per contrappunto. Entrambi si possono solo aggrappare all’altro, in balletti assurdi e perfetti oppure in ragionamenti altrettanto farlocchi sul progettare di impiccarsi, sì perché dicono che sia il metodo migliore per farselo venir duro (citazione esplicita di Aspettando Godot). Peccato che poi si sia morti ma, data la situazione, chi se ne importa!
La sintonia e la precisione di tempi di Lorusso e Macrì sono sorprendenti, come si vede raramente. Una geometria di pesi e contrappesi dati dal ritmo di una sillaba che improvvisamente esplode in un ballo da cabaret berlinese, un avanspettacolo dell’assurdo, rapinoso quanto angosciante. Due attori e due uomini che lottano con l’assurdità dell’esistenza in scena e sul palcoscenico della vita, in omaggio al grande padre Samuel Beckett ma con cifra personale ben calibrata ed espressa particolarmente tramite il dialogo fisico tra le due figure e il continuo rapporto di causa-effetto nei tempi recitativi. Una memoria che c’è e non c’è, un presente che si ripete in tondo, in un cerchio di relazione.
In chiusura di serata abbiamo poi assistito alla lettura scenica, a cura di Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il Copione (format ideato da Tindaro Granata) di Dittico della deriva di Niccolò Matcovich. Composto di due quadri speculari e complementari: “O mi ami o ti odio – LUI” e “O ti amo o mi odi – LEI”, il testo è scritto in versi (o meglio frasi brevi spezzettate con gli a capo) numerati, i due monologhi hanno infatti una corrispondenza matematica e tematica tra le battute di Lei e di Lui. Possono essere letti uno di seguito all’altro oppure essere intrecciati costruendo una struttura plasmabile nelle mani dell’eventuale regista.
Granata ha scelto di far leggere il testo mantenendo la separazione dei due blocchi da quattro attori (Michele Di Giacomo, Francesca Porrini, Gabriele Brunelli, Emilia Tiburzi) mescolando però i generi maschile e femminile e appartenenza delle battute, creando un piano ulteriore che ha reso la comprensione del tutto un poco difficoltosa. Il pezzo gira intorno a una gita in barca durante la quale si consuma un atto di natura sessuale tra lo skipper e Lei; il fatto è raccontato secondo lenti differenti dai due personaggi, un banale tradimento per Lui, una violenza per Lei. Non sapremo se la ricostruzione sia reale oppure frutto di una proiezione nei ricordi forse distorti di entrambi, ma non è questo il punto. Il punto non è chiarissimo, in effetti, anche perché il drammaturgo stesso inscrive questa storia torbida, sgradevole, narrata senza quasi interazione tra le due figure, in una scatola formale pretenziosa che rischia di far prevalere la cornice a discapito dei contenuti. È la natura dei fatti, l’opposizione distonica di coppia che si vuole far emergere oppure il gioco drammaturgico di un meccano fatto di regoli da incastrare? Se un/una regista deciderà di mettere in scena questo Dittico (“un vomito poetico”, secondo Matcovich) vedremo quale strada percorrerà.
La sezione Situazione Drammatica nell’ambito di Hystrio festival è comunque un interessante modo di presentare nuovi testi e di indagare quali siano temi e linguaggi affrontati e sperimentati da drammaturghi under 35, per chi è curioso un’occasione di scoperta preziosa.
MEMORI
di e con Nicola Lorusso e Giulio Macrì
spettacolo vincitore del Bando CURA, Indòmati Fest e Radici Festival 2022
DITTICO DELLA DERIVA
di Niccolò Matcovich
lettura scenica a cura di Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione
con Michele Di Giacomo, Francesca Porrini, Gabriele Brunelli, Emilia Tiburzi
Hystrio festival 2023, Teatro Elfo Puccini, Milano | 16 settembre 2023