GIANNA VALENTI | Il Festival delle Colline 28, inaugurato il 14 ottobre con appuntamenti sino al 5 novembre, presenta quest’anno la monografica di Lina Majdalanie e Rabih Mroué, artisti libanesi con casa a Berlino che i direttori del festival Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla hanno conosciuto a Lione nel 2005 e che a Torino, da allora, hanno portato ben tredici spettacoli, affermandosi come la compagnia internazionale con un maggior numero di presenze.
I due artisti, nati alla fine degli anni Sessanta, passano in Libano l’adolescenza e la prima giovinezza e lasciano il Paese — ci racconta Lina in un incontro loro dedicato al Polo del ‘900 — per un desiderio forte di cambiamento, per inseguire una nuova identità al di fuori della rigidità di codici culturali e famigliari di appartenenza, per creare distanza, per definire nuove pratiche artistiche e per tracciare narrazioni e visioni personali capaci di spalancarsi alla politica e alla storia.
È a Beirut che Lina e Rabih iniziano il loro lavoro artistico e danno forma alle loro prime creazioni teatrali, mostrandole gratuitamente al di fuori dei circuiti ufficiali per non dover subire i controlli della censura. Emigrare da Beirut a Berlino segna per loro il passaggio verso un’identità ricercata e non più solo ereditata, ed è nella nuova desiderata distanza che continueranno a creare per parlare della propria terra, per aprire uno sguardo su ciò che nella vicinanza sarebbe dato per scontato, per incontrare un’alternativa: “You talk about what you know very well — racconta Lina — you need to make critical distance and our art allows us to do it.”
Il Libano, un territorio da sempre al centro di incroci etnici, culturali e religiosi, dove prima del colonialismo avevano sempre convissuto ebrei, arabi, musulmani e cristiani; un modello di sviluppo economico e di convivenza dopo la fine del colonialismo e del mandato francese, sino allo scoppio della guerra civile che dal 1975 al 1990 porta una distruzione simbolo di altre distruzioni future. Le foto di Gabriele Basilico del 1991 di una Beirut fantasma e della natura che riprende possesso del territorio ci mettono difronte ancora oggi alla responsabilità umana nel scegliere atti di guerra o di pace e ci parlano di corpi che non abitano più lì perché morti, fuggiti, espatriati.
In Je veux voir del 2008, l’ultimo dei tre film proiettati come parte della monografica di quest’anno in collaborazione con il Museo del Cinema, Catherine Deneuve e Rabih Mroué viaggiano lungo le strade del sud del Libano per cercare una possibile comprensione della distruzione di un’altra guerra, quella del 2006, e come nella migliore tradizione di un road movie improvvisano cosa guardare e come posare lo sguardo, seguiti dallo sguardo cinematografico di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige — qui il trailer.
Tracce di conflitti che parlano di confini/sconfinamenti che è anche il tema di quest’ultimo triennio alle Colline e che quest’anno indaga gli spostamenti, i transiti, i superamenti dei confini — le fughe e le migrazioni indotte o volontarie di corpi che diventano esuli, profughi, migranti, rifugiati, espatriati. I conflitti e le restrizioni politiche e civili che creano il desiderio di fuga verso una nuova patria come in Blind Runner, lo spettacolo dell’iraniano Amir Reza Koohestani in chiusura del Festival o, come nel caso di Lina e Rabih, l’emigrazione come spostamento volontario per ricercare nuovi modi di intendere l’appartenenza e l’identità. My Home’s Wind, l’igloo di Mario Merz, segno d’artista di questa edizione, è una costruzione trasparente che è dissolvimento dei confini, leggerezza di appartenenza, impossibilità a separare lo sguardo tra il qui e l’altrove e che si fa segno, come il vento, di un respiro che accomuna, si sposta, unisce e collega, di una appartenenza che non conosce confini.
Lina e Rabih quest’anno al Festival portano in prima nazionale Hartāquat, uno spettacolo in tre sezioni diverse che racconta tre storie distinte e scritte da tre diversi autori libanesi che vivono in esilio e che raccontano della loro vita passata nel Paese che hanno abbandonato. Racconti di confini che vengono attraversati, confini non solo geografici, ma anche di classe sociale, genere, lingua e religione, sul filo di una ricerca personale che è equilibrio precario e trasformazione desiderata.
La parola è al cuore di ogni sezione. Nella prima si intreccia ai suoni creati sulla scena dall’attore e musicista Raed Yassin che incarna l’inscindibilità di narrazione e partitura musicale con una presenza fisica, vocale e musicale che materializza emozioni, personaggi, linee temporali, ambienti e territori attraversati.
Nella seconda parte la parola diventa la fisicità del segno che abita il corpo, quello di Souhaib Ayoub, che ne è l’interprete e l’autore, e che quella parola l’ha vissuta, pensata e scritta e che qui si dona in una doppia narrazione verbale e gestuale, con parole che appaiono nello spazio come forme sul corpo e gesti che si costruiscono come litanie di segni grafici nel silenzio. Nella terza e ultima parte, la parola arriva invece dalla lontananza di una lettera inviata (il testo è del poeta e giornalista Bilal Khbeiz e la lettura è di Francesca Bracchino), mentre un video che scorre in verticale verso l’alto al fondo della scena ci porta dentro territori, ambienti, corpi e distruzioni in una continuità pittorica che non conosce confini e che assorbe ogni parola innalzandola.
È di esistenze uniche, di vite in transito che racconta Hartāqat.
La vita di una bambina come figlia di profughi palestinesi in Libano, la vita di una madre e ancor prima di una nonna in un campo profughi e di altre vite tutte femminili destinate a essere cresciute come schiave in un sistema culturale e paternalista che così le educa e le vuole e a cui appartiene anche il controllo lessicale. Sono le esistenze di Incontinenza, il testo della prima sezione, scritto da Rana Issa, universitaria e attivista, che deostruisce il linguaggio per parlare del silenzio delle donne nella sua cultura d’origine e per superare il terrore della schiavitù dell’analfabetismo, liberando esistenze e rendendone possibile il racconto.
In L’impercettibile Trasudare della Vita, la seconda sezione, Souhaib Ayoub racconta di un’esistenza nella comunità queer di Tripoli e di una seconda esistenza, come una seconda vita, da esule a Parigi, con la città d’origine che rimane dentro il corpo come una lama sotto la pelle e a cui ritornare quando si supera il silenzio e si sceglie di scrivere per ritrovarsi e ricominciare.
Esistenze di corpi esuli, figli di altri corpi esuli, di bambini figli di rifugiati che scelgono altrove da adulti lo status di rifugiati. Esistenze in transito, in bilico tra culture, con una leggerezza di appartenenza che si fa peso delle proprie radici e necessità di non abbandonarle attraverso la scrittura o, come nel lavoro teatrale e artistico di Lina e Rabih, di rivisitarle per comprenderle e rimanifestarle. In Noi Rifugiati, testo citato nella terza parte dello spettacolo e dato alle stampe nel 1943 a New York, Hanna Arendt scrive: “… ci lasciamo alle spalle la terra, con tutte le sue incertezze, e volgiamo gli occhi al cielo. Le stelle, più che i giornali ci diranno… Qualche volta non ci fidiamo neppure delle stelle, ma diamo credito solo alle linee della nostra mano o ai segni della nostra calligrafia.” — queste le linee e i segni di Hartāqat.
Alla Fondazione Merz, come parte della monografica, si potrà vedere Second Look, sempre in prima nazionale, una video installazione di Lina Majdalanie e Rabih Mroué dedicata alla fotografia.
creazione e regia
Lina Majdalanie Rabih Mroué
testi
Rana Issa, Souhaib Ayoub, Bilal Khbeiz
con
Souhaib Ayoub, Francesca Bracchino, Raed Yassin, Lina Majdalanie, Rabih Mroué
produzione
Théâtre Vidy-Losanne
coproduzione
Printemps des Comédiens, Montpellier, Berliner Festspiele, HAU Hebbel am Ufer, Festival d’automne à Paris, Théâtre du Rond-Point Paris, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi, La rose des vents Scène nationale Lille Métropole Villeneuve d’Ascq, Schlachthaus Theater Bern
traduzione testi
Laura Bevione