RENZO FRANCABANDERA | L’autunno della danza a Genova inizia con il focus internazionale Resistere e Creare, con la IX edizione intitolata Corpo e Anima, organizzata dal Teatro della Tosse. Originariamente concepito come un evento aperto al contemporaneo e alle nuove espressioni nella danza internazionale, questa rassegna è nata nel 2015 grazie all’impegno di Michela Lucenti (Balletto Civile) e Marina Petrillo (Teatro della Tosse).
A partire dal 2022, la direzione artistica è passata dalla Lucenti a Linda Kapetanea e Jozef Fruček, i fondatori della compagnia greca di danza RootlessRoot e creatori del metodo Fighting Monkey, che hanno continuato il dialogo sulla direzione con Marina Petrillo, elemento di esperienza e legame con il territorio. I duehanno una lunga pratica nella danza e nell’espressione artistica. La loro compagnia è nata con l’obiettivo di sviluppare un linguaggio artistico primitivo e crudo, che si è evoluto in opere, installazioni e performance presentate in numerosi paesi. Hanno collaborato con importanti compagnie e istituzioni, e hanno sviluppato la pratica del Fighting Monkey, basata sui principi del movimento e dello sviluppo umano. Inoltre, Linda Kapetanea dirige il Kalamata Dance Festival e entrambi insegnano in diverse accademie di danza in Europa.
La decisione di individuare questi due artisti è stata influenzata non solo da una visione condivisa che unisce l’estetica alla poesia onirica dell’umanità nelle sue creazioni, ma anche con l’obiettivo di promuovere l’eccellenza della danza contemporanea italiana sia in Europa che nel resto del mondo.
In questa nuova configurazione, Resistere e Creare assume vari ruoli, diventando una residenza creativa, una piattaforma per artisti internazionali, un motore di promozione di produzioni artistiche, un centro di ricerca, un’opportunità per l’innovazione linguistica, una fusione di tradizioni e uno sguardo verso il futuro. L’idea di fondo è anche quella di avere un ruolo da mediatore culturale tra le generazioni passate e quelle future. Questa iniziativa è progettata per coinvolgere un vasto pubblico, portando gli spettacoli fuori dai teatri e garantendo un accesso agevolato per i giovani attraverso politiche di prezzo adeguate e iniziative correlate.

Fra gli eventi principali di questa edizione ΣΙΩΠΗ [silence], la nuova creazione della compagnia Rootlessroot, in prima nazionale a Genova nel contesto del festival. Lo spettacolo affonda le proprie suggestioni originarie in diverse discipline, come filosofia, teologia, poesia, letteratura e arti visive, per esplorare il concetto del silenzio e il suo potere. Il silenzio, spesso dimenticato nell’era di tecnologia e informazione, diventa nell’idea creativa un elemento centrale, un mezzo di autoconoscenza e di comprensione del mondo.
Lo spettacolo prende il via con un piccolo monologo affidato a Fruĉek, un’invettiva brevissima che, senza pausa, senza sosta, evoca e invoca i motivi per cui il nostro tempo non conosce più il silenzio, profeticamente atterrando sul tema della religione, mai come in questo momento attuale.

Di lì parte una piccola tempesta marina, un’immagine tumultuosa ottenuta da alcuni performer che muovendo ritmicamente con le braccia sul pavimento alcune corde bianche di diversi metri di lunghezza illuminate da una luce di taglio che le rende brillanti in contrasto con lo sfondo nero, generano l’idea del movimento delle onde, via via sempre più agitato, sempre più soverchiante con sinusoidi che si sviluppano fino a 2 m di altezza e altre che invece hanno un andamento più piano e rapido. L’occhio dello spettatore è avvolto e catturato da questa creazione ancestrale, che rimanda quasi a una creazione biblica.
A conti fatti questo momento è l’unico in cui  il silenzio dei corpi e il movimento generano un’idea di vuoto occupato da un segno lineare e nitido.
Di qui in avanti, infatti lo spettacolo vive di sonorità industrial, ottenuta con suoni di chitarre distorte e altri elementi audio di particolare sofisticatezza, opera di uno dei maggiori creatori di paesaggi sonori attivi in Grecia in questo momento, Vassilis Mantzoukis.
In un disegno luci di tono oracolare (Perikles Mathiellis) che definisce ora partizioni della superficie scenica, ora coni e puntamenti che seguono i performer nel loro vorticoso aggirarsi nello spazio, la creazione si sviluppa per quadri che pongono l’accento sull’assenza di vuoto, sull’assenza di silenzio, su un continuo tumulto in cui la figura umana diventa elemento sacrificale di se stessa, di fronte all’incapacità di vera e propria comunicazione.
Si creano scene di vorticosa aggregazione temporanea, dominate da una sequenza di movimenti che predilige l’energia fisica anche a scapito del nitore coreografico, scegliendo una via di avvicinamento dell’empatia del pubblico proprio grazie al frenetico e fisico precipitare delle scene l’una nell’altra, della fatica senza sosta.
È la stessa fatica del genere umano, affannato a chiedersi il perché del proprio turbinare intorno a non si sa cosa, spostando di qua e di là sacri bauli della poca conoscenza, altari della ignoranza sui quali vengono sacrificate le sensibilità dell’umano.

La Kapetanea metti insieme una squadra di artisti fra i quali spicca per somiglianza fisica un’altra figura femminile che funge quasi da doppelganger, alterego della coreografa in un gioco che mira proprio a un effetto di sdoppiamento.
Esiste un dietro le quinte che qui e lì si rivela, con un effetto meta teatrale dovuto al fatto che l’ingresso e l’uscita dei performer, talvolta invero un po’ ruvido, avviene da questo altro mondo, illuminato da una luce calda e potente, arancione, un doppio fondo dello spazio concettuale che tuttavia resta solo evocato e mai precisato nel suo contenuto simbolico mentre tutto avviene davanti, fino al finale che ritorna sulle sequenze originarie quasi a chiudere il cerchio.
Si tratta di uno spettacolo che si inserisce in una poetica della narrazione coreografica rivolta sicuramente a un teatro misterico, con tutte le implicazioni antropologiche del caso.
È una scena lontana da specificazioni astratte e limpide, che fonda la sua forza proprio nella vertigine del continuo, del silenzio che non arriva, dell’intervallo che non si genera, dell’assenza di pausa, una sorta di invocazione per contrario, lasciando interrogativo al pubblico proprio su cosa sia il silenzio che il titolo invoca, su dove ciascuno possa trovarlo.

La sera successiva è il turno di C’è vita su Venere, performance della Compagnia Abbondanza/Bertoni, una delle più prolifiche nel panorama del teatro danza contemporanea italiano, che segna il ritorno di Antonella Bertoni sul palcoscenico, una delle grandi, potremmo dire assolute fisicità della danza italiana.
La sua maturità in scena pare quasi portare a un nuovo statuto del femminile, capace di riprogrammare e riprogrammarsi in un nuovo poetico, fatto di sequenze gestuali ora soavi ora bestiali, ma sempre dotato di una capacità di calamitare lo sguardo dello spettatore che da quei gesti non si stacca mai con lo sguardo.
Lo spettacolo, ideato insieme a Michele Abbondanza, rappresenta un viaggio su Venere, pianeta simbolo dell’identità femminile dove la gravità è densa, e in un lento percorso, il corpo umano si trasforma, rivelando le questioni relative alla percezione soggettiva del femminile, in un contesto di evoluzione legato all’età e al tempo. L’artista ha spiegato come questo processo sia stato influenzato dall’età e dalla fase presente della sua vita, con un senso di metamorfosi e trasformazione.

La performance si muove sulle note de Il cigno di Saint-Saëns e rievoca il mito di Zeus, che si trasformò in cigno per sedurre Leda. In un contesto di luci fioche (disegno luci Andrea Gentili), l’interpretazione prende forma dentro un’esplosione monocroma che riempie lo sguardo e che rappresenta l’entusiasmo, ma evolve in un’esaurimento e un vuoto del personaggio, circondato dai resti delle sue azioni.
Il sacro animale mitologico non ha le delicate sembianze del cigno ma quelle più goffe di una gallina immersa dentro un universo oggettuali rosa shocking, quasi sfidando lo stereotipo dell’universo femminile visto dalla cultura più maschilista e centrata sulle disforia della società capitalistica, consumistica e legata alla relazione con gli oggetti.
La danzatrice indossa un attillato tubino rosa e si trova su una poltrona di colore verdastro con una maschera da gallina, animale cui renderà un sembiante allo stesso tempo goffo ma anche delicatissimo e poetico nel suo fragile affannarsi nel tentare il volo, come se il tempo avesse mutato il paradigma trasformando il cigno mitologico in un pennuto dalla più goffa gestualità.
A dire il vero  la goffaggine accennata nei gesti della danzatrice, pur arrivando a precisi momenti ironici, non assume mai la forma dell’impreciso o del volgare, ma rimane dentro un quadro di poetica fragilità. La performance culmina nell’atto in cui si svela la vera identità dell’interprete, nascosta dietro la maschera e il velo, invitando il pubblico a riflettere sul giudizio e la percezione, per poi intraprende un’ultima metamorfosi in una creatura con arti-protesi, una sorta di quadrupede espiatorio, che si allontana lentamente come un solitario passeggiatore tra le rovine del passato.

Disegno live Renzo Francabandera

Il gioco con lo stereotipo femminile è leggibile in più circostanze e crea uno spazio caustico di pensiero, capace anche di suscitare la reazione dello spettatore più sensibile alle tematiche di genere, interrogandolo sul confine fra provocazione sul femminile oggi e sul senso del tempo come agente modificante del poetico nella rappresentazione. Ora in crisi, ora soave, questa donna racconta il mistero del suo evolvere dentro un sistema di contraddizioni che la circonda e la costringe a guardarsi quasi dall’esterno, ad assumere sembianze artificiali, capaci di oscurare la sua identità, a mutarla. Da questo punto di vista la provocazione ha taluni pregevoli elementi di forza, che la poetica fisica di Antonella Bertoni esalta, pur imprigionata dentro un mondo di insistenza oggettuale dalla cromia piatta e univoca, semplificazione forse troppo forte di quanto ci circonda.

 

ΣΙΩΠΗ [silence]

Concept – Choreography Linda Kapetanea, Jozef Fruček
Performers (in alphabetical order) Maria Bregianni, George Dereskos, Linda Kapetanea, Anastasis Karachanidis, Christos Strinopoulos, Alexandros Vardaxoglou
Musical composition Vassilis Mantzoukis
Set and costume design Paris Mexis
Lighting design Perikles Mathiellis
Sound design – Sound engineer Christos Parapagidis
Scientific associate Kostas Vrachnos
Texts edited by Ioanna Nasiopoulou
Assistant to the set and costume designer Alegia Papageorgiou
Props construction Ilianna Skoulaki
Video by Blaec Cinematography
Trailer by Albert Vidal / Vertex Comunicacio
Photo by Elina Giounanli
Executive production Polyplanity Productions / Yolanda Markopoulou, Vicky Strataki
Executive production assistant Nikos Haralampidis
Co-production Athens Epidaurus Festival / Grape- Greek agora of Performance,
RootlessRoot
Funded by the Hellenic Ministry of Culture

 

C’È VITA SU VENERE

di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
con Antonella Bertoni
disegno luci Andrea Gentili
elaborazioni sonore Orlando Cainelli
direzione tecnica Claudio Modugno
maschera e oggetti di scena Nadezhda Simenova
abito Chiara Defant
organizzazione, strategia e sviluppo Dalia Macii
amministrazione e coordinamento Francesca Leonelli
comunicazione e ufficio stampa Francesca Venezia
produzione COMPAGNIA ABBONDANZA/BERTONI
con il sostegno di MiC – Ministero della Cultura, Provincia autonoma di Trento, Comune di Rovereto