MARIA FRANCESCA SACCO | Quando il regista ci invita a sedere sulle sedie nere «ma senza spostarle», capiamo che i nostri passi, che si muovevano decisi verso le poltroncine, devono essere reindirizzati.
Le sedie nere da non spostare sono infatti in scena, in piccole file, sia agli estremi del perimetro che rappresenta appunto la scena, sia al centro. Per il resto, lo spazio è vuoto, fatta eccezione per qualche camicia appesa ad una gruccia. Le luci sono fisse, faretti caldi che illuminano in maniera indifferente tutto lo spazio.
Lo spettatore già intuisce di non potersi sottrarre al “compito” di questa sera: partecipare. Con poche parole il tema è già delineato: si parla di lavoro. La condizione lavorativa è ciò che accomuna ogni essere umano, le regole, gli obblighi, i diritti. La riflessione che ne può derivare, è cosa da tirare fuori stasera assistendo a Il lavoro sul lavoro+ccnl+cechov del Teatro dei Borgia, andato in scena al Pimoff di Milano. Ciò a cui assistiamo è l’esito di un laboratorio che si è svolto a maggio per la prima volta e in un secondo momento, questo mese.
Gli attori, seduti fra il pubblico, si riconoscono solo quando iniziano a muoversi: del resto, a parte una giacca rosa-acceso e un vestito dello stesso colore ma a pois, sono vestiti in maniera del tutto anonima. L’unico richiamo in scena è il rosa, a suggerirci che, forse, la scelta non è un caso.
Si staccano dallo spettatore intonando la canzone I watussi in un irresistibile crescendo. È chiaro: è una festa. Anzi, meglio: è venerdì sera o la fine di una giornata di lavoro. Ci si ubriaca a vodka, si balla, si urla mimando una felicità premonitrice dell’angoscia dell’hangover del giorno dopo.
Cinque personaggi si raccontano, cavalcando le parole di Cechov e i testi del CCNL (Contratto collettivo nazionale del lavoro): c’è la scrittrice paesaggista che urla le sue intenzioni fuori dalla finestra al vento e al buio. C’è l’insegnante frustrata che ammette, a denti stretti, che «il lavoro è l’unica cosa che mi fa capire che esisto».
C’è il contadino che acquista un campo di ciliegi e condivide il vaneggiamento di un progetto visionario, muovendosi irrequieto sulla scena con le scarpe pitonate del venerdì sera e la sua giacca fucsia, richiamo a petali di ciliegio, appunto. Tutti sfogano la propria frustrazione in questo spazio dove momenti di monologo dei singoli attori, Teresa Acerbis, Raffaele Braia, Marco De Francesco, Serena Di Gregorio, Sabino Rociola, si alternano ad altri più corali. Si passa dal singolo personaggio che narra se stesso e la propria esperienza di lavoro, al coro, corpo unico depositario di una riflessione collettiva, collante e garante dell’organicità della performance.
L’approccio al lavoro scenico del Teatro dei Borgia, progetto creato da Elena Cotugno e Giampiero Borgia, da anni si fonda sul lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio, in un percorso di derivazione stanislavskiana in cui questa lezione viene in certa misura riletta alla luce della tradizione teatrale e culturale italiana. L’attore rivive la scena esprimendo esternamente ciò che è interiore, come Stanislavski ci ricorda, ma non tralasciando il gioco, l’ironia, la creatività tipica della nostra cultura teatrale. Il ruolo del regista, in questo processo creativo, è quello di guida: non puntualizza e non impone. Conduce, una sorta di maieutica socratica che tira fuori dal performer quanto necessario al gruppo, all’ ensamble, come lo definisce Giampiero Borgia. E questo è ciò che è avvenuto durante la fase di progettazione e di laboratorio in cui l’attore, per l’appunto, lavora su se stesso e, in una fase successiva, con gli altri.
Il risultato è un lavoro che si muove su più livelli: quello del testo (fra le citazioni di Cechov o del Manifesto comunista di Marx e Hengels) di comprensione e assimilazione; quello di esternazione, di movimento, di azione, dove c’è l’attore, la sua creatività, la sua realtà.
Lo possiamo percepire dai movimenti degli attori, a volte “imprecisi”, scomposti, che danno spesso la sensazione di lasciare ampio margine alla parte più estemporanea, suggerendoci un guizzo dell’attore. Come quando, ad esempio, sulla scena si rompe un bicchierino di vodka e uno degli attori entra con la scopa a spazzare via i resti dei vetri. Il pubblico percepisce questa voluta incertezza che cede il passo all’improvvisazione: ci si trova infatti all’interno di uno spazio creativo, come ci ricordano le sedie nere sulle quali siamo seduti, gli attori che ci scompigliano i capelli o ci porgono una camicia da indossare. Del resto è proprio questa la premessa: assistiamo all’esito del lavoro dell’attore. Ciò che prova lo spettatore, talvolta, è disorientamento: non sa cosa aspettarsi, spesso non sa come reagire. Qualcuno risponde persino ad una domanda (forse retorica o forse no?) di un attore in scena. É tutto previsto o si nutre per lo più di imprevisto? E in quale misura?
Del resto qui si parla di spettacolo laboratorio, punto focale del Teatro dei Borgia: sappiamo di avere a che fare con qualcosa di mutevole, labile, irripetibile e modificabile. Un cantiere aperto in cui ogni variabile freme di evoluzione e rivoluzione, ogni nuovo input diventa ispirazione e costruzione. Quindi se questa è la restituzione del laboratorio, lo spettacolo vero e proprio come sarà? Ci chiediamo curiosi.
La riflessione sul lavoro, tuttavia, resta solo suggerita, non è sviscerata né approfondita. Vengono lanciate suggestioni, immagini che poi sta al singolo rielaborare, risistemare nella sua mente ed interpretare. È chiaro che qui il punto è il percorso che porta alla performance, più che essa in sé.
Benché sempre prevalga sempre l’ironia, la chiusura è una malinconica ringkomposition in cui, come una lenta marcia funebre, ritorna la canzone I watussi che diventa ora un triste sussurro senza slancio, che lascia spazio all’hangover del giorno dopo.
E tutti sappiamo quanta nausea esso porti con sé. Specie se si deve andare a lavorare.