ELVIRA SESSA | Un drappo di raso blu attraversa in diagonale il palcoscenico, sullo sfondo in penombra lo scranno diroccato di un tribunale, qualche banco rotto e, per terra, fascicoli giudiziari strappati e fogli ridotti a pulviscoli sparsi qua e là. E mentre un fumo avvolge tutto e fischia un vento inesistente, risuonano forti le parole “ ‘In verità in verità vi dico: se il chicco di grano che cade nella terra non morirà, resterà solo; ma se morirà darà molti frutti…’. In verità, in verità…Ah, la verità! Non è cosa da poco, ‘tutta la verità’! Roba da restarsene alla sbarra degli imputati per tutta l’eternità, nel vano tentativo di individuarla, di denunciarsi, di condannarsi.”
A pronunciarle è un Ivan Karamazov invecchiato, ricurvo su una sedia impagliata, come schiacciato da un macigno interiore.
Inizia così il monologo di Umberto Orsini nell’opera Le memorie di Ivan Karamazov diretta da Luca Micheletti e tratta dal capolavoro I Fratelli Karamazov di Fëdor Dovstoevskij. È stata rappresentata in prima nazionale un anno fa (qui il resoconto di PAC https://www.paneacquaculture.net/2022/10/22/un-karamazov-elevato-al-quadrato-umberto-orsini-regala-la-vecchiaia-al-fratello-ivan/) ed è ora sui palchi del Teatro Vascello di Roma fino al 22 ottobre.
Settanta minuti ininterrotti di domande, invettive e riflessioni su fede, libertà, amore, peccato, colpa.
Orsini e Micheletti, coautori della drammaturgia, riprendono Ivan, uno dei tre fratelli protagonisti del romanzo, lì dove Dovstoevkij lo ha lasciato: davanti alla Corte che, chiamata a decidere sull’assassinio del padre, ha condannato ai lavori forzati l’innocente fratello Dimitrij. Solo Ivan sa che l’esecutore materiale del parricidio è il fratellastro Smerdjàkov, impiccatosi dopo il delitto. Solo Ivan sa di essere stato l’istigatore del crimine. Ma non viene creduto. E non si dà pace, così resta imprigionato per anni, secoli, in quell’aula ridotta a cumuli di macerie ed esposta alle intemperie, deciso ora a terminare la sua deposizione.Il personaggio di Ivan entra nella pelle di Orsini sin dalla prima scena. Ivan/Orsini non è più il giovane imputato dalla gestualità enfatica e irruente dello sceneggiato Rai di Sandro Bolchi I Fratelli Karamazov di cinquant’anni prima, né il più cerebrale Ivan-Orsini de La Leggenda del Grande Inquisitore di Pietro Babina del 2014: è un personaggio-attore dalla notevole forza comunicativa ma dal passo lento, gesti minimali e incisivi, che torna davanti a quella Corte giudiziaria per incontrare i fantasmi che il tempo non ha dissipato, anzi.
La narrazione mantiene un ritmo incalzante, intervallata da pochi silenzi e le tracce sonore sottolineano ossessioni e allucinazioni o, quando a un tratto evocano la monodia del canto gregoriano, enfatizzano il mistero.
Tutto è al tempo stesso realtà e metafora. Gli oggetti di scena si animano, al tempo stesso giudicano e assolvono Ivan/Orsini che sale e scende dal seggio tribunalizio, giudice e imputato di una coscienza mai sopita, prigioniero dei suoi spettri: i banchi consunti e polverosi sono frammenti di memoria, i fogli-pulviscoli sono strappi di coscienza, le pile dei faldoni giudiziari sbrindellati sono memorie affastellate e tormentose, lo slittino sporco del sangue del padre diventa simbolo di una spensieratezza irreparabilmente macchiata dal crimine.
E poco alla volta grazie alla scenografia, al linguaggio drammaturgico denso e penetrante, a Orsini che emoziona e coinvolge con la mimica facciale e un tono della voce, ora aggressivo, ora straziante, ora ironico, lo spettatore sprofonda nella febbre cerebrale di Ivan, nel processo che egli stesso fa alla sua coscienza.
La leggenda del Grande Inquisitore, poema di Ivan e perla a se stante all’interno del romanzo, viene abilmente integrata nel più ampio percorso personale del personaggio, al punto che questi arriva a dire: “L’Inquisitore sono io”. Nella Siviglia del sedicesimo secolo, Ivan immagina che il Figlio di Dio torni sulla terra e venga condannato al rogo da un cardinale novantenne che, dall’alto della sua autorità ecclesiastica, lo accusa di aver dato alla debole razza degli uomini, il carico insostenibile della libertà. La voce di Ivan-Orsini si fa vibrante quando grida a Cristo: “Perché sei venuto a disturbarci? (…) Sappi che vi sono tre forze sulla terra in grado di vincere e incatenare per sempre la coscienza di questi esseri deboli che sono gli uomini e renderli felici: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato il primo, il secondo e la terza. E in tal modo fosti tu a porre le basi per la rovina del tuo regno!”.
L’identificazione attore-personaggio si fa ancora più potente nella scena in cui Ivan si guarda nello specchio, in un appassionante incontro-scontro con l’immagine di se stesso giovane: Ivan in quello specchio vede e affronta se stesso ventenne ma lì c’è anche Orsini che combatte con l’uomo di cinquanta anni fa. Un duello che continua quando Ivan/Orsini ascolta da un fonografo la sua voce nello sceneggiato di Bolchi, voce ora distorta da un diavolo che indaga nell’inferno interiore del personaggio.
E impercettibilmente Ivan prende corpo anche in ognuno di noi, le sue inquietudini si fanno le nostre al punto da scuoterci con le parole finali: “ ‘In verità in verità vi dico: se il chicco di grano che cade nella terra non morirà, resterà solo; ma se morirà darà molti frutti ….’ Io, purtroppo per me, e per tutti i fratelli Karamazov, non morii, non mi fu dato un finale. Oggi resto una contraddizione che sopravvive nel tempo. (…) Il tempo…questo grande nemico”.
LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV
con Umberto Orsini
drammaturgia di Umberto Orsini e Luca Micheletti
dal romanzo di Fëdor M. Dostoevskij
regia Luca Micheletti
scene Giacomo Andrico
costumi Daniele Gelsi
suono Alessandro Saviozzi
luci Carlo Pediani
assistente alla regia Francesco Martucci
produzione Compagnia Umberto Orsini
Teatro Vascello, Via Giacinto Carini 78, Roma