ELENA ZETA GRIMALDI | Torna nella città dell’Etna per il secondo anno il Catania Off Fringe festival, che fino al 29 ottobre riempirà le giornate e le vie della città con una ricca programmazione di spettacoli ma anche, come consuetudine, incontri, workshop, musica, letteratura e focus tematici.
La prima settimana di spettacoli, tra il 19 e il 22 ottobre, ha registrato un ottimo afflusso di pubblico nelle location diffuse che ospitano gli eventi, con la partecipazione di compagnie provenienti da tutto lo stivale e anche dal resto d’Europa. In attesa di scoprire, a fine mese, gli spettacoli vincitori delle date estere e delle residenze messe in palio dal festival, raccontiamo alcuni degli spettacoli in concorso.
La pest(e) a Buda, battaglia per la Groenlandia
Nella sala verde di ZO-Centro di culture contemporanee, il pubblico dello spettacolo La pest(e) a Buda, battaglia per la Groenlandia di Paolo Toti viene accolto con le luci a mezza sala. Lo spazio scenico è lugubremente illuminato. Sullo sfondo dei poster con figure antropomorfe sofferenti e i loghi trasfigurati di grandi multinazionali di assuefazione di massa (Fakeflix, Sazone, Giggle), e al centro un viso a cui cade una maschera; nello spazio una miriade di oggetti: sacchi della spazzatura, un carrello della spesa rosa, un water, un bambolotto appeso per i piedi, una sedia, un elmo trapassato da un’ascia, una cassa coperta da un telo, una lavagna su cui troneggiano le parole «ATTO I – ASSEDIO», e altri ne appariranno in seguito. La sala si spegne, una voce femminile fuori campo richiama le celebri riflessioni di Artaud sul teatro e la peste, che fa crollare le maschere per mettere l’uomo davanti a sé stesso. Improvvisamente, da un cumulo di sacchi neri viene fuori il «post-Amleto», protagonista punk-gotico del rimaneggiamento del testo di Shakespeare, alle prese, da un lato, col dolore di vedere risposata la madre e dall’altro schiacciato dal compito di vendicare l’assassinio del padre. Lo spettacolo si divide in cinque atti, che mano a mano si discostano dalla trama shakespeariana tanto che, alla fine, post-Amleto non solo rifiuta il suo ruolo di vendicatore, ma la battaglia di per sé, provando a combatterla da entrambi i lati, oppresso e oppressore, nel tentativo di rompere l’assuefazione passiva al mondo moderno. Tutto lo spettacolo è denso di riferimenti letterali e alla cultura pop (un costume in stile Il corvo/Matrix, Where is my mind dei Pixies che richiama il finale di Fight club, posizioni plastiche che ricordano gli eroi degli anime giapponesi…), termini e assunti dell’era del consumo sono innestati – idea interessante – in un parlato che vuole restare sul filo del poetico, costruendo un percorso di ribellione alla superficialità diviso in sezioni drammaturgiche più o meno brevi, che si susseguono a volte con troppo poco respiro per essere ben metabolizzate.
È chiaro che l’attore-autore usa post-Amleto per mettere in scena i suoi pensieri, le sue emozioni, le sue riflessioni sul mondo, per provare a scuotere il prossimo, inondando la scena con passione irrefrenabile; ma, come ben richiama in un passaggio del terzo atto (in cui nel testo shakespeariano si svolge la rappresentazione teatrale orchestrata da Amleto), denominato sulla lavagna «SCHERZO» poichè il protagonista si risolve a vivere una vita da saggio clown, la passione smisurata lasciata senza guinzaglio corre su una lama di rasoio, e c’è sempre, dietro l’angolo, il rischio che tanta enfasi possa apparire un ciarlare di nulla. Fatti salvi i nobili intenti e le riflessioni di attualità, che sono presenti, si sente nello spettacolo soprattutto la mancanza di un occhio esterno che guidi l’azione scenica e tenga in equilibrio i diversi elementi. Quando, infatti, l’enfasi è più modulata, il testo e l’emozione arrivano diretti e puliti: quando, con la faccia dipinta di bianco e un rosso largo sorriso, in un immobile sarcasmo, post-Amleto si rivolge al pubblico nel suo rifiuto del dramma, o nell’immancabile momento del celebre monologo Essere o non essere, lanciato a chi guarda quasi come una riflessione già metabolizzata, superata, assodata, semplicemente condivisa… in quei momenti ci si sente totalmente calamitati dalla scena, che può assumere mille significati nascosti. Nel complesso, forse lo spettacolo meriterebbe una maggiore essenzialità, qualche difficile scelta che ne snellisca l’impianto drammaturgico e quello scenico per favorirne il respiro, dare il giusto spazio alle riflessioni e aumentare ancora il gradimento che il pubblico ha mostrato all’uscita dalla sala.
Poco dopo, nella sala grigia, assistiamo a Muta-morfosi, di Sara Lisanti, spettacolo di un taglio totalmente diverso, tanto da meritare, più propriamente, l’etichetta di ‘performance’, performance di body art. È infatti il corpo della Lisanti protagonista, sostanza, senso e motivo dello spettacolo; un corpo soggetto e oggetto che si fa materia e movimento, ma che anche suono e colore. Dopo un iniziale prologo che saluta il pubblico con un «HI» scritto su un lenzuolo bianco che si anima al suono di plastica stridente, forse a ricordare la rottura di un uovo, il corpo in questione appare rinchiuso in una teca: un terrario, per essere precisi, di quelli dove si allevano i rettili, una scatola di legno e vetro che contiene appena la creatura fasciata di cellophane. Sul palco è calato il buio, la luce di un neon installato dentro la teca illumina il corpo che, muovendosi irrequieto in quell’ambiente angusto ma protetto, distrugge il cellophane, letteralmente, con le unghie e con i denti. Un gesto necessario e desiderato, ma doloroso, riassunto sul vetro con un «AHI» rosso sangue che permette però di lasciare finalmente la nuova pelle libera di respirare, a contatto con la terra. La muta è metafora di trasformazione, ma anche dello scontro tra mente e corpo, e una nuova fase comincia, come fosse una vita totalmente nuova, e bisogna farci i conti. L’iniziale spaesamento che la creatura prova uscendo dalla teca viene mitigato dall’ingresso di un’altra donna e di una luce diffusa che prende il posto del buio; dalle carezze del pennello che la donna passa su tutto il corpo della performer, a farle piano piano a conoscere la nuova forma che ha preso, a farle prendere confidenza con la nuova se stessa. L’attenzione del pubblico è calamitata su ogni movimento, ogni reazione, ogni grumo della pittura azzurra che, gesto dopo gesto, ricopre l’intero corpo protagonista. Una tensione gentile e affettuosa aleggia nella sala, mentre assistiamo al passaggio da terra a cielo.
Il body painting viene completato da una colata di oro, a battezzare la nuova forma. Le luci si abbassano, e nel terzo atto della performance, dopo essersi lavata con l’acqua, viene svelata al pubblico una seconda teca contenente una bambola rivestita di muta di serpente, doppio della protagonista e, come scopriremo alla fine, vera genesi della performance. Le prime e ultime parole di tutta l’esibizione si sentono fuori campo: la voce della Lisanti esprime – ancora una volta in un chiaroscuro di urgenza e meraviglia, resistenza e fascinazione – un manifesto artistico e umano sul rapporto col corpo, ricongiungendolo alla mente in un dialogo prolifico, mentre si incide sul ventre con un rossetto rosso dei segni che, finalmente, compongono la consapevolezza di un «I». Accompagnato in un viaggio di cui è stato spettatore e partecipe, il pubblico saluta calorosamente Sara Lisanti prima di lasciare la sala, magari iniziando, col semplice gesto di alzarsi dalla sedia, il proprio, ennesimo percorso vitale di muta.
PEST(E) A BUDA, BATTAGLIA PER LA GROENLANDIA
di Paolo Toti
regia Paolo Toti
con Paolo Toti
voce fuori campo Chiaraluce Fiorito
luci Paolo Toti
musiche Paolo Toti
costumi Paolo Toti
produzione Rebetiko produzioni
MUTA-MORFOSI
di Sara Lisanti
regia Sara Lisanti
con Sara Lisanti
luci Sara Lisanti
musiche Sigur Ros
costumi Sara Lisanti: nudo scenico
produzione Sara Lisanti
Catania Off Fringe Festival
22 ottobre 2023