GIANNA VALENTI | “Il palcoscenico è un immenso campo con centinaia di garofani uno vicino all’altro, un campo che suggerisce un’atmosfera gioiosa e rilassata… Un danzatore entra, si siede sulla sedia che ha portato con sé e guarda il pubblico. Uno per uno, gli altri danzatori della compagnia lo seguono formando una fila di sedie. Da un registratore, Richard Tauber canta in stile operetta leggera, ‘Bella è la vita quando la fortuna vi imprime il suo marchio’. Quando le ultime note della canzone si sono dissolte, la compagnia attraversa con cautela il palcoscenico tra i garofani e scende tra il pubblico […] Poco dopo un danzatore, sul palcoscenico, traduce nel linguaggio dei sordomuti la canzone di Gershwin, ‘The Man I Love’.” *
“I danzatori sono sdraiati pacificamente sulle sedie capovolte disposte a circolo, tenendosi per la mano. Una donna si alza e legge ad alta voce una lettera di suo padre carica d’affetto e di preoccupazione. Improvvisamente tutti saltano su, corrono verso il proscenio a offrire ‘amore’ a braccia tese. Ma l’esplosione di gioia è immediatamente interrotta. I danzatori ritornano al loro posto, raccolgono le sedie e formano una fila da seduti, dondolandosi e oscillando. Riportano le sedie di nuovo indietro, corrono al proscenio offrendo di nuovo parole d’amore e riformano una fila. Nel frattempo degli stuntmen sono indaffarati nella costruzione di due enormi cubi di cartone, guardati con paura da una donna che, urlando e pestando i piedi inutilmente, cerca di avvisare gli altri del pericolo. Più i cubi crescono, più diventa difficile per i danzatori formare la loro fila di sedie […] I loro movimenti si incrociano con modalità sempre più complesse, mentre i danzatori diventano sempre più veloci nell’esecuzione dei loro gesti oscillanti di lamento e di supplica […]“ *
Sono le parole di Norbert Servos, autore, esperto di teatrodanza tedesco, coreografo e associato a Pina Bausch per più di trent’anni. Sono le immagini che sceglie per definire Nelken, il lavoro creato da Bausch nel 1982. La prima immagine che è pienezza visiva e fisica, concetto spaziale radicato e al tempo stesso mobile, distesa serrata di fiori fissati sul pavimento e di corpi in movimento che li attraversano e che ne fanno parte; la seconda che è concatenazione e coesistenza di aree diverse sulla scena che agiscono con un valore di tensione fisica che è al tempo stesso attrazione visiva e che richiede, per poterne dare testimonianza, una scrittura che incalza e che sa tradurne la sincronicità delle azioni e delle aree spaziali attivate.
Vi lascio questo montaggio di immagini che, come i molti libri di fotografia disponibili su Pina Bausch, riesce pienamente a rendere la forza del segno visivo che abita il suo lavoro: Nelken-1982-photo montage.
Immagini come compressioni di un lavoro profondamente fisico e incarnato che magnetizza il corpo dello spettatore e diventa memoria incancellabile nella sua mente. Vittoria Ottolenghi ha condiviso di aver chiesto a Rudolf Nureyev un proprio pensiero sulla Bausch e di aver ricevuto questa risposta: “Pina Bausch per me è una serie di immagini poderose che continuano ad aggirarsi nella mia mente come fantasmi” (“a series of powerful images that keep haunting my mind.”)
“Per me l’immagine è fondamentale, non posso pensare senza l’immagine.” — dice Bausch rispondendo all’intervista nel bellissimo libro su di lei curato da Elisa Guzzo Vaccarino.** E Raimund Hoghe, il suo dramaturg, ci riporta la voce della coreografa dalla sala prove: “Indubbiamente per me la forma è molto importante” “Posso riprovare una cosa?” …”Voglio solo vedere come sarebbe la forma”. …”Si continua sempre a sfoltire… finché non restano che piccole cose semplici”.** Ma quella semplicità non è piccola e il processo di cura formale è sapiente.
Le immagini sono cristalli nitidi, con una linearità che ne contiene l’identità, con una sfaccettatura che ne declina la presenza spaziale e che, per il grado di compressione subito durante la loro formazione, una volta su scena sprigionano una forza che riempie lo spazio, si impossessa del corpo degli spettatori e si infiltra nel loro sguardo per abitarne la mente — immagini come frammenti trasmutati del quotidiano che si fanno su scena segni fisici, geroglifici di sguardi.
Bausch guarda e osserva e Hoghe ci riporta la sua voce: “La realtà è veramente insuperabile”… “Spesso si sostiene che il modo in cui le persone si comportano nei miei pezzi, tutto quello che fanno, non esiste. Ma rispetto alla realtà è niente. Basta guardare un attimo meglio la gente mentre attraversa la strada, quello che avviene è incredibile. Al confronto, quello che facciamo noi è un’inezia.” **
Lei, la coreografa, che guarda il mondo e osserva gli uomini, le donne, i bambini, le relazioni, i codici sociali, i comportamenti intimi, privati e collettivi: “Cosa faccio: osservo. Forse è proprio questo. Non ho mai fatto altro che osservare persone. Ho visto o cercato di vedere soltanto rapporti umani e ho cercato di parlarne. Ecco che cosa mi interessa. E non so neppure cosa possa esserci di più importante.”
Il suo lavoro creativo come raccolta di sguardi sulla vita, come elaborazione di quegli sguardi per poter generare domande da fare in sala prove alle sue danzatrici e ai suoi danzatori (e di questa metodologia di lavoro che segna la storia della drammaturgia della danza ho parlato in Scatti Coreografici#2). La catena di connessioni con il reale che continua con le risposte fisiche e/o verbali alle sue domande; lei che interviene sui materiali di risposta per frantumare, rilasciare, dissolvere, solidificare, compattare — per trovare quel segno di forma, quell’essenzialità del gesto, quel geroglifico fisico capace di contenere e sprigionare tutta la ricchezza di partenza dei dati della realtà, spesso superandoli, dilatandoli, interrogandoli e spostandoli al limite della credibilità, per poi, su un diverso piano, farli riesplodere nella loro quotidianità.
È sul piano delle immagini attraverso i video disponibili su YouTube che vi propongo di incontrare o rincontrare Bausch: guardare semplicemente per accogliere e rintracciare quel filo che lega il reale al performativo, la scena alla vita, con uno sguardo attento a riconoscere la cura formale dei codici applicati ai materiali del quotidiano.
Vi lascio questi links seguendo solo una logica di desiderio e di disponibilità dei materiali, alcuni sono della compagnia storica che ha lavorato con lei alle produzioni, altri della nuova compagnia e degli ultimi anni:
Walzer – assolo con fisarmonica
Kontakthof – scena di gruppo
Palermo Palermo – montaggio
Kontakthof nel 2000 con danzatrici e danzatori sopra i 60 anni
Nelken – assolo di Dominique Mercy
Café Müller – montaggio di azioni di gruppo
The Season’s March o Nelken Line da Pina di Wim Wender
Café Müller – duo/trio
Walzer – scena di gruppo
Barbablù – breve montaggio
Kontakthof – scena di gruppo, linea maschile e femminile
Nelken – breve montaggio
Walzer – linea maschile e femminile e carosello (prima)
Nelken – canzone con lingua dei segni
Le immagini come fotogrammi, come isole di senso, che seguendo leggi di attrazione, repulsione e desiderio, avvicinamenti, allontanamenti, sovrapposizioni, sospensioni e sparizioni vanno a comporre progressivamente il pezzo a cui la coreografa e la sua compagnia stanno lavorando. Molte sono le testimonianze del suo rimaneggiare infinito dei fotogrammi di partenza per dare forma e corpo a una visione che ha sempre e comunque considerato aperta, anche quando già in scena. Il montaggio finale, anche se già arrivato difronte a degli spettatori, è sempre rimasto per lei una delle infinite possibilità e un altro montaggio, pur mantenendo gli stessi fotogrammi di partenza, è sempre stato da lei contemplato come possibilità.
La logica è cinematografica, la stessa che aveva guidato in Europa il lavoro delle avanguardie storiche, è il respiro tecnologico del Novecento, della macchina che obbedisce a un movimento continuo con al proprio interno micropartiture di altri movimenti, segmenti o frammenti di un tutto. È la logica con cui si crea il movimento negli esperimenti di cinema puro, letteralmente tagliando e incollando fotogrammi, separando e abbinando i materiali di partenza in illimitate possibilità di soluzione. La coreografa lavora all’emersione dei possibili collegamenti e al loro impatto visivo su scena utilizzando dissolvenze, tagli netti, opposizioni, sovrapposizioni, compresenze, rallentamenti, accelerazioni, reiterazioni, fermi immagine, con un lavoro sulla linearità come continuità o contrasto e con una valutazioni dei piani della scena come piani di registrazione dell’occhio cinematografico (del cinema come codice coreografico e compositivo ho parlato attraverso il lavoro di Relāche in Scatti Coreografici #9).
Il lavoro finale è un montaggio, questo e non un altro, ma potrebbe essere anche il suo opposto: un lavoro che chiede agli spettatori di essere ricevuto e vissuto, di abitare i loro corpi e di continuare a vivere nelle loro menti. Le immagini che su scena erano incarnate dai corpi delle danzatrici e dei danzatori continuano a vivere all’interno di un altro corpo, dialogando con le visioni, i pensieri e le esperienze di vita che incontrano, in un secondo piano di montaggio che si muove nell’invisibilità del privato.
Così ne scrive Norbert Servos: “La molteplicità dei contenuti e delle forme rende impossibile stabilire un significato per tutte le opere. La stessa mancanza di risultati si ottiene con un elenco meramente positivista dell’ordine cronologico delle scene. Questo tipo di procedimento, basato sulla ricostruzione degli eventi in scena, coglie certamente l’idea unica, la sequenza, ma difficilmente illumina la complessità della simultaneità degli eventi. Poiché le opere non hanno una “favola” nel senso brechtiano e non seguono la variazione sistematica su un tema, il contesto viene acquisito solo nel processo di ricezione da parte del pubblico.” ***
Un modello, il suo, che è un atto di fiducia verso gli sguardi e i corpi degli spettatori (così come lo è stato verso i corpi delle danzatrici e dei danzatori durante la creazione), un atto di fiducia nella loro presenza fisica come estensione della scena e come potenzialità creativa. Con questo atto di fiducia, il ciclo si conclude e ritorna nel tutto — il vissuto osservato, risvegliato nel processo di creazione e incarnato dai corpi sulla scena continua il suo viaggio su altri corpi, attraverso altri segni, altri gesti, altri pensieri, altri sogni, altre creazioni.
* Norbert Servos, Carnations, in Dance as a Theatre Art, Selma Jeanne Cohen ed. A Dance Horizons Book, 1992
** Pina Bausch, Teatro dell’esperienza, danza della vita, a cura di Elisa Guzzo Vaccarino. Costa & Nolan, 2005.
*** Norbert Servos, Dance and Emancipation – The Wuppertal Dance Theater. Ballet international, January 1982.