ELENA SCOLARI | Alla Locanda di Mirandolina alloggiano marchesi, conti e cavalieri. La tenutaria è irresistibile: tutti la corteggiano, tutti le fanno regali, gli ospiti ne lodano le qualità contendendosi le sue attenzioni distribuite con parsimonia avveduta, senza mai illudere nessuno. O meglio, illudendo tutti nella stessa interessata quantità.
È una donna lavoratrice, ha ereditato l’albergo dal padre e lo gestisce oculatamente, vi ospita nobili e ricchi che vivono perlopiù di rendita o di affari che non costano loro nessuna fatica e procurano guadagni da spendere in sollazzi, buon vino, gioco e viaggi.
Potremmo dire che Carlo Goldoni dipinge le prime impressioni di una lotta di classe ante litteram: la contrapposizione tra categorie di censo distanti e distinte non è ancora sulle barricate, ma è ciò che sfocerà nella Rivoluzione francese poche decine di anni dopo.
La prima cosa, dunque, che si nota nell’allestimento di Antonio Latella – presentato al LAC di Lugano dopo il debutto estivo al Festival di Spoleto – è nella scelta dei costumi (curati da Graziella Pepe) che annacqua le differenze di classe: Mirandolina e Fabrizio, lavoranti nella locanda, non sono diversi dal conte di Albafiorita, dal Marchese di Forlipopoli e dal Cavaliere di Ripafratta. Tutti sono in abiti moderni, i servitori indossano scarpe Nike come i padroni tute Adidas, cappotti cammello su infradito per il Cavaliere che ha così quel tocco di strafottenza, maglioni con disegno norvegese su scarpe da taglialegna tipo Timberland per il Marchese nobile ma spiantato. Il cameriere Fabrizio è in abito casual, più elegante dei suoi “superiori”. Mirandolina compare nella prima scena scalza, con un camicione bianco corto, poi un secondo camicione simile ma poco più lungo e poi un completino setoso rosa cipria, blusetta e longuette, con scarpe nere alte, pesanti, molto visibili e che le cambiano anche l’andatura. Sembra un dettaglio ma queste calzature attraggono inevitabilmente lo sguardo, sono brutte, sgraziate, scure in una scena prevalentemente chiara, luminosa, anche fredda, con neon appesi alla graticcia in geometria regolare (luci di Simone De Angelis). E ogni tanto i neon ronzano.
Tranne Fabrizio, l’uomo che Mirandolina ha promesso al padre morente di sposare, e tranne le due attrici Ortensia e Dejanira che soggiornano alla locanda – ruoli utili all’equilibrio generale e però secondari (Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo) – nessuno dei personaggi indossa abiti ‘gradevoli’, in fondo appaiono tutti un po’ fuori quadro.
Il quadro è in parte suggerito dal fondale di scena (Annelisa Zaccheria): un grande pannello di legno chiaro su cui sono applicate cornici dello stesso legno, cornici che non contengono nulla, di formato anche inusuale, alcune strette e alte potrebbero incastonare uno specchio, altre una veduta del Canaletto. Invece non c’è niente; è forse cancellare l’idea di un ambiente accogliente quale dovrebbe essere la locanda? Chissà.
In scena ci sono poi a sinistra una pedanina bassa che funge da corridoio, un tavolo con quattro sedie e a destra un angolo cucina con mobili neri dove sul piano cottura risalta una pentola rossa. Non ci sono cambi e gli spostamenti di spazio avvengono – con bella intuizione registica – grazie allo scarto abile degli attori che, seduti allo stesso tavolo, passano dal salone comune alla stanza di uno degli ospiti, senza farlo.
Gli attori formano una compagine armoniosa nella sua spigolosità collettiva, sono – tutti insieme – un organismo che anima la scatola sociale in cui sono inseriti, da cui finirà per uscire solo Mirandolina. Sonia Bergamasco ha infatti fin da subito una allure diversa dagli altri, sembra lì un po’ per caso ma al tempo stesso ha una consapevolezza tutta sua che supera la somma di quelle dei singoli, lei è parte di un disegno che contribuisce a disegnare. Niente affatto vezzosa, voce scura, mette la seduzione in pochi tratti asciutti, mai spontanei, quasi seriosi.
L’operazione di Latella toglie di mezzo ogni cascame d’epoca, lascia pressoché intatto il testo ma colloca decisamente la commedia nell’atmosfera di un dramma borghese che guarda a Tennessee Williams e Arthur Miller.
Conte e Marchese sono innamorati di Mirandolina, uno è ricco e le fa regali costosi, l’altro è nobile ma senza denari e le offre la sua protezione (Io sono chi sono, e mi si deve portare rispetto), il Cavaliere invece odia le donne e il suo credo è starne alla larga. La locandiera è punta nell’orgoglio dal suo disprezzo e decide di sedurlo per farlo cedere. E cadere.
Tutto si svolge con ritmo, grazie all’amalgama e alla qualità recitativa del gruppo, anche se il regista varia l’equilibrio di alcuni rapporti tra i personaggi: per esempio la relazione Conte/Marchese è sbilanciata in favore del Conte interpretato da Francesco Manetti, alla fine un tipo cool e non un parvenu smargiasso, mentre il marchese Giovanni Franzoni è povero ma non abbastanza da muovere a compassione e finisce per risultare soprattutto taccagno. Il servo di Ripafratta, Gabriele Pestilli, è infastidito dal proprio padrone ma lo vedremo imbracciare la chitarra insieme a lui, intorno a Mirandolina priva di sensi, per una specie di ninna nanna. Ludovico Fededegni è un cavaliere con un tocco di sciatteria chic, finché è protetto dal proprio cappotto; quando lo poserà sulla locandiera svenuta perderà sicumera e tracotanza. E quel che la protagonista farà con quel cappotto ci dirà molto dei suoi pensieri celati.
All’autore sta a cuore la materia sociale e la trattazione dell’argomento va di pari passo con la sua riforma del teatro: critico verso la Commedia dell’Arte abbandona le maschere per liberarsi della fissità dei tipi che rappresentavano, i suoi “caratteri” hanno sfaccettature psicologiche, sono personaggi complessi e credibili; si allontana poi dalla comicità grossolana a favore di una scrittura più sottile, basata su un testo definito e non più su un canovaccio variabile secondo l’estro e la capacità improvvisativa dell’attore.
Il perno è Mirandolina – La locandiera è la prima commedia con una protagonista donna – Bergamasco ne fa una figura certo non civettuola ma anzi un personaggio dotato di ombre. Una femmina moderna che, alla fine, a sfida con il cavaliere vinta, sceglie comunque di sposare Fabrizio (Valentino Villa, sobrio e sempre molto compunto) accontentando così sia lui sia il desiderio del padre, ma più che trionfare per aver saputo ingannare Ripafratta, per aver mostrato scaltrezza e pregi del genere femminile e per aver deciso di prendere in sposo un uomo fedele e servizievole, qui sembra farci sospettare che si sia sinceramente innamorata del Cavaliere e che accetti di agire nelle convenzioni.
Latella (con Linda Dalisi come dramaturg) dirige una Locandiera in cui alcune sottigliezze di Goldoni emergono limpidamente, altre sono appiattite per lo stile netto e per nulla ammiccante impresso alla cifra recitativa; le scene in cui si sorride sono date da un testo affilato e pieno di spirito che gli attori sostengono stando sempre un passetto indietro.
Nel finale Mirandolina osserva gli altri fuori dal perimetro della locanda, in proscenio.
È uscita dal quadro, ed è l’unica ad averne colto la prospettiva.
LA LOCANDIERA
di Carlo Goldoni
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa
dramaturg Linda Dalisi
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente alla regia Marco Corsucci
assistente alla regia volontario Giammarco Pignatiello
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
LAC Lugano | 25 ottobre 2023