RITA CIRRINCIONE | Festival di contaminazione e sperimentazione teatrale, di ricerca e linguaggi ibridi, dal 5 al 24 ottobre è tornato a Palermo Teatro Bastardo giunto quest’anno alla sua ottava edizione. Promosso dal Ministero della Cultura, dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e dall’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania di Roma, per tre settimane ha animato l’antico quartiere della Kalsa – tra l’ex Chiesa di San Matteo ai Crociferi, la Chiesa dei Santi Euno e Giuliano e il Museo internazionale delle marionette Antonino Pasqualino – con spettacoli, performance, incontri e installazioni.
Nato nel 2015 all’interno del festival internazionale di cinema Sicilia Queer come spazio di imbastardimento di generi e forme culturali, lontano da codici e falsi sensi di appartenenza, nel 2016 Teatro Bastardo si costituisce come associazione culturale sotto la direzione artistica di Giovanni Lo Monaco ospitando nel corso delle diverse edizioni alcuni dei nomi più rappresentativi della scena contemporanea nazionale e internazionale, spesso in prima regionale, dando allo stesso tempo spazio a realtà locali emergenti. Dal 2022 (e per tutto il triennio 22-24) alla direzione artistica subentrano Giulia D’Oro e Flora Pitrolo.
In un contesto storico marcato dall’antipolitica, da desideri di sopraffazione e dall’esperienza della guerra, per l’edizione 23 le due curatrici hanno scelto un programma che indaga «il nesso tra corpo e storia, tra gesto e rappresentazione, tra immagine artistica e vita politica», in una visione dichiaratamente politica e sociale che attraversa in varia misura tutte le proposte.
Ad aprire il festival all’ex Chiesa di San Mattia ai Crociferi è Situazione con braccio teso dell’artista tedesco Oliver Zahn con la danzatrice palermitana Emilia Guarino. Incentrata su un gesto di saluto e di giuramento inventato in pittura e via via sempre più gravato di significati ideologici (prima romano, poi fascista e nazista), la performance mette in scena un corpo che ne incarna e ne ripete la forma sempre uguale a se stessa – in una spazio scenico che riprende la pianta ottagonale della chiesa, a cambiare è solo il fronte – arrivando quasi a trasfigurarla nella reiterazione. Una voce in lingua originale – i sottotitoli in italiano sono proiettati su un grande schermo – ne ripercorre l’evoluzione in uno stile asciutto, deliberatamente didascalico, privo delle tante immagini e situazioni citate nel testo.
Sempre in prima nazionale, presso la Chiesa dei Santi Euno e Giuliano, la stessa sera va in scena Peine forte et dure dell’artista inglese Keira Fox. A partire dalla ricerca su Anna Trapnel, mistica e attivista politica inglese del XVII secolo, e sulla sua opposizione ai poteri dominanti del suo tempo per cui fu arrestata e processata, in Peine forte et dure la Fox attualizza quella forma di protesta e di resistenza rivolgendola contro le ingiustizie politiche e sociali del mondo contemporaneo che colpiscono soprattutto le donne. Nella performance prova a rendere la condizione di lavoro alienante che reifica il corpo delle lavoratrici attraverso un’idea drammaturgica semplice ma potente che prevede la febbrile reiterazione del gesto di smontare e rimontare in più direzioni le file di sedie della platea (gli spettatori sono addossati alle pareti della piccola navata), in un crescendo che trova la sua acme nell’abbandono della scena da parte della performer che, facendosi largo tra il pubblico che la segue fin nel sagrato, da dietro le sbarre che lo delimitano, la guarda allontanarsi con passo spedito verso una deserta Piazza Magione, fino a scomparire.
Nel weekend successivo, ancora nell’ex Chiesa di San Mattia ai Crociferi, Hombre Collettivo, una giovane compagnia attiva nella ricerca e nella sperimentazione dei linguaggi del teatro di figura, ha presentato Casa nostra, vincitore del Premio Scenario Infanzia 2020 e del Premio della critica Direction Under30 2021. Ambientato in una metaforica “stanza dei giochi” disseminata di oggetti scenici ipercolorati, costruzioni polivalenti e giocattoli vari che i tre performer animano e fanno interagire tra loro, la performance ripercorre gli anni dello stragismo mafioso e dalla trattativa Stato-Mafia tra il 1990 e il 1994, in una riscrittura per simboli e immagini in grado di raggiungere l’immaginario delle nuove generazioni a cui principalmente si rivolge.
La stessa sera nella Chiesa dei Santi Euno e Giuliano, viene presentato Danza di Guerra – La Santa, un progetto performativo del compositore e artista multimediale Carlo Ascrizzi che nelle sue performance musicali e teatrali, porta in scena i legami tra criminalità organizzata e religione in Calabria. In un montaggio di immagini di feste e processioni religiose e di riti di iniziazione, su una base sonora di canti liturgici, composizioni bandistiche e intercettazioni telefoniche di aderenti alle associazioni criminali, La Santa – termine riferito sia alla Vergine Maria che alla ‘Ndrangheta – compone l’osceno legame tra fede e malavita. A richiamare questo connubio anche i costumi neri da incappucciati dei tre performer in scena – il “deejay” che mixa suoni e immagini e le due figure che lo affiancano – che accomunano gli appartenenti ad alcune organizzazioni segrete e certe confraternite religiose del Sud Italia.
Oltre agli spettacoli visti di cui qui si fa cenno, dentro Teatro Bastardo 23 c’è anche il lavoro performativo di Maria Luisa Usai, I’ll Write You Something New Palermo, in cui la scrittura di una lettera da atto privato diventa azione pubblica condivisa; W (Prove di resistenza), di Beatrice Baruffini, storia di ribellione e di resistenza al fascismo; AeReA di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi che, attraverso il simbolismo materico e gestuale delle bandiere e degli sbandieramenti, indaga le assurde logiche del potere e della guerra; le Letture performative per bambino e ragazzo con Marcella Vaccarino e Daniela Macaluso in collaborazione con Dudi Libreria.
Ma per raccontare meglio la specificità di un festival che negli anni ha mantenuto e consolidato la sua queerness, quell’identità bastarda che lo rende diverso da tante rassegne similari, incontriamo le due direttrici artistiche: Giulia D’Oro, che ha contribuito a fondare il Festival Teatro Bastardo e che da anni si occupa di programmazione teatrale e di organizzazione e produzione di progetti artistici nel campo delle arti visive e del teatro; Flora Pitrolo, studiosa e curatrice di arti performative – lavora a Palermo con il gruppo curatoriale Nuova Orfeo – co-autrice di una recente pubblicazione su quell’unicum che fu, tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, l’esperienza sperimentale tra arte, video/film e performance del duo Taroni-Cividin.
Giulia D’Oro e Flora Pitrolo, le opere selezionate per questa edizione di Teatro Bastardo, compongono una rinnovata idea di teatro politico, un teatro che va al di là dell’esperienza individuale, che rivolge lo sguardo verso la collettività e la realtà sociale senza disdegnare l’indagine storica. È questo il teatro di cui abbiamo bisogno?
FP: L’edizione è stata costruita per estendere lo sguardo oltre il “noi, qui e ora”, anche se in qualche modo tutto a teatro avviene sempre nel noi, qui e ora. Da una parte, ci interessava allontanarci dall’introspezione, dall’auto-narrazione e dall’esperienza privata – per quanto possa essere certamente anch’essa politica – e dall’altra riappropriarci del discorso storico, sebbene in maniera laterale. È una strada (ma non è detto che non ce ne siano altre) per rispondere a un “bisogno”, evitando allo stesso tempo un’idea di arte utile e mettendo al centro comunque l’esperienza estetica dell’evento.
Le ultime due edizioni di Teatro Bastardo curate da voi, pur mantenendo l’interesse verso le realtà locali, sembrano rivolgere particolare attenzione verso artisti tagliati fuori dalla circuitazione tradizionale spesso provenienti da esperienze internazionali. In quale visione di Teatro Bastardo si collocano tali scelte?
FP: Tra i nostri desiderata per il festival, creare le condizioni per un dialogo tra artisti provenienti da luoghi, linguaggi e scene diverse è stato uno dei più cruciali e ha a che fare non solo con Teatro Bastardo ma anche con Palermo, un posto dove non è possibile vedere tutto. Ci sembra molto più appropriato e proficuo, allora, creare uno spazio profondo e sorprendente piuttosto che una vetrina.
Ripercorrendo la storia di Teatro Bastardo emerge un travagliato equilibrio tra sperimentazione e istituzione, tra un teatro non proprio mainstream che riflette sulle marginalità e che ricerca nuovi linguaggi e un teatro riconosciuto e radicato nel tessuto comunitario. Come vi muovete tra queste due dimensioni?
FP: Sì, questo c’è sempre stato, e questa continua problematizzazione della propria posizione è uno degli aspetti più preziosi del DNA del festival. Probabilmente ci andiamo via via allontanando da un’idea di teatro “istituzionale”, ma anche questo è cambiato dal 2015 ad ora. Parliamo spesso di “marginalità strategica”: sappiamo bene che ci sono molte cose che non possiamo fare, ma anche che ce ne sono altre che possiamo fare meglio di altri. Direi inoltre che alla base ci muoviamo più da spettatrici, più da amanti delle arti sceniche che da operatrici: la suggestione, l’istinto, la sorpresa svolgono il loro ruolo.
Teatro Bastardo precede cronologicamente i tanti festival basati sulla interdisciplinarità, sulla pluralità dei linguaggi espressivi e sulla contaminazione tra diverse forme artistiche che negli ultimi anni sono sorti nella nostra città. Quale rimane, dal vostro punto di vista, la specificità Teatro Bastardo? Dove si colloca nel panorama attuale?
GD: Teatro Bastardo è un festival piuttosto piccolo, che ci permette il grande privilegio della prossimità con la città, con gli spazi che di volta in volta cerchiamo e che entrano a far parte di ogni spettacolo e, soprattutto con le compagnie, che vengono da noi in modo quasi residenziale anche quando si fermano pochi giorni, perché sono giorni che passiamo insieme a parlare di Palermo, del pubblico, di come il teatro viene inevitabilmente plasmato da questo posto. Questa esperienza di prossimità con i lavori in scena, innanzitutto, ma anche con i luoghi, gli artisti e con i presenti è quella a cui invitiamo il pubblico: l’idea è che tutto lo spazio di una serata di TB sia significativo. Ancora oggi continuiamo a programmare spettacoli non ancora visti in Sicilia a cui dedichiamo una cura attenta e con tutti i nostri sentimenti, pensando con molta dedizione al pubblico, che dovrà fidarsi di noi per accogliere il nostro invito e vedere spettacoli di cui probabilmente non ha (ancora) sentito parlare. In questo includiamo anche tutta la comunicazione on e offline. Questo lavoro curatoriale è il nostro modo di invitare a un’esperienza effimera, inafferrabile ma, se vogliamo, che possa restare.
Oltre ad artist talk, conversazioni aperte e seminari pubblici, la sezione Collateral del festival è stata dedicata a installazioni video che, in più casi, riprendono alcuni spettacoli o performance in programma. Oltre all’interesse verso registri visivi e performativi interdisciplinari, qual è l’idea che vi ha guidato in questa scelta?
FP: Il fatto è che moltissimi artisti vivono doppie, triple, quadruple vite creative di cui i recinti disciplinari non tengono conto, e anzi forse la maggioranza degli artisti della nostra generazione si muove in un panorama mixed-media in cui la matrice concettuale del lavoro permette loro di spaziare agevolmente tra registri diversi, che aprono scenari diversi sia per loro che per noi che li seguiamo. Perché privarsene?
Come da tradizione, una sezione significativa del vostro programma è stata rivolta a un pubblico di bambini e adolescenti. Il lavoro che svolgete nelle scuole è propedeutico o consequenziale a questa sezione del festival?
GD: Il lavoro sul teatro per bambini ci permette di coltivare anno dopo anno una relazione con un pubblico generoso, anarchico e pieno di fantasia, la cui imprevedibilità ci stimola a sintonizzarci su una sensibilità diversa e più sottile, in cui poi accadono meraviglie. Oltre a ciò che regala a noi, pensiamo inoltre che il teatro sia per i giovanissimi uno strumento di evoluzione, di scoperta di sé e degli altri, di piacere. Le scuole in realtà arrivano in un secondo momento, finora più come “alleate” per coinvolgere più bambini che per vari motivi non andrebbero a teatro con le famiglie, che come target in sé. Tuttavia le scuole sono anche un luogo privilegiato per esperienze teatrali più strutturate e distese nel tempo, in cui le relazioni possono svilupparsi in uno spazio sicuro e continuativo e su questo lavoreremo ulteriormente per le prossime edizioni di TB.
Come ultimo spettacolo avete scelto AeReA di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi – ancora artisti che si muovono tra l’Italia e l’estero; ancora temi di interesse storico-politico come la guerra, gli armamenti e le dinamiche di potere – e lo avete programmato in collaborazione con Prima Onda. Come nasce l’idea di questo passaggio di testimone tra un festival che si conclude e uno che sta per iniziare?
GD: AeReA e Situazione con braccio teso hanno costituito le prime suggestioni su cui abbiamo poi composto il programma. Dopo un viaggio così intenso e serrato lungo tutti gli spettacoli, volevamo che chiudesse il festival un gesto politico e poetico. L’idea di collettività, di ciò che ci unisce, che sottende il festival si è riflessa in modo molto semplice e diretto in questo passaggio di testimone, una volta che se n’è presentata l’occasione, nella convinzione che per entrambi i festival questo significhi moltiplicare anziché diminuire. Proseguiremo di certo questa pratica di condivisione, con spirito sperimentale e non semplicemente organizzativo, come d’altronde Teatro Bastardo ha sempre fatto fin dai suoi esordi. In generale, il clima che sentiamo come parte dell’universo culturale di Palermo è caloroso, c’è molta collaborazione e interesse nella ricerca degli altri e voglia di mettere in circolo idee e risorse.