ELENA SCOLARI e GILDA TENTORIO | La sfida ai testi di Shakespeare è un marchio di fabbrica del Teatro dell’Elfo, che compie cinquant’anni di onorata carriera. Ora gli Elfi tornano al Re Lear (in scena fino al 19 novembre) in una nuova energica traduzione (a cura di Ferdinando Bruni), per la regia del duo Bruni-Frongia.

La trama è nota ma ne ricordiamo i cardini. Il vecchio re Lear (Elio De Capitani) decide di abdicare in favore delle tre amate figlie: il regno verrà ripartito commisurando onori e responsabilità in base alle parole d’amore e di gratitudine che sapranno donargli. Sembra un gioco bizzarro (chi ama di più il papà?), ma si trasforma in sfida: le due sorelle Goneril e Regan (Elena Ghiaurov e Elena Russo Arman), abili nell’arte retorica, ricamano elogi sperticati ma vuoti, mentre Cordelia (Viola Marietti), incapace di mentire, rifiuta l’adulazione in nome dell’ineffabilità, perché non ci sono parole per esprimere l’amore. La poveretta dovrà subire il peso dell’ira cieca del padre, che la ripudia insieme al fedele Kent (Umberto Terruso). Le altre due figlie, solo in apparenza premurose, si rivelano serpi egocentriche e maligne, e il re scivola dal rancore alla follia. E proprio quando Lear sembra ritrovare sprazzi di lucidità accanto all’amata Cordelia, tutto precipita nella tragedia. Parallela e in crescendo corre la vicenda di un altro padre, il fedele Gloucester (Giancarlo Previati) che rinnega il figlio legittimo Edgar (Mauro Bernardi), cadendo nei lacci dell’ambizioso Edmund (Simone Tudda), diabolico tessitore di violenza e di morte.

ph. Laila Pozzo

GT: Un tratto “elfico” che subito si riconosce è nell’estro creativo delle scenografie (creazione di Bruni/Frongia). Come rappresentare il palazzo reale? Nulla di sfarzoso o luccicante, ma grandi tele pennellate in maniera naif e potente che ricorda certa arte africana: Bruni si sbizzarrisce nel riprodurre stemmi, aquile, draghi, lance, ma soprattutto una sfilata di teschi coronati in cima a spade, che sono simboli di potere, fantasmi fluttuanti di antenati, un inquietante snodarsi di memento mori. Talvolta scorrono proiezioni video di sfilate militari, carri armati, bombardamenti, agganci all’oggi forse fin troppo insistiti e non necessari, perché c’è già tutto in Shakespeare. L’atmosfera è plumbea, gravata da presagi astrali negativi, e in questa direzione va la scelta del nero come tinta dominante, alle pareti come pure negli abiti, tranne per la strana divisa scelta per il Matto di Lear (Mauro Lamantia): un tratto senz’altro voluto, però mi è sembrato troppo stridente ed eccentrico. Tu come l’hai interpretato?

ES: Riguardo ai grandi teli grezzi dipinti, quei teschi sono else di spade ma tutti in fila ricordano anche i merli di un castello, oppure ancora teste infilzate sulle picche, come quelle che il Capitano Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad scorge dalla barca risalendo il fiume Congo, quando si avvicina al villaggio degli indigeni, che così esponevano i nemici battuti.

Quanto invece alla divisa del matto: scarpe e canottiera da basket della squadra del Denver e gonna di tulle, un berretto giallo con visiera a mo’ di corona. Perché? Francamente un costume improbabile e che rende, inevitabilmente, improbabile anche il personaggio, il quale – per quanto matto di corte – dovrebbe rappresentare una guida per Lear, la sua àncora di buon senso popolare quando tutti gli altri riferimenti “regali” vacillano.
Al di là del costume, Lamantia assume anche una postura, direi forse uno standing, diverso dagli altri attori; è giustamente una figura a metà tra l’uomo e il giullare: su una carta da gioco re e buffone sarebbero due metà riflesse, entrambi capovolti a seconda della prospettiva.
Tra gli altri interpreti ho trovato particolarmente convincenti Giancarlo Previati/Gloucester, sommesso e mai sopra le righe anche nel più nero dolore, e Umberto Terruso/Kent, serio, capace di trasferire nel volto e nel corpo la sofferenza d’anima; Giuseppe Lanino nel ruolo di Albany è il marito di Goneril, quello buono (contrapposto a quel farabutto di Cornwall sposato a Regan) e dà sostanza sincera al disgusto di fronte al comportamento della moglie e ai meschini raggiri di cui è complice con la sorella, un’altra poco di buono. Elena Ghiaurov e Elena Russo Arman – scarpe nere fetish con il tacco alto mentre Cordelia indossa modeste e basse scarpine – non lesinano in toni, espressioni, atteggiamenti, enfasi che rendano inequivocabile la loro indole: sono proprio cattive cattive cattive. Shakespeare ha messo la crudeltà nelle loro parole e azioni, senza pretendere di più.
Viola Marietti è una Cordelia ancora acerba, ed essendo la figlia più giovane questo non sarebbe grave, ma le sue intonazioni suonano ancora meccaniche, le battute troppo dette invece che incarnate. Noi abbiamo però visto lo spettacolo alle primissime repliche, siamo certi che con il tempo avrà acquisito maggior disinvoltura.

GT: Sono d’accordo. Fra l’altro l’orchestrazione dei ruoli così sfaccettati è particolarmente ardua in questa tragedia, un meccanismo a orologeria che scivola inesorabile verso il non-ritorno (nel secondo atto però la partitura ritmica si sfilaccia un po’ in alcune lentezze). Naturalmente tutto orbita intorno a Lear, un personaggio davvero complesso: Elio De Capitani è immenso nell’alternanza continua dei toni e mi è parsa vincente la scelta di ridurre ai minimi termini i paludamenti regali (a partire dalla corona, che è di cartone dorato!) per far emergere l’uomo. Forte, crudele e ingenuo a un tempo, rancoroso e impudente, pensa che la dignità di un sovrano si misuri sugli onori e non sulla savia autorevolezza, e quando il mondo inizia a vorticare senza più freni, eccolo diventare folle, vecchietto fragile e disperato, alla ricerca spasmodica di risposte e di autenticità, attanagliato dalla paura di restare solo.

ph. Laila Pozzo

ES: Lear e Gloucester compiono un viaggio simile, si tratta infatti di due padri anziani, rinnegati dai figli più ambiziosi. Subiscono inganni e ingratitudine e, raggirati, puniscono i figli sbagliati. L’uno perde il senno per amor perduto e l’altro perde la vista perché gli strappano gli occhi, un atto mostruoso; quando Gloucester non vorrà più stare in questo mondo e tenterà il suicidio, si squarcerà invece il velo che lo annebbiava, grazie al povero Tom, suo figlio Edgar sotto mentite spoglie. (Travestimenti e lettere che confondono le acque sono abbondanti anche qui, come nelle commedie, nel bardo).
Re Lear è una tragedia del ribaltamento, in cui i buoni sembrano cattivi e i savi sembrano folli, Shakespeare toglie le certezze e mostra come sia facile incrinare gli equilibri.

GT: Infatti tutto vacilla, i rapporti si sfaldano nel segno dell’incomunicabilità e di una gelida solitudine, che ho ritrovato ad esempio in alcuni segni scenici: all’inizio Lear siede compiaciuto sopra un “trono” costituito da una catasta disordinata di poltrone, scranni, scettri, qualche teschio, lance e la bandiera del regno. Forse questo cumulo rappresenta l’accozzaglia eterogenea delle esperienze di una vita (anche teatrale), la scalata attraverso un intrico di simboli e compromessi, che lo porta a troneggiare in realtà sopra il caos e la desolazione dei sentimenti. Durante la notte di tempesta (invero poco terrificante, nonostante i lampi proiettati e i tuoni ottenuti dal vibrare di lamine metalliche) il “paesaggio” si spoglia in senso metateatrale: sparite le tele, Lear si aggira su un palco con le quinte e i cavi ben visibili, qua e là cianfrusaglie da deposito-magazzino. Quasi un invito ad affondare nella mente del vecchio re, popolata di matti veri e finti, proprio quando in un accesso di follia capisce che la sua vita è stata una grande mascherata.
Nella discesa all’inferno mentale di Lear mi ha colpito la sua affannosa “autopsia di una poltrona”, che egli immagina sia una delle figlie: fruga nell’imbottitura per cercare il cuore, ma sconsolato ne tira fuori solo una molla. Potenza di un gesto al confine tra il comico e il tragico. Hai notato anche tu la compresenza di questi due aspetti?

ES: Certo, sul tragico non c’è dubbio ma anche lo humour c’è ed è in alcuni toni della ricca interpretazione di De Capitani, così come nelle spicce affermazioni del fool, a volte espresse in rima, che sottolineano incoerenze e paradossi, strappando perfino qualche sorriso al povero re. L’alternanza fa parte della maestria dell’autore, che per disorientare personaggi e spettatori, mescola facezie a perfidie, risate crasse a momenti di altissima poesia. La tempesta (didascalica, hai ragione), con i lampi che squarciano la notte e i venti che si fanno scoppiare le guance per la furia con cui soffiano, riflette lo sconquasso che si sta consumando sotto i cieli.
Quel trono/carro con tanto legno che hai ben descritto, a me ha ricordato anche anche le cataste di cui vien fatto falò in alcuni carnevali, in fondo il simbolo di qualcosa che può andare in cenere in pochi istanti. Un po’ come la prua della baleniera Pequod, a bordo della quale De Capitani/Achab faceva il suo ingresso in scena in Moby Dick alla prova, una nave-mondo di cui il capitano è re, che finirà per inabissarsi.

ph. Laila Pozzo

Se l’atmosfera generale di questo Lear è cupa quanto deve, e rispetta la tetraggine della tragedia (luci di Michele Ceglia e suono di Gianfranco Turco), meno indovinati risultano altri aspetti che appaiono come incongruenze: la traduzione è bella ma non lo è l’uso dell’espressione “in e out”; il duello finale tra i fratelli Edgar ed Edmund è con le spade ma prima Oswald viene ucciso con una pistola; tutto sommato il contesto scenico è senza tempo, ma Edgar scomparso viene cercato con gli elicotteri (che sia un riferimento ad Apocalipse now di Coppola e allora ho ragione su Conrad?).
E poi, le tute mimetiche basta.

GT: Mi sono interrogata sull’urgenza dell’hic et nunc: perché Lear oggi? Provo a formulare qualche ipotesi. Forse perché dopo l’ecatombe di anziani provocata dal Covid, il nostro sguardo alla vecchiaia dovrebbe avere maggiore consapevolezza. Forse perché le domande sull’essere padre e figli non sono mai finite. Forse anche perché Shakespeare ci invita a riflettere sul peso delle parole e sull’ipocrisia ammantata di menzogna. Nel Lear affianca il miele velenoso della lusinga, la valanga furiosa dell’ira cieca, la schiettezza limpida e concisa, il gioco assurdo del nonsense che cela verità profonde. E nella nostra società sommersa di parole, dibattiti di tuttologi e volgarità, tornare a Shakespeare è quasi catartico.

ES: Shakespeare è una cura, sempre.

 

RE LEAR

di William Shakespeare
traduzione Ferdinando Bruni
regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Elio De Capitani e in ordine alfabetico: Mauro Bernardi, Elena Ghiaurov, Mauro Lamantia, Giuseppe Lanino, Viola Marietti, Giancarlo Previati, Alessandro Quattro, Elena Russo Arman, Nicola Stravalaci, Umberto Terruso, Simone Tudda
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
movimenti coreografici Stefania Ballone
pittura scene Ferdinando Bruni
assistente regia Alessandro Frigerio, Fabrizio Gallo (tirocinante)
assistente scene Marina Conti
assistente costumi Elena Rossi
capo macchinista Giancarlo Centola
tecnico di palcoscenico Gianluigi Guarino
sarta Anna Leidi
coproduzione Teatro dell’Elfo – Teatro Stabile dell’Umbria

Teatro Elfo Puccini, Milano | 27 ottobre 2023