GIORGIA VALERI* | Prassi vuole che in ogni tragedia, di piccola o grande dimensione, si debba trovare un capro espiatorio contro cui puntare il dito, un semplice, ma efficace meccanismo psicologico volto a rimodellare una colpa collettiva in una colpa singola e univoca. Il nome per eccellenza, emblema della colpa, è Elena di Troia.
Non è un caso che il coperchio di 1.000 tonnellate che copriva il reattore esploso a Černobyl’ venne chiamato, in seguito, proprio così. Ovviamente, un coperchio di acciaio e cemento non poteva coprire il carico di responsabilità di un’intera nazione. Michele Sinisi ha portato sul palco del Teatro Fontana il processo intentato dall’Unione Sovietica per coprire il disastro di Černobyl’: «
Viktor Bryukhanov, 36 anni e un solo fallimento alle spalle».

Sin dalla prima scena Sinisi circoscrive il sofisticato testo di Federico Bellini in un’inquadratura cinematografica, restituendo la scatola buia della mente di Bryukhanov, illuminata solamente da una piccolissima lampadina gialla pendente sopra il centro del palcoscenico. La drammatica notte che vide l’esplosione del reattore n. 4 della centrale di Černobyl’ viene quindi raccontata su molteplici piani temporali e attraverso espedienti drammaturgici differenti: una donna con uno speaker al collo (Federica Fabiani) intona cronachisticamente gli avvenimenti delle ore decisive dell’esplosione, animando, alla fioca luce della lampadina, le azioni meccaniche e robotiche di Giovanni Longhin (Viktor Bryukhanov) e Isabella Perego (Valentyna Bryukhanova), il direttore operativo della centrale e sua moglie. La giornalista alterna la cronaca impietosa al commento pedissequo delle azioni della coppia, sia fisiche che mentali, accompagnando gli attori e il pubblico nella discesa dei minuti più bui della storia di fine Novecento. 

Stefano Braschi. Ph. Marcella Foccardi

Gli artifici della scena, curata da Federico Biancalani, accompagnano la narrazione nascondendo le cesure tecniche e presentando fluidamente i personaggi, che si appropriano del palcoscenico con ingombri scenici differenti: Stefano Braschi (“L’uomo col cappotto”) trascina la colpa a ogni passo, a ogni parola dei lunghi monologhi che chiamano in causa le «poppe della mamma Russia» e del Partito Comunista.

La tragedia si consuma, la luce sparisce e le tende nere che rivestivano il palcoscenico cadono, svelando il marchingegno del sogno di Bryukhanov: enormi palle da fitness argentate coprono le pareti della scena, atomi inesplosi che chiudono i personaggi in un fitto andirivieni compulsivo fatto di discorsi incompiuti che si moltiplicano e si azzerano nella concitazione dei dialoghi. Mirano tutti a smascherare una rete di menzogne così fitta da esplodere in una moltitudine di colori, luci, musica assordante su cui gli attori finiscono per ballare in maniera sfrenata.

Adele Tiranti. Ph. Marcella Foccardi

E così la polizia sovietica diventa caricatura di sé stessa, lo spettro del chimico Valerij Alekseevič Legasov (Donato Paternoster) compare con un cappio al collo da una botola del palcoscenico, Andrej Sacharov (Giovanni Longhin) – il fisico nucleare premio Nobel per la pace che ha tentato di spronare Gorbacev alla verità – piomba dalla platea per raccontare una verità ormai usurata, un funzionario statale (Marco Ripoldi) muove un guanto sparalaser sul pubblico e la Russia, la grande madre Russia, si muove come un fantasma per le varie scene, senza mai catturare l’attenzione, fino a un’ultima, iconica scena: le sfere crollano lentamente, in uno scoppiettio morbido e ovattato che raccoglie gli ultimi rumori della sala. Senza incorrere in giochi di parole, la chimica instaurata tra gli attori è tangibile, pesante, quasi scomoda, perché difficile da ignorare. La diversa taratura degli artisti sfugge comunque al controllo della macchina costruita da Sinisi, lasciando Braschi, ad esempio, a catalizzare l’attenzione precipua del pubblico o Federica Bianchi a stupire per i repentini cambi di personaggio, voce e carisma.

Tornato il buio, tornata la minuscola lampadina gialla al centro della scena, Adele Tirante (la Russia), una perfetta babushka passata inosservata nel caos delle scene, si riappropria di una storia, la sua e quella di tutte le nazioni che hanno fatto parte dell’Unione Sovietica, richiamando a sé tutti i protagonisti più controversi; o quelli che la Storia ha voluto additare come tali. Nel tempo della “mutazione”, come suggerisce la scritta dietro il cappotto di Braschi, l’URSS muore tra le braccia dei suoi carnefici/capri espiatori, che la guardano inermi, mentre partorisce un nuovo figlio, su cui si spengono le luci di scena.

Michele Sinisi coinvolge il pubblico in un progetto più che in uno spettacolo, spinge all’azione, alla riflessione politica, al dissenso verso una narrazione piatta, stereotipata e banale per scendere nel campo della finzione catartica, della dissidenza. Il tessuto degli eventi di quel non troppo lontano 26 aprile 1986 si intreccia inevitabilmente con la contemporaneità: l’esplosione della centrale di Černobyl’ ha innescato una qualche accelerazione nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e i riverberi di questa dissoluzione si dipanano ancora oggi nel presente. Se l’URSS esistesse ancora, se Černobyl’ non fosse mai esplosa, oggi la Russia non avrebbe avuto motivo di invadere l’Ucraina.
Resta quindi, alla fine dello spettacolo, un’immagine caleidoscopica di uno degli eventi che ha cambiato il modo di vedere le ombre della storia proiettate sul presente del mondo occidentale.

ČERNOBYL’

di Federico Bellini
regia Michele Sinisi
con Stefano Braschi, Federica Fabiani, Giovanni Longhin, Donato Paternoster, Isabella Perego, Marco Ripoldi, Adele Tirante
scene Federico Biancalani
costumi Cloe Tommasin
disegno luci Luigi Biondi
tecnica Ornella Banfi
aiuto regia Nicolò Valandro
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale

Teatro Fontana, Milano | 7 novembre 2023

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.