CHIARA AMATO* | All’interno del Casa di Reclusione di Opera, da ormai 15 anni, è attivo il progetto della compagnia Opera Liquida, che si pone l’obbiettivo della messa in scena di spettacoli originali, su temi di rilevanza sociale.
Il termine “liquido” all’interno del nome della compagnia vuole rimandare agli studi di Zigmunt Baumann, cercando di portare oltre le mura carcerarie sia una serie di conoscenze pratiche dei mestieri del teatro, sia per dare respiro alla creatività degli interpreti. Fulcro del progetto è la regia e la direzione artistica di Ivana Trettel: laureata al DAMS con Claudio Meldolesi, fra i primi a sostenere il bisogno di introdurre la pratica del teatro in carcere, e poi formatasi artisticamente sotto la guida di Renzo Vescovi, al Teatro Tascabile di Bergamo, nella scia dei maestri del Terzo Teatro, in primis Eugenio Barba.
La compagnia non si limita alla produzione di spettacoli originali, ma ha sviluppato diversi progetti: dal 2018 aderisce a Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza, esperienza coordinata da Armando Punzo della Compagnia della Fortezza di Volterra, che permette ai detenuti di sviluppare una vera e propria professione, con corsi di formazione per costumisti, per tecnici audio-luci e per designer-scenografi, avviando collaborazioni significative con artisti e arricchendo ulteriormente l’esperienza. Dal 2016 Opera Liquida utilizza il teatro come sostegno dei rapporti genitore recluso-figlio/i con i laboratori Bambinisenzasbarre nel carcere di Opera, restituendo al rapporto genitoriale la fisicità, la fiducia, il gioco, il rispetto, la conoscenza, che rischiano di essere perduti a causa della lontananza forzata. Andando più a ritroso nel tempo, dal 2014 ha portato all’interno delle scuole secondarie il progetto ideato dagli ex detenuti Stai all’occhio!, per la prevenzione di comportamenti a rischio nei giovani.
È una storia poetica e intensa che approfondisce la civiltà della Grande Madre: questa società, non belligerante, vissuta per 20mila anni, si basava sulla perfetta parità tra i generi ed era dedita alla ricerca di cultura e bellezza, per ribaltare l’idea di un male insito nella natura umana.
La regista si domanda (e ci domanda) durante un’intervista: «Perché non studiamo fin dall’infanzia questa straordinaria civiltà? Perché continuiamo a giustificare gli orrori del mondo affermando che è nella natura umana? Ecco, ci opponiamo a questa idea certi della possibilità di “Extravagare”, di trovare nuove strade anche grazie a un “Rituale di reincanto”».
L’unica presenza femminile in scena è Eleonora Cicconi, diplomata all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, che da quest’anno collabora con Opera Liquida come assistente di conduzione al laboratorio teatrale, attrice e formatrice.
Ai lati del palcoscenico, ci sono due strutture che faranno poi da “pulpito” a quattro personaggi che entreranno in un secondo momento, mentre al centro si erge un totem dedicato alla divinità: in una commistione di materiali diversi, come acciaio, legno e plastica, si erge una sagoma con la testa di un toro. Questa installazione, ispirata all’opera Grande oggetto pneumatico, realizzata a Milano nel 1959 dal Gruppo T, nasce dalla collaborazione della compagnia con l’artista cinetico Giovanni Anceschi. È il fulcro della scena.
Cinque attori circondano la figura femminile e sono tutti sono vestiti in maniera tribale. I costumi, su tinte chiare e neutre, richiamano alla semplicità e al rispetto della natura e dei materiali. L’idea, di Salvatore Vignola, designer di alta moda, è stata realizzata dai detenuti costumisti, sotto la guida di Tommaso Massone.
Anche nell’allestimento tecnico, a cura di Silvia Laureti, Mario Pinelli insieme ai detenuti tecnici audio-luci, si ritrova la spinta di autoproduzione della compagnia, e perfino nelle musiche. Infatti, il brano musicale Strange days, presente nello spettacolo, è stato ideato all’interno del carcere da Brian Storm.
Nella narrazione si alternano frasi scandite come annunci sacri, a forme di danze antiche, in particolare Orissi e Kathakali: non ci sono dialoghi veri e propri, non è presente una trama lineare, chiara, evidente. Il messaggio vuole arrivare al pubblico come una profezia, colpendolo in un substrato emotivo e inconscio, senza alcuna volontà di puro intrattenimento.
Le luci sottolineano la sacralità dell’azione creando effetti di luci e ombre alla maniera di Caravaggio: la scena, infatti, si scurisce quasi per intero, concentrando il punto luce su chi tiene la parola in quel momento, mentre gli altri attori restano in ombra, immobili o mentre effettuano dei micro movimenti con le mani.
Nel finale si assiste a una sfilata di tutti i personaggi, che scendendo tra il pubblico, portano sulle spalle, come un trofeo, un grande cordone ombelicale di plastica, gonfio d’aria. Questo gonfiabile, partendo dall’installazione centrale, proprio da quella Grande Madre, dea centrale e ispiratrice, unisce gli interpreti con la platea, in una collettiva catarsi di rinascita. Non a caso, anche la figura della testa del toro richiama la forma dell’utero femminile, come commenta la regista stessa a conclusione della performance. E così, tutto sembra diventare più chiaro e meno confuso e accennato.
Sono ostiche le parole scelte, i riferimenti culturali e le coreografie, spiazzando forse le attese di chi si avvicina per la prima volta a un’esperienza simile. Ma Opera Liquida è a tutti gli effetti una compagnia mista, con una predominanza quasi totale di interpreti detenuti, e questo è tangibile anche nella presenza scenica degli interpreti, ovvero Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Alessandro Bazzana, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Vittorio Mantovani, Papa Mor Tham, Nicolae Stoleru. La loro performance presenta, come è naturale in questo tipo di creazioni, piccole sbavature attoriali e tratti acerbi, ma con la giusta intensità e rispetto per la scena calcata.
A volte la parola sembra non essere in toto metabolizzata, ma accettata come bella e straniera dalla loro interpretazione, un po’ come chi sta imparando nuovi linguaggi e ne è colpito dalla bellezza.
I gesti sono armonici e c’è una buona padronanza dello spazio scenico, ma quello che colpisce ancora di più è la passione che traspare dagli sguardi, la fierezza del percorso fatto per arrivare, dopo un anno e mezzo di preparazione, a far giungere a chiare lettere il messaggio: un posto fisicamente chiuso ha fame di essere aperto al mondo.
Va dato atto alla regista di aver creato in questi anni non solo un progetto teatrale e una compagnia: quello che si percepisce, alla fine dello spettacolo, nella sua interazione con gli attori/detenuti e il resto dello staff, è la stima e l’affetto reciproco.
Trettel ha la capacità di trasportare lo spettatore in un non-luogo, nel quale ci si sente parte, anche se per poco tempo, di una famiglia, di una collettività comune.
EXTRAVAGARE. RITUALE DI REINCANTO.
in scena Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Alessandro Bazzana, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Eleonora Cicconi, Vittorio Mantovani, Papa Mor Tham, Nicolae Stoleru
costumi di Salvatore Vignola realizzati dai detenuti costumisti sotto la guida di Tommaso Massone
scenografia di Marina Conti e Ivana Trettel, con il contributo di Giovanni Anceschi
allestimento tecnico di Silvia Laureti, Mario Pinelli con i detenuti tecnici audio luci
il brano Strange days di Brian Storm
cura del progetto Nicoletta Prevost
drammaturgia e regia Ivana Trettel
Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera, Milano | 10 novembre 2023
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.