ANNA CRICHIUTTI* | La chiamano la Casa con il Teatro dentro. Si tratta di Casa Fools — Teatro Vanchiglia, l’unico teatro rimasto in piedi del quartiere Vanchiglia a Torino. Un teatro che non è solo un teatro, ma un punto di riferimento umano prima ancora che culturale per il territorio; un progetto popolare e inclusivo dove il teatro diventa possibilità d’incontro, dove gli avventori non sono soltanto clienti, ma amici.
Il prossimo appuntamento: 17 e 18 novembre Traviata Opera Pop, una produzione firmata Casa Fools Teatro Vanchiglia, SmartOpera e Lirica Francesco Tamagno-opera off.

Incontro Luigi Orfeo che, insieme a Roberta Calia e Stefano Sartore, ha rilevato nel 2018 il già esistente e vivo Teatro del Caffè della Caduta, trasformandolo in un vero e proprio rifugio culturale. Casa Fools è un’idea che prende vita tra i tavolini del bar-foyer antistante alla sala teatrale; un teatro che ospita concerti, spettacoli e laboratori; uno spazio che accoglie mostre e proposte artistiche differenti.

Casa Fools non è solo un teatro, ma uno strumento per stare insieme e rispondere all’esortazione classica conosci te stesso. Come nasce il vostro sodalizio e che cosa muove l’idea di Casa Fools?

Io e Stefano ci conosciamo da quando avevamo vent’anni. È stata la persona con la quale ho fatto la mia prima improvvisazione alla ‘Silvio d’Amico’. Abbiamo preso casa insieme e insieme abbiamo fronteggiato la sopravvivenza romana. Roberta l’abbiamo conosciuta qui, a Torino, dieci anni fa, quando abbiamo deciso di scappare dalle difficoltà di una città troppo faticosa come è Roma: era venuta a fare un provino per noi ed è stato un incontro umano e insieme artistico, un vero e proprio matrimonio, e da allora non ci siamo mai separati.
Casa Fools era uno dei più importanti teatri off di Torino, gestito dalla Compagnia della Caduta, e quando ci venne proposto di prenderlo in gestione non eravamo alla ricerca di un teatro nostro, ma di un posto dove il pubblico e il teatro si potessero incontrare.
Nasce così Casa Fools. La chiamiamo “la casa con il teatro dentro”, oltrepassando un’idea di teatro inteso come fruizione; ecco perché mettiamo l’accento sulla dimensione domestica di uno spazio che diventa luogo di incontro attorno all’arte in generale. L’edificio teatrale porta con sé un senso di ospitalità di cui ci vogliamo disfare.
L’idea di teatro che sposiamo ha una funzione: rappresenta un mezzo attraverso il quale il confronto emotivo tra le persone è molto più immediato. Ci porta a usare quest’arte per favorire l’incontro tra sensibilità e dare vita a una comunità culturale.
 
Ho letto di una all per spettatori: in cosa consiste?

Quando abbiamo rilevato il Caffè della Caduta ci siamo resi conto che in mano avevamo l’ultimo teatro rimasto in piedi del quartiere Vanchiglia. Ci siamo chiesti: come facciamo a prenderci la responsabilità di decidere noi l’intera programmazione culturale dell’unico teatro del quartiere? Gli spettacoli si decidono con il pubblico. 
A noi non interessa il regime di scambio: se si mettono spettacoli di passaggio, di passaggio sarà anche il pubblico. Quello che vogliamo è creare qualcosa nel territorio. Così, abbiamo pensato di condividere la programmazione della stagione che coinvolge i mesi da gennaio a maggio insieme a un collettivo di trenta spettatori del nostro pubblico.
Una prima scrematura da parte nostra lascia poi spazio alla democratica selezione di chi il teatro poi lo va a vedere.

Come siete riusciti a coinvolgere il pubblico?

Recuperavamo le persone per strada. Per uno spettacolo di Shakespeare ci siamo vestiti con i costumi di scena e recitavamo suonando per le  strade. Così, invitavamo personalmente le persone a teatro: pena il rimborso del biglietto.

I vostri laboratori non hanno solo come finalità la formazione teatrale, ma si sviluppano in un orizzonte umano più ampio: qual è il pensiero alla base di questo approccio?

Tra le attività di teatro e quelle di cinema contiamo circa una decina di laboratori che si suddividono per fasce d’età.
Aspiriamo a creare un luogo non solo fisico, ma concettuale, che si sposta con noi: significa fare teatro con una certa filosofia. Il teatro, in fondo, è un mezzo attraverso cui l’uomo conosce sé stesso e quindi l’altro. Gli approcci, allora, si realizzano in forme molteplici, ma con un unico intento: costruire spazio per la crescita di altri. 

L’importanza che per voi ha il fatto di creare una continuità tangibile nel territorio ha portato al progetto Kilometro Zero.

Sì, a partire dal fatto che la nostra visione del teatro non è concorrenziale. Gli spettatori che vanno a teatro sono solo il sette per cento: la concorrenza si smezza questa misera percentuale, invece che unirsi in un lavoro di squadra e incrementarla. Bisogna creare più pubblico, così stiamo meglio tutti. Creare una comunità culturale. Creare un ambiente culturale per aumentare pubblico attraverso una fruizione sistematica. Di qui, il nostro desiderio di costruire una rete sul territorio, rinforzando e sviluppando i rapporti tra le realtà che lo abitano. Il nostro obiettivo è che Casa Fools diventi un posto dove ci sia spazio anche per la crescita di altri.

Come se non fosse abbastanza, ogni anno il Festival delle arti popolari che organizzate rianima Via Bava in un giorno a cavallo tra l’ultima settimana di settembre e la prima di ottobre. È un evento che ha preso corpo nel tempo?

Dalla sua rilevazione ogni anno festeggiavamo l’inaugurazione di Casa Fools. Inizialmente, si trattava di una piccola festa con amici artisti, musica, laboratori e attività varie. Negli anni, la festa cresceva, arrivavano mostre, spettacoli, DJ-set, e moltissima gente. La pandemia, poi, ha imposto la fuoriuscita dai teatri e noi abbiamo colto l’opportunità che ci avrebbe potuto dare la strada: quella stessa strada abitata quotidianamente dal lamento straziante delle sirene sarebbe stata per un giorno invasa da musica, laboratori, acrobatica, biliardino, danza, pittura, spettacoli e concerti. Abbiamo messo insieme le competenze concretizzando le nostre idee sullo stare insieme in un’unica immagine di ventiquattro ore. E la festa è diventata un festival. 

Da un po’ ti dedichi anche all’opera in modo innovativo: attraverso un podcast proponi un nuovo approccio a un linguaggio che all’apparenza sembra lontano dalla sensibilità contemporanea. Come sei arrivato a concepire quest’idea?

Ho incontrato l’opera grazie alla mia prima ragazza: quando ci siamo conosciuti lei scriveva la tesi su Tosca. Una sera, dopo un invito a casa sua per vedere Carmen, non sospettavo proprio che l’opera sarebbe stata il destino di quella notte. Ma me ne sono innamorato.
Arrivando dal teatro sono entrato nel mondo del melodramma con sfrontato entusiasmo. Nel 2015 ho ricevuto la mia prima regia d’opera: Tosca, per l’appunto. 

Ho iniziato a raccontarla in conferenza stampa sotto richiesta dei miei colleghi — convinti del fatto che in quanto attore avrei avuto chissà che geniale pensata per promuoverla. Morale: l’anno seguente mi avrebbero confermato per Traviata solo se avessi replicato il successo di quel racconto.
Il piacere che provo nel raccontare l’opera mi è rimasto, anche pensando ai miei genitori che rimanevano affascinati dal mio lavoro, ma senza poterlo capire, né veramente apprezzare. Ho sempre pensato che si trattasse di una grande ingiustizia: che quest’arte così potente, popolare, efficace sull’animo umano fosse preclusa ad alcuni, perché appartenente solamente all’alto ceto, a chi poteva permettersi di studiare. In verità, Verdi voleva che le sue opere si cantassero nelle botteghe, non nei salotti. Quest’arte parla della gente normale, parla di noi. Bisogna portare le persone ad appropriarsene, l’opera è loro di diritto.
Il podcast mi dà l’opportunità di ovviare a questa che ritengo un’importante questione, di intervistare esperti per aiutare il pubblico non solo a comprendere la trama dell’opera, ma anche il motivo per il quale quella stessa storia continua a sopravvivere nonostante il passare del tempo. Perché dopo tanti anni Il flauto magico ancora viene ascoltato? Perché al suo interno risiede uno dei lasciti filosofici più importanti di Mozart. Se noi vogliamo capire chi siamo, chi siamo diventati, dobbiamo confrontarci con questa materia. Attraverso il Don Giovanni si intuisce quell’idea di libertà che intreccia l’ideologia della rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité. L’estrema ratio del concetto di libertà individuale.
Nel podcast racconto la storia, anticipo le azioni, rivelo i significati narrativi degli strumenti che compongono la partitura; alla fine del primo o del secondo atto di solito faccio finta di andare al bar e chiacchierare con qualcuno con il quale investigo i significati profondi ed eterni di questa forma d’arte.
E così Opera Pop è diventato uno strumento infinito, con cui ora faccio anche spettacolo.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.