RENZO FRANCABANDERA | Il Respiro del Pubblico Festival torna per la sua terza edizione a Firenze in queste settimane a cavallo fra Novembre e Dicembre. La rassegna, ideata da Cantiere Obraz, è ospitata per la gran parte degli eventi presso il Teatro del Cestello, nella omonima e centralissima piazza del capoluogo toscano, a pochissimi minuti a piedi dalla stazione di Santa Maria Novella, poco dopo aver oltrepassato l’Arno.
La volontà, anche per questa edizione, è ancora quella di concentrarsi sul ruolo, il peso e il potere dello spettatore, cui vengono offerte proposte diversissime, capaci di ingaggiarlo in esperienze fra di loro coerenti ma differenti per il tipo di rapporto che vanno a creare.
Quest’anno è stata scelta, come filo conduttore, l’immagine dei fantasmi, un concetto in qualche modo amletico, di assenza e presenza, e di evocazione di qualcosa che manca o che, se c’è, è diverso da come lo immaginiamo, ma soprattutto di qualcosa che dialoga dall’altro lato della soglia. Anche gli spettatori sono alle volte fantasmi di cui si avverte solo vagamente la presenza, al confine del proscenio in cui ciò che esiste vive solo nel momento di massima finzione.
Abbiamo intervistato gli ideatori e direttori della rassegna, Alessandra Comanducci e Paolo Ciotti di Cantiere Obraz, che da anni lavorano sul territorio fiorentino con la loro produzione e azione culturale.
Alessandra e Paolo, anche quest’anno siete riusciti a riproporre la rassegna autunnale. Quali sono gli indirizzi della direzione artistica che hanno portato a comporre il programma?
Lo spettatore è sempre al centro della nostra ricerca e questa indagine, partita nelle piazze “pandemiche” o forse prima, non si è ancora esaurita, anzi si rinnova costantemente e lavorando sulla relazione artista/spettatore non potevamo far altro che confrontarci con il binomio dialogico assenza/presenza. Ispirati dal progetto Fantasmi di Michele Santeramo, che quest’anno abbiamo ospitato per la seconda volta, abbiamo immaginato che ci fossero due realtà, entrambe vive, quella dei personaggi e quella degli spettatori, due realtà che scorrono parallele.
Il rito teatrale, il momento assembleare dell’incontro, apre una porta e quella porta è il teatro; così le due presenze entrano in contatto e in quel momento determinano la loro esistenza. Un po’ come nel film The Others, in cui non sai mai fino all’ultimo chi è vero e chi è l’Altro, ma alla fine devi relazionarti con entrambi i lati della soglia, perché le due presenze sono consustanziali.
Quale caratteristica distintiva ritieni abbia questo festival rispetto alle altre proposte del territorio fiorentino e toscano in generale?
La Toscana è ricca di realtà e proposte che fanno molto bene al teatro italiano; mi riferisco non solo alle compagnie toscane d’eccellenza (abbiamo l’onore di ospitarne alcune nel festival), ma anche ai festival e agli spazi di residenza e produzione che negli ultimi quindici anni sono diventanti luoghi di fondamentale confronto fra artisti, critici e operatori. E anche Firenze offre molto agli amanti del teatro, soprattutto attraverso le stagioni teatrali e i numerosi festival estivi.
Credo, però, che la differenza e la nostra forza siano qui: noi veniamo dal basso, presidiamo il territorio da anni senza preconcetti, lo innerviamo di teatro. Andiamo a prendere gli spettatori uno per uno, perché l’obiettivo è portare a teatro non solo chi lo ama e lo frequenta, ma anche chi ne è digiuno.
Per fare questo abbiamo scelto di attrarre grandi professionalità e grandi umanità e metterle in contatto con il pubblico più puro. È da questa esigenza, per esempio, che è nato il nostro progetto di formazione del pubblico dedicato agli adolescenti, Ciuchi Mannari – scuola di critica, in cui alcuni fra i più importanti critici nazionali incontrano ragazzi che di teatro sanno pochissimo. La nostra poetica, insomma, è quella di promuovere un teatro per tutti che abbia caratteristiche intergenerazionali, ambientali ed etiche, di scambio e soprattutto di crescita del singolo al fine di essere utili alla comunità.
Quali eventi avete già programmato e quali sono i prossimi appuntamenti? Potete dirci qualcosa in breve per suggestionare gli spettatori e permettere loro di venirvi a trovare?
In questo momento del festival siamo proprio al giro di boa. Abbiamo già ospitato il Teatro dei Borgia con il loro ultimo lavoro Antigone – Cerimonia con canzoni al Cimitero Evangelico degli Allori: uno spettacolo che affronta il tema del lutto e del dolore chiamando il pubblico ad una partecipazione emotiva non banale; abbiamo poi ospitato Riccardo III, il secondo appuntamento della trilogia Fantasmi di Santeramo e per la prima volta Macondo, il visionario lavoro di Silvia Mercuriali che ha portato cento spettatori sul palco del Teatro di Cestello a partecipare attivamente alla sua performance. Ed è proprio al Teatro di Cestello che si apre la terza settimana del nostro festival: una vera e propria staffetta di spettacoli che coinvolgeranno in vari modi gli spettatori.
Iniziamo il 23 novembre con B.E.A.T teatro che porta a Firenze per la prima volta La Vacca, prodotto in collaborazione Nuovo Teatro Sanità di Napoli e che è spettacolo finalista del Bando Rete Inventaria 2023; il 24 novembre Monia Baldini presenta Be my guest, one-woman show programmato in tutti i più importanti Fringe d’Europa (Edimburgo, Milano, Catania, Istanbul). Il 25 novembre è la volta di Riccardo Rombi che interpreta un Cupido adulto e disilluso in Non vorrei parlar d’amore, produzione Catalyst, compagnia di riferimento del teatro fiorentino. Nell’ultima settimana ospiteremo due eccellenze del teatro toscano: Sotterraneo con Shakespearology (28 novembre), vincitori del loro terzo premio Ubu e Arca Azzurra di Ugo Chiti con Bottegai (1 dicembre).
Come è evoluta nel tempo la dinamica artistica e progettuale della vostra compagnia? Pensavate sareste andati in maniera così forte sull’organizzazione di festival e rassegne come state facendo negli ultimi anni?
Immagino che “andare forte” sia come “avere successo”. E la parola successo, onestamente, non mi piace, anzi mi fa paura. Perché il successo è successo, è accaduto, è passato. Invece la nostra azione ha come motore sempre acceso lo studio, il ragionamento sull’utilità della nostra operazione culturale e soprattutto una grande cura e rispetto del lavoro degli artisti, che non possono essere “prodotti ” da inserire in un programma.
Noi vogliamo creare occasioni in cui incontrare le persone e, grazie a queste, abitare attivamente la città che è il luogo privilegiato dello scambio contemporaneo. Fin da quando abbiamo pensato Naturesimo o quest’anno il teatro diffuso di Urbano Fantastico, ma anche proprio nella concezione del format il Respiro del Pubblico, continuamente ritorna in noi l’idea di un teatro politico, politico nel senso di appartenente alla polis, alla cittadinanza. Politico e non polemico.
Quindi, quando mi chiedi se me lo aspettavo, non so rispondere; mi viene in mente solo il motto del maestro russo Karpov con cui abbiamo studiato per anni che di fronte a ogni nuova sfida diceva sempre: «Davayte rabotat’! – Lavoriamo!»
Il pubblico che frequenta il nostro festival è estremamente eterogeneo sia per età che per formazione teatrale, però, noto che negli anni si sta sviluppando una certa forma di fidelizzazione: gli spettatori tornano, e non solo più volte durante la stessa edizione, ma anche da un anno all’altro per vedere il nuovo lavoro di una compagnia che hanno incontrato l’anno precedente.
Inoltre, quello che noto è che, in questo momento storico, la gente ha bisogno di storie in cui specchiarsi e a cui partecipare. Ed è proprio la partecipazione ciò che attrae; ci tengo a specificare che partecipazione non è solo intervenire interattivamente nello spettacolo, ma è appunto un concetto più profondo legato alla presenza attiva, alla vicinanza con l’atto teatrale a quell’idea che lo spettacolo avviene così solo perchè quella sera c’ero anche io. Sembra una cosa “da giovani”. E si potrebbe dire che il nostro è un festival giovane, ma in realtà non è così. E non lo è solo perché noi non siamo proprio di primo pelo, ma anche perché nella sua natura affonda le sue radici in qualcosa di molto antico: la condivisione di un momento.
Quando iniziamo il nostro programma di formazione nella scuola di critica coi ragazzi la prima domanda è: “Quando inizia lo spettacolo?”. La seconda è: “Quando finisce lo spettacolo?”. Durante le tre edizioni del festival, grazie al laboratorio di critica, abbiamo esperito, molto stimolati dalle riflessioni dei nostri critici/docenti, che lo spettacolo inizia quando scegli lo spettacolo, poi metti il cappotto, sfidi il tempo (o forse l’alluvione) e esci di casa; e finisce quando smetti di parlarne, o di pensarci, molto dopo che sei uscito dalla sala. Quel momento in cui tutti si confrontano, indipendentemente dallo spettacolo, mi sembra che sia quello più cercato in questo momento. È sicuramente retorico dire che le persone ricercano l’essere attivi come spettatori, come cittadini, condividere la riflessione di una stessa esperienza fra esseri umani diversi, però per l’esperienza del Respiro del Pubblico Festival, oltre a essere retorico, è anche vero.