RENZO FRANCABANDERA | E alla fine per i detenuti sono arrivate anche le repliche sui palcoscenici di ERT, a Modena, per un duetto shakespeariano preparato per mesi, faticosamente. Per chi si occupa di teatro in carcere, la difficoltà di ottenere repliche in un teatro fuori dal carcere è nota.
Quando si è poi in stagione, arrivando a proporre due esiti compiuti e interessanti, animati da uno spirito omogeneo dentro compagnie miste in cui è a volte difficile distinguere gli attori professionisti da quelli che hanno abbracciato la pratica artistica come occasione di rinascita, i
l risultato va segnalato. Ed è il caso di Giulio Cesare e Amleto di Teatro dei Venti (con la collaborazione e in un caso la coproduzione di ERT – Emilia Romagna Teatro).
Le due creazioni portano la firma alla regia di Stefano Tè e sono andate in scena in sequenza al Nuovo Teatro delle Passioni a Modena, con un grande successo di pubblico.
Si tratta di due adattamenti del classico del Bardo che tuttavia non tradiscono il testo originale, e che utilizzano in entrambi i casi un contrappunto sonoro, che non è un sottofondo ma è proprio controcanto drammaturgico, affidato per Giulio Cesare alla viola di Irida Gjergji e per Amleto, al pianoforte di Alessandra Fogliani. Una dimensione drammaturgica che crea uno spazio emotivo specifico e particolarissimo per i due lavori, fruiti in questo contesto in modo davvero ravvicinato dal pubblico, praticamente a ridosso della scena.

Foto Davide Mari

Di questi spettacoli occorre segnalare non solo il contributo degli attori in scena formati all’interno dell’esperienza carceraria ma anche il contributo delle maestranze, essendo entrambi parte di AHOS All Hands on Stage, progetto cofinanziato dal programma Creative Europe con l’intento di formare professionalità per il reinserimento dopo l’esperienza carceraria.

Dei due pregevoli esiti e di tanto altro abbiamo parlato con uno dei fondatori del Teatro dei Venti, il regista Stefano Tè, figura divenuta di riferimento in Italia per molte realtà che si occupano non sono di realizzazioni per la scena dentro l’ambiente carcerario ma anche di welfare culturale, Tè è anche un pensatore di grandi e visionari allestimenti di teatro di strada, culminati nell’incredibile esperienza del Moby Dick, cui è stato assegnato anche un premio Ubu.

ph Chiara Ferrin

Stefano, un mese con due lavori di Teatro dei Venti che approdano sui palchi di ERT. Come è stato possibile arrivare a questi risultati e che attività c’è dietro?

Adesso che le repliche sono finite possiamo dire che è stato un punto di approdo ma  anche un punto di partenza, di rilancio per nuovi progetti o semplicemente per sperimentare un nuovo modo di lavorare, all’interno e all’esterno del Carcere.
Sono felice che l’ingresso del Teatro dei Venti nella Stagione di ERT sia avvenuto con due spettacoli prodotti in Carcere, perché quello è uno dei luoghi del nostro lavoro quotidiano. È banale dirlo ma siamo arrivati a questi risultati grazie a un impegno che dura da diciotto anni, grazie a una rete che ha accompagnato i progetti, mettendoli anche alla prova ma senza ostacolarli. In Carcere siamo ospiti di un luogo che non è deputato alla creazione artistica, che ha un’altra funzione, con obiettivi spesso diametralmente opposti. Ma è in luoghi come questi che il nostro teatro acquisisce un senso ulteriore, diventando strumento di relazione e trasformazione.
Sicuramente dobbiamo ringraziare la sensibilità di ERT e del direttore Valter Malosti, che hanno voluto investire, prima in una collaborazione produttiva con Odissea all’interno del Carcere di Castelfranco Emilia e con Giulio Cesare all’interno del Sant’Anna, poi con una coproduzione vera e propria per l’Amleto.

Partiamo dal Giulio Cesare. Che spettacolo è, da quali idee nasce?

Dopo l’operazione complessa, visionaria, dell’Odissea, che nel 2021 ha attraversato due carceri, un teatro, gli spazi urbani, Giulio Cesare nasce dalla necessità di misurarci con una dimensione più intima, attraverso la sintesi e il cesello. Nasce da un’idea di asciuttezza, di scarnificazione, ma anche dalla volontà di confrontarsi con temi universali che parlano alla singolarità di ogni persona, Amicizia, Devozione, Tradimento, attraverso un testo, parola per parola. Ascolto e riverbero.

ph Chiara Ferrin

Con questo spettacolo abbiamo inaugurato il Teatro del Carcere Sant’Anna di Modena, nel dicembre del 2022, uno spazio attrezzato e polivalente, con una dotazione tecnica che consente di ospitare spettacoli e prove. Giulio Cesare è nato su misura per quello spazio, con l’idea che il pubblico fosse in prossimità della scena, che prendesse posizione rispetto alle vicende, per questo la passerella centrale, sulla quale passa la Storia, e il pubblico –  come in un tribunale –  osserva e si fronteggia.

Poi c’è Amleto che ha già debuttato la primavera scorsa in un’anteprima a Castelfranco. Come è nato e perchè? È lo stesso spettacolo dell’anteprima o in questi mesi si è modificato? 

È nato con le stesse prerogative di Giulio Cesare, ovvero la scelta di lavorare con un classico, lavorare con il testo, misurandoci con Shakespeare, con un’aderenza che ci mette alla prova. Anche questo spettacolo è nato in stretta relazione con il Cacere, come opera di artigianato teatrale a tutto tondo, come campo di sperimentazione del progetto europeo All Hands on Stage, che ha la finalità di creare percorsi di formazione e professionalizzazione nei mestieri tecnici e artigianali che ruotano intorno alla scena. Infatti uno dei detenuti che lavorano allo spettacolo ha disegnato scene e costumi, un vero talento che potrebbe trovare, grazie al teatro e grazie a questo progetto, uno sbocco lavorativo quando sarà fuori dal carcere.

ph Chiara Ferrin

Dopo l’anteprima di maggio 2023, in cui abbiamo disteso tutto il progetto di spettacolo, come una grande mappa, che mostrava cesure, passaggi, esitazioni, ripetizioni, per il debutto al Nuovo Teatro delle Passioni abbiamo lavorato per arrivare all’essenziale, facendo scelte drammaturgiche, visive e musicali a servizio di un ritmo più serrato. Lo spettacolo è pronto adesso per andare in tournée, è questa la nostra intenzione, con le difficoltà che comporta la complessità del progetto. Il 17 dicembre saremo ad Arienzo, in provincia di Caserta, per il Festival Dialoghi di libertà, il 25 gennaio a Maranello, in provincia di Modena, nella Stagione dell’Auditorium “Enzo Ferrari”, a cura di ATER Fondazione.

Teatro dei Venti è diventato un progetto che oltre alla compagnia e all’attività in carcere ha sviluppato un Festival, Trasparenze, il progetto Gombola, e altre iniziative di welfare culturale sul territorio. Come metti insieme questi pezzi?

Trasparenze negli anni ha cambiato forma, più volte, da Festival classico è diventato sempre più il contenitore e il catalizzatore della nostra azione di presidio e di prossimità sul territorio. Che poi è la nostra cifra nella creazione artistica. Questa azione di prossimità, che corrisponde alla nostra vocazione da sempre, si è rivelata negli ultimi anni, soprattuto durante la pandemia, come una necessità ancora più marcata. Le comunità hanno riconosciuto il valore del teatro, hanno voluto la nostra presenza e hanno aderito a progetti anche molto complessi, riconducibili a una istanza che chiamiamo Abitare Utopie, un progetto nato per mettere in relazione tutti i luoghi in cui operariamo, il Carcere, il quartiere in cui ha sede il Teatro dei Venti, l’ambito della Salute Mentale, e Gombola, l’Appennino, un’altra declinazione del margine e della periferia, altro luogo distante dal “centro”, nel quale il nostro teatro acquista senso. Direzione.
In Appennino, la nostra intenzione è quella di continuare a sperimentare un progetto di residenzialità artistica a stretto contatto con la comunità. L’esperimento è partito nel 2020 intorno alla gestione dell’Ostello, al recupero dell’Antica Chiesa di San Michele, dei sentieri che attraversano il territorio, del patrimonio culturale immateriale. Un luogo che abbiamo saputo ascoltare e che sta cambiando il nostro modo di fare teatro. Un contesto scomodo, fuori mano, che chiede di adeguare la nostra pratica artistica, per connetterla ancora pdi iù al territorio, al bosco, ai sentieri, agli abitanti, per costruire legami genuini tra artisti, luoghi e spettatori. I tre anni trascorsi hanno mutato il Teatro dei Venti.
Le tessere di questo mosaico si mettono insieme per attrazione, per contaminazione, perché noi attribuiamo un valore agli accostamenti inediti, a ciò che sposta il baricentro, per procurare una piccola o grande spinta di movimento, di trasformazione.

Ti ritieni in qualche modo oltre che un creativo anche un imprenditore della cultura? Ha senso poter usare questo termine senza che suoni “stonato”?

Imprenditore della cultura risulta stonato perché il termine “imprenditore” ha anche un valore nella definizione legata all’economia, al guadagno e al profitto. Questo è un argomento delicato quando si ha a che fare con la creatività, perché la creatività è visione, non è detto che sia guadagno o investimento economico che porta profitto. Molto spesso si tratta di visioni fuori portata che hanno un forte impatto sulla vita sociale e culturale, ma non hanno un rientro economico immediato.
Imprenditore ha anche “impresa” al suo interno, ma sono le imprese epiche che mi attraggono, le imprese visionarie, le imprese oltre i confini e i limiti che mi affascinano e ci ispirano. Poi è un dato di fatto che il Teatro dei Venti, pur inseguendo questo tipo di visioni, ha, negli ultimi anni legati al dopo Moby Dick, incrementato il suo giro di risorse, ha potuto investire su persone che ora lavorano all’interno del Teatro dei Venti, che prima erano membri della Konsulta o Abitanti utopici, persone che si sono avvicinate al Teatro dei Venti a piccoli passi e ora sono parte del gruppo, sono tanti i dipendenti in questo momento che sono parte integrante del progetto e della visione collettiva, vengono dalle radici perché hanno condiviso un avvicinamento che non è dettato da un interesse economico ma da un credo, una fede, un radicamento che va oltre il discorso economico.

Hai creato negli ultimi anni spettacoli visionari e hai un altro grande progetto che sta crescendo a fari spenti ma non troppo. Ce ne parli? 

La Misura Umana è la nostra nuova grande sfida negli spazi urbani, il prossimo obiettivo ambizioso dopo Moby Dick. Ci immaginiamo una grande macchina scenica, una marionetta alta 15 metri che incarna la Soluzione, la perfezione anche meccanica, l’individualità. Un grande Uno che vale più del tutto e il tutto risolve.
Lo spettacolo sarà un passaggio da questo Uno a Tutti, dall’Io al Noi. Affrontiamo quindi lo sgretolamento, la distruzione dell’individualità, la disperazione che ne consegue e ci domandiamo come si possa ricostruire, che forma abbia il nuovo vivere e il nuovo relazionarsi tra gli esseri umani. La marionetta, infatti, a un certo punto si distrugge sotto gli occhi dei suoi artefici che, dopo aver affrontato lo sconforto più profondo, dai suoi pezzi costruiscono una città utopica, un nuovo spazio da abitare. La città eretta non sulle ma dalle macerie della marionetta prende forma sotto gli occhi degli spettatori, e la città stessa ha bisogno della collaborazione degli spettatori per vivere. Gli attori che fino a quel momento hanno manovrato la macchina, l’hanno celebrata, l’hanno pianta e le hanno cambiato forma, ora la consegnano al pubblico.
Lo spettatore si trova a dover interagire con gli altri per attivare il luogo: pedala biciclette per dare luce, suona un carillon per dare suono, attiva una fontana per avere acqua. Il pubblico diventa attore, abita la città che vive grazie al suo intervento e alla collaborazione con gli altri. È l’umano che, affrontando la perdita dell’Io, si estende, si rigenera, accoglie, diventa Noi. Lo spettacolo non finisce, è un evento che prosegue e si anima per tutta la notte. La città a sua volta ospita altri eventi, viene abitata e gestita dagli spettatori.
Con questo vogliamo portare in scena il nostro modo di fare teatro: un teatro vissuto, partecipato, consegnato, che si prende cura, che crea relazione, che accoglie.

C’è un pizzico di follia in tutto questo?

C’è un pizzico di follia? Assolutamente, è folle. È folle se si tiene come riferimento il tempo che viviamo, i tempi che viviamo, in cui si sceglie in base al guadagno, alla visibilità, si sceglie in base all’immediatezza del risultato, al tutto subito.
E quindi è da folle percorrere una strada contraria, che va invece verso un noi che supera l’io, un credo che parte da una visione che ha bisogno della collettività, di un ampliamento dei partecipanti che diventano movimento, che diventano una mobilitazione. Questo movimento opposto, questa mobilitazione contraria ai tempi è follia se si guarda dal punto di vista esterno, di chi percorre un’altra via, che guarda il nostro movimento al contrario e ci vede come matti.
Io personalmente ritengo folli gli altri, quelli che percorrono la strada semplice, diretta, che magari rende più gonfi e satolli ma meno soddisfatti, meno densa l’esistenza. Quindi preferisco stare da questa parte della strada e guardo da quella parte di là e là vedo dei folli.

GIULIO CESARE

da William Shakespeare
drammaturgia Massimo Don, Stefano Tè
regia Stefano Tè
spettacolo prodotto all’interno della Casa Circondariale di Modena

musica dal vivo Irida Gjergji
costumi Nuvia Valestri, Teatro dei Venti
luci Stefano Tè e Luigi Pascale
audio Luigi Pascale
tecnico luci e audio Eric Benda
assistente alla regia Francesco Cervellino
produzione Teatro dei Venti
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna
con il contributo di Fondazione di Modena all’interno del progetto Abitare Utopie e BPER Banca
foto di Chiara Ferrin
nell’ambito di AHOS All Hands on Stage progetto cofinanziato dal programma Creative Europe

AMLETO

da William Shakespeare
drammaturgia Vittorio Continelli, Stefano Tè
regia Stefano Tè
spettacolo prodotto all’interno della casa di Reclusione di Castelfranco Emilia
musica dal vivo (pianoforte) Alessandra Fogliani

maschere (costruzione e azioni fisiche) Valentino Infuso
costumi Nuvia Valestri, Maria Scarano – Atelier Polvere di Stelle, Teatro dei Venti
trucco Valentina Fogliani
luci Stefano Tè e Luigi Pascale
audio Luigi Pascale
tecnico luci e audio Eric Benda
assistenza alla regia Francesco Cervellino
ideazione scenografia Stefano Tè
progettazione della scenografia e dei costumi a cura di F. M.
foto di Chiara Ferrin
produzione Teatro dei Venti, Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT / Teatro Nazionale
con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna
con il contributo di Fondazione di Modena all’interno del progetto Abitare Utopie 
con il contributo di BPER Banca
nell’ambito di AHOS All Hands on Stage progetto cofinanziato dal programma Creative Europe