GIANNA VALENTI | Se c’è un’immagine capace di riassumere la visione coreografica di Pina Bausch è quella di corpi che incarnano gesti per portare sulla scena un fotogramma dell’umanità osservata o un flashback della propria storia: gesti quotidiani, sociali o simbolici che si fanno segno teatrale reiterato, struttura di sostegno nel linguaggio delle azioni fisiche o che si trasformano nei frammenti primari di un fraseggio danzato. È questa centralità gestuale nell’identità coreografica di Bausch che ha fatto scegliere The Nelken-Line, l’iconico girotondo di gesti dal lavoro Nelken del 1982, per celebrare i dieci anni della sua morte nel 2019.
Ed è la riduzione della danza a gesto espressivo, radicato nell’esperienza, nella memoria, nel quotidiano e nel sociale ciò che maggiormente colpisce del lavoro coreografico della Bausch quando il Tanztheater Wuppertal arriva a New York alla Brooklyn Academy of Music nell’ottobre 1985 per il Next Wave Festival, portando The Seven Deadly Sins (I Sette Peccati Capitali) del 1976, Arien del 1979, Kontakthof del 1978 e Auf dem Gebirge hat man ein Geschrei gehört (Sulla Montagna si è sentito un grido) del 1984.
La BAM-Brooklyn Academy Of Music ha un archivio digitale on line e qui potete trovare alcuni dei materiali di sala e le foto del festival del 1985, con altre fuori scena e ritratti della Bausch.
Nel pubblico della danza e nella critica americana, l’incontro con il tanztheater crea disagio e incomprensione ma anche desiderio di ricercare provenienze e isolare filiazioni per quello che si vede in scena. A creare disagio non è tanto la semplificazione del gesto come movimento danzato o la percezione dell’identità teatrale che supera quella coreografica, ma il livello di violenza percepita nei rapporti di genere sulla scena, la mancanza di un accompagnamento alla loro visione, ma ancor più la quasi totale incomprensione per la tecnica del montaggio che Bausch utilizza a livello coreografico, registico e come forma di comunicazione con il proprio pubblico.
In occasione dell’arrivo in città del Tanztheater Wuppertal, la BAM e la Goethe House di New York organizzano il simposio German and American Dance: Yesterday and Today e, l’anno successivo, TDR ne pubblica alcune trascrizioni, insieme ad alcuni interventi critici e storici su Pina Bausch e il tanztheather. *
Due mondi si incontrano, si confrontano e cercano di riconoscersi a vicenda: il mondo americano che ricerca l’espressività coreografica nella semplificazione dei contenuti, che cita il modernismo di Paul Taylor, motion not emotion, che applica uno sguardo e un linguaggio che si nutre di modernismo quando valuta lo sviluppo di una partitura coreografica o di postmodernismo quando a essere valutati sono i materiali di movimento; il mondo della Germania Ovest, con il critico di danza Jochen Schmidt, chiamato a difendere il tanztheater dalle accuse di debolezza formale, di pesantezza espressiva, di insistenza eccessiva sulle relazioni di genere e di incompiutezza coreografica per l’assenza di chiavi di lettura sui temi presentati, ma anche chiamato a difenderne le scelte formali dalle accuse di noia legate all’uso eccessivo della reiterazione dei movimenti o da quelle di disorientamento per l’uso del montaggio. Due codici compositivi che lo sguardo americano legge come incapacità di dare forma coreografica compiuta ai materiali scenici.
L’introduzione storica è di Susan Manning e Melissa Benson che presentano l’arrivo del tanztheater negli Stati Uniti come un evento capace di dare continuità a quel legame tra modernismo americano ed espressionismo tedesco che, dopo la nascita e la crescita parallela a inizio Novecento, si era dissolto per l’indebolimento del filone europeo con l’avvento del nazismo e per la sua mancata ripresa nella Germania Ovest dopo la seconda guerra mondiale.
Per le due relatrici, la programmazione di Pina Bausch alla BAM, insieme a quella di Reinhild Hoffmann e Susanne Linke (le altre due coreografe come Bausch cresciute alla Folkwang Schule di Essen e studentesse con Kurt Jooss), segna il riavvicinamento storico tra i due mondi e disegna un arco temporale che rimette in connessione la contemporaneità con una tradizione coreografica modernista che eleva l’espressione personale ed emotiva al di sopra di quella formale.
Le conclusioni, a fine giornata, sono di Ann Daly, editor della Drama Review, che ritiene la maggior parte dei critici americani incapace di leggere le proprietà formali e strutturali del lavoro di Bausch e i critici tedeschi incapaci di leggere le qualità espressive (e non necessariamente di espressione emotiva) della danza postmoderna americana, così da rendere visibili e concreti i modi assolutamente diversi che le due culture hanno di leggere il movimento.
“The way we see things is affected by what we know or what we believe.” (Il modo in cui vediamo le cose è influenzato da ciò che sappiamo e da ciò in cui crediamo.) John Berger.
Per comprendere lo shock Bausch si cerca subito una filiazione che possa fornire griglie di senso e di orientamento, così il modernismo espressionista di Mary Wigman fa definire neoespressionista Bausch, con un’etichetta che viene subito dismessa, perché al di là di uno stesso seme di provenienza che si radica nel valore di un’esperienza interiorizzata capace di generare una comunicazione coreografica, il tanztheater contiene molto e altro e le distanze con l’espressionismo rimangono ampie.
Wigman lavora con quello che lei stessa definisce un’esplosione emotiva che rende poi comunicabile attraverso un lavoro rigoroso di disciplina autoimposta, una sorta di prima generazione motoria che viene declinata seguendo regole compositive ben precise: da un lato la trasformazione dei movimenti attraverso le regole spaziali e dinamiche del suo maestro Rudolf von Laban, dall’altro l’evoluzione della partitura coreografica seguendo la regola modernista dell’affermazione di un tema e della sua manipolazione, come per esempio una struttura di inizio, sviluppo e fine, ABA, o di un tema e delle sue infinite variazioni.
E sebbene certi momenti danzati nei lavori della Bausch siano carichi di un’atmosfera neoespressionista, la coreografa lavora sul segno motorio non per costruirne lo sviluppo come in una partitura modernista, ma per portarlo a un’essenza attraverso un’operazione di semplificazione e di condensazione.
È su questo piano della riduzione e della compressione che si inserisce lo sguardo americano che legge nel suo lavoro un dissolversi del movimento come danza, un’indifferenza coreografica e una labilità strutturale, sino a una vera e propria assenza di forma.
Anna Kisselgoff, critico del New York Times, chiede ai presenti del disinteresse formale nella coreografia tedesca e della rinuncia ai materiali danzati, così che Lutz Förster, membro storico del Wuppertal Tanztheater e, allora, anche direttore artistico associato della Jose Limone Dance Co., racconta del percorso di creazione per Arien, uno dei lavori presentati alla BAM, con un inizio con molto materiale danzato di circa dieci frasi e un finale in cui tutto si concentra in due grandi scene (che a suo giudizio sono tra i materiali di movimento più belli che il gruppo abbia coreografato); eppure, molte delle frasi di danza con cui il lavoro era iniziato erano state tagliate mentre altri materiali di movimento più semplici avevano finito per diventare più forti della danza stessa: “Pina inizia sempre con molto movimento e durante il processo scopre cose che sono molto più forti. Prova sempre. Non si tratta di uno sforzo cosciente per non muoversi.” *
Oltre il neoespressionismo, oltre il lavoro sui materiali come semplificazione e ricerca di un’essenza, oltre il balletto, che è il codice che non appare e che prepara i corpi dei danzatori, il tanztheater è anche teatro sperimentale radicato nelle avanguardie e nel postmodernismo anni Sessanta. Eppure, anche se siamo a New York alla fine di quasi tre decenni di sperimentazione nelle arti performative, la seconda grande incomprensione si gioca sull’uso del montaggio, sull’assenza di uno sviluppo drammatico e sulla solitudine dello spettatore rispetto al senso della visione.
A colpire lo sguardo americano è la disconnessione strutturale delle diverse scene – ben costruite e poi abbandonate senza essere sviluppate – e la ripetizione sempre uguale di azioni che non danno una via d’uscita alle situazioni rappresentate e agiscono sullo spettatore un diverso e secondo tipo di abbandono. È la voce tedesca di Schmidt a intervenire per sostenere le tecniche del montaggio e del collage e per dichiarare che “I lavori di Pina Bausch sono molto più vicini a un film di Eisenstein che a un balletto classico o narrativo. Raccontano cose, ma non raccontano storie.” *
Qualche voce americana vi associa il Living Theater, altre ricordano che il lavoro sul collage è stato presente nel postmodernismo e continua ancora nel lavoro di alcuni coreografi, altri fanno completamente barriera difronte all’assenza di uno sviluppo dei materiali e di un accompagnamento alla visione, dando testimonianza di un’ottica modernista ancora molto radicata nella contemporaneità.
Oltre al Living Theater, anche il nome di Jerzy Grotowski viene fatto per dare senso a una griglia interpretativa, del resto gli attori del Polish Lab Theater erano attivi nello sguardo americano già dagli anni Sessanta e i lavori di Grotowski, come avviene per Bausch nel 1985, erano stati presentati alla Brooklyn Academy of Music nell’autunno del 1969 e nel 1982, a soli tre anni dall’arrivo in città della coreografa, il regista polacco si era trasferito definitivamente come esule politico a New York.
L’avvicinamento probabilmente nasce dalla comune tensione per dare forma a un’esperienza interiore: i danzatori/attori del Wuppertal tradiscono il mutismo della danza, rivelano le loro vite e offrono le loro esperienze come materiali per la scena ma Marcia B. Siegel non legge nei loro corpi una verità nell’uso della memoria del corpo: “Questa non è veramente danza e questa non è certamente coreografia, ma è fisico al di là di ogni altra cosa i danzatori debbano mai fare. […] Ciò che fa la differenza dal teatro anni Sessanta… è che i performers della Bausch spesso devono fingere.” **
Il riferimento più interessante per la teatralità e il lavoro sulla gestualità della Bausch è Siegel che la avvicina al lavoro di Anna Sokolow, coreografa, pedagoga e voce storica della danza e del teatro americano, forse l’espressione più contemporanea all’interno del modernismo. Sokolow aveva studiato con Louis Horst, compositore che per il modernismo americano aveva avuto lo stesso ruolo di John Cage per il postmodernismo, aveva danzato con Martha Graham ed era stata invitata nel 1947 da Elia Kazan come membro fondatore dell’Actors’ Studio, dove avrebbe poi insegnato. Sokolow, nel 1958, entrava anche a far parte della facoltà della Julliard School dove sarebbe rimasta sino al 1993, lì dove Bausch avrebbe studiato nel 1960-61.
Non ci sono notizie su un incontro tra la coreografa tedesca e Sokolow, ci racconta Siegel, ma Bausch aveva danzato per un periodo con il suo discendente diretto, Paul Sanasardo, e il secondo lavoro più famoso della Sokolow, Dreams, è del 1961, proprio mentre Bausch si trova a New York.
Sokolow, come nel method acting, chiamava le emozioni per nome, non raccontava storie e indagava forme per comunicare emozioni; parlava di memoria, di memoria del corpo, insegnava method dancing e lavorava in sale per attori dove le sedie erano sempre disponibili. Il suo lavoro più iconico, Rooms (1955), metteva in scena sedie, solitudini umane e una gestualità molto ridotta (qui in un montaggio di una versione ricostruita da notazione). Come Bausch, Sokolow inseguiva la semplificazione del segno motorio e gestuale al di là degli idiomi della danza, alla ricerca costante di forme che potessero comunicare in maniera non superflua il suo sguardo sulla realtà e sulla società.
È singolare che Kurt Jooss, il maestro di una vita per Bausch e l’artista che le avrebbe insegnato lo sguardo sulla società e sulle relazioni umane come materiale per la creazione coreografica, non sia stato citato dalla critica americana ma solo fuggevolmente nell’introduzione storica al tanztheater. Singolare perché il suo lavoro del 1932, The Green Table, era stato visto a New York pochi anni prima, nel 1981, nella ricostruzione del Joffrey Ballet, un lavoro che non poteva passare inosservato perché pietra miliare nella storia della coreografia del Novecento. Certo, a parte la scena iniziale e finale, si tratta di un balletto e se non ci si addentra nella costruzione della gestualità dei personaggi è difficile tracciare un legame con la contemporaneità della Bausch. Vi lascio un documentario molto bello che racconta la vita di Jooss e regala uno spaccato della storia della danza del Novecento in Europa: un’occasione anche per ascoltare Bausch e vederla danzare come la vecchia madre nel capolavoro del maestro ( a 37’55’’, poi 42’04’’ e 43’30’’).
Osservare attraverso lo sguardo di una diversità culturale è indossare un’estraneità che permette un dialogo che è apprendimento. Certo siamo unici e irripetibili nella nostra creatività ma la danza di questi ultimi anni ha dimostrato che in questo essere unici c’è anche un dialogo aperto con i codici storici che ci hanno preceduti. Dialogare non per reiterare o semplicemente lasciarsi ispirare, ma per riattivare una tensione artistica che ha prodotto codici compositivi, soluzioni di linguaggio fisico e gestuale e modalità di relazione con il pubblico che possono continuare a nutrire la creazione contemporanea. Rivisitare per comprendere, non come semplice dato storico ma per ritrovare i percorsi dell’incarnazione di un pensiero che ci ha preceduti e da quella comprensione riaprire un dialogo per ricreare.
* TDR The Drama Review. Volume 30, Number 2. Summer 1986
** Marcia B. Siegel. The Hudson Review. Volume XXXIX, Number 1. Spring 1986